Nell’epoca nella quale la metà degli elettori non va a votare, la prossima scadenza elettorale non manca ugualmente di suscitare attese e trepidazioni. Per ridimensionare l’effettiva portata della scadenza elettorale, occorre ricordare che poco più di un anno fa una significativa maggioranza di elettori aveva respinto il progetto renziano di riforma costituzionale. Eppure, a distanza di pochi mesi, nel febbraio di quest’anno, di fatto è passata, in modo surrettizio, una vera e propria riforma costituzionale camuffata da sentenza della Consulta. Praticamente un colpo di Stato. Un altro colpo di Stato dopo i tanti a cui ci aveva abituato Giorgio Napolitano.
Alcuni hanno salutato la sentenza con entusiasmo, come una restaurazione dei principi costituzionali; altri ne hanno invece sottolineato elusioni ed ambiguità. I più però non hanno notato che una sedicente “giurisprudenza” costituzionale si è in effetti trasformata, del tutto abusivamente, in una nuova legiferazione costituzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale ha sì smantellato gran parte dell’impianto della legge elettorale renziana detta “Italicum”, ma, nel farlo, ha introdotto
modifiche sostanziali dell’ordinamento. La prima modifica riguarda l’accettazione della cosiddetta “governabilità”.
La Corte infatti indica la “stabilità del governo del Paese” e la “rapidità del processo decisionale” come “obbiettivi di rilevanza costituzionale”. La Carta Costituzionale non offrirebbe alcun appiglio a tale affermazione ma, comunque, si tratterebbe pur sempre di obbiettivi “di rilevanza” costituzionale che, in quanto tali, dovrebbero soccombere di fronte ad un principio costituzionale tout court come la rappresentanza. “Ubi maior minor cessat” dicevano i giuristi romani. Invece no, dato che la Corte ha introdotto arbitrariamente l’esigenza di un “equilibrio” tra questi due principi, come se fossero di pari grado.
In nome di questo “equilibrio” tra rappresentanza e governabilità, i giudici costituzionali fanno il vero colpo gobbo, cioè portano al 40% la soglia per accedere al premio di maggioranza. In altri termini “maggioranza” non significa più il 50% più uno, ma c’è uno sconto del 10%. Non viene riformata soltanto la Costituzione ma anche l’aritmetica.
Il 50% più uno era considerata storicamente la soglia in grado di far avvenire la transustanziazione per la quale la parte diventava il tutto. Il 50% più uno poteva arrogarsi il diritto di considerarsi volontà generale, mentre adesso si diventa volontà generale con un misero 40%.
Questa enormità, che affossa millenni di Storia, è passata in silenzio, senza clamori e proteste e, per di più, ciò avviene non in un sistema maggioritario di tipo britannico, bensì in un sistema elettorale che viene definito “proporzionale”. Questi sono i paradossi della “governabilità”, cioè dei colpi di Stato a scadenze regolari.
Verrebbe da chiedersi come mai nell’epoca del dominio incontrastato del cosiddetto “liberismo”, che non fa altro che sminuire la funzione del governo, si vede concentrare tanto ardore e tanto zelo nel perseguire l’obbiettivo della governabilità. In realtà il “liberismo” non è affatto liberista come dice di essere, ma è un assistenzialismo per ricchi; e bisogna sempre essere molto solleciti ad assistere i ricchi, perché non hanno affatto la pazienza dei poveri.
I provvedimenti assistenziali a favore dei ricchi sono denominati in codice come “riforme strutturali”. Anche quest’anno infatti la Banca Centrale Europea non ha perso occasione per ricordarci che
l’attuazione delle riforme strutturali da parte dei governi risulta troppo “lenta”. Ecco che si spiega il motivo per cui la “rapidità del processo decisionale” è diventata tanto cara anche alla nostra Consulta golpista.