L’Unione Europea prosegue nella sua
stretta sui canali non ufficiali di informazione su internet. Le misure hanno ancora un notevole margine di ambiguità: si va dall’intimidazione nei confronti dei gestori delle piattaforme, sino all’istituzione di un “gruppo di verificatori” delle informazioni diffuse su internet.
L’iniziativa della Commissione Europea è corredata dalla “notizia” (una “fake”?) secondo cui la maggioranza della pubblica opinione considera le cosiddette “fake news” una “minaccia per la democrazia” (ma quant’è cagionevole ‘sta democrazia). L’annuncio più eclatante è però che sarebbero già stati monitorati tremilanovecento casi di disinformazione “pro Cremlino”. Come a confessare che il confronto politico-militare con la Russia continua ad essere il principale, se non esclusivo, movente dell’allarmismo.
Sono stati da più parti giustamente denunciati i pericoli per la libertà di espressione di queste misure adottate dall’UE. D’altra parte non si può neanche avallare troppo l’enfasi che viene data nel descrivere il fenomeno dell’informazione fuori dal mainstream che viene lanciata su internet, un fenomeno che rimane comunque di “nicchia”. La stragrande maggioranza delle persone continua infatti ad “informarsi” con i telegiornali ed i talk-show ed anche i casi dei blog più popolari sono comunque supportati dalla notorietà televisiva dei loro conduttori.
Se è vero che circolano da anni su internet versioni alternative sulle guerre in Siria ed in Ucraina, è anche vero che queste versioni raggiungono ancora una piccola minoranza della popolazione. Al di là delle leggende, non vi è alcuna prova che sia internet a spostare masse di voti e opinioni.
La querelle delle presunte “fake news” su internet è quindi un modo per mettere in secondo piano il vero problema, cioè il carattere inefficace e controproducente dell’attuale propaganda occidentale contro la Russia. Anche nella recente vicenda del presunto attacco chimico di Assad e della relativa rappresaglia missilistica occidentale, la gran parte dell’opinione pubblica non ha contestato le premesse propagandistiche dell’attacco, ma non ne ha neppure condiviso le conseguenze. Un attacco chimico non è stato ritenuto sufficiente a rischiare un confronto nucleare. L’assunto apocalittico della propaganda ufficiale ha suonato come una sorta di “fiat iustitia et pereat mundus” che ha spaventato la maggioranza delle persone, un po’ come è avvenuto per il “fiat Europa et pereat Italia” che ha caratterizzato la comunicazione degli ultimi governi italiani.
Aver convinto la pubblica opinione che i Russi sono i cattivi non ha quindi comportato l’avallo alle politiche aggressive, tanto che un codino occidentalista come Gentiloni ha tenuto a precisare che non vi è stata alcuna partecipazione attiva dell’Italia all’iniziativa del lancio dei missili contro la Siria. Allo stesso modo non si è riuscito a convincere gli imprenditori italiani che i Russi, per quanto “cattivi”, non siano per questo dei buoni clienti. Nel 2017, nonostante le sanzioni economiche decise dalla UE,
l’incremento degli affari con la Russia è stato inarrestabile e a darne la notizia è stato l’ufficialissimo quotidiano confindustriale.
Il mito personale di Putin è stato a sua volta una creazione indiretta della propaganda dei media ufficiali e non dei blog alternativi. Sul piano dell’immagine Trump e Macron sono risultati infatti molto meno rassicuranti di Putin e di ciò sta risentendo anche un’opinione pubblica pur allevata da sempre nella diffidenza e nell’ostilità verso la Russia.
La scompostezza della propaganda occidentale ha finito per accreditare un’immagine pubblica di Putin come persona pacata ed equilibrata: il furore moralistico ed adolescenziale dei governanti occidentali contro l’atteggiamento magari cinico, ma adulto e responsabile, di Putin. Un “Putin grande statista” che nella realtà non esiste, ma che è diventato un luogo comune per gran parte dell’opinione pubblica in Europa.
Non a caso quell’inseguitore degli umori dell’opinione pubblica che è Matteo Salvini ha adottato Putin come nume tutelare. Il Putin salviniano è un’icona che galleggia al di sopra di qualsiasi visione strategica sia reale che ipotetica. Ma questo è un ulteriore segnale del disastro dell’attuale propaganda occidentale, poiché sembra quasi che il problema non sia di sciogliere la NATO ma di assegnarle un tutore esterno, come se si trattasse di un minorenne deficiente.
Colui che avrebbe dovuto essere percepito come il nemico irriducibile, il nuovo Hitler, viene invece oggi considerato da molti come il potenziale grande protettore. Dopo il seppellimento del mito dell’Unione Sovietica, proprio la propaganda occidentale nell’arco di poco più di un decennio ha resuscitato il mito della Russia, rendendolo persino più accattivante ed espansivo di quello sovietico.
All’inizio del loro mandato sia l’Amministrazione Obama che l’Amministrazione Trump sono apparse consapevoli della necessità di adottare un profilo propagandistico più basso nel confronto/scontro con la Russia. Entrambe le Amministrazioni si sono poi fatte prendere la mano e si è dovuto anche assistere ai tweet del cialtrone Trump per annunciare il bombardamento sulla Siria.
Il personaggio simbolo di questa ripetitività ossessiva ed acritica del modello di propaganda occidentale è senza dubbio il francese Bernard-Henri Lévy. Si tratta di
un modello di propaganda narcisistico ed autoreferenziale che ha funzionato solo con i settori già allineati e fanatizzati ed ora sta mettendo in crisi persino quelli. Se Putin avesse dovuto pagarsi da solo i suoi spin doctor non avrebbero certo lavorato meglio.