La tesi dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano secondo cui la mozione parlamentare del PD contro il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco violerebbe la “autonomia della banca centrale” è molto azzardata dal punto di vista del bon ton istituzionale. Affermare infatti che esistano materie nelle quali il parlamento non possa dire la sua, implica la concezione di un parlamento a “sovranità limitata”; una concezione che, peraltro, non è nuova per Napolitano che, da presidente, impedì nel 2013 al parlamento di pronunciarsi sulla
questione degli F35. Il fatto che un ex “custode della Costituzione” continui a non perdere occasione per ricordare al parlamento che non conta nulla, la dice lunga sulla scompostezza e sulla sguaiataggine di coloro che “guidano le istituzioni”.
La sortita di Napolitano è un regalo fatto a Matteo Renzi, proprio nel momento in cui l’entrare nel merito delle questioni lo avrebbe invece fatto a pezzi. Anche l’insistere sulla vicenda di Banca Etruria è una bazzecola, se si considera il vero crimine commesso da Renzi alla fine del 2015, quando anticipò di mesi l’applicazione della normativa europea del “bail in“ che avrebbe dovuto decorrere dal gennaio dell’anno successivo. Fu appunto quella la variabile che fece impazzire il sistema bancario italiano scatenando il panico sui titoli di Borsa. Non si possono infatti considerare cause scatenanti della crisi bancaria né la mancata vigilanza della Banca d’Italia, né l’irresponsabilità dei banchieri, poiché queste sono costanti storiche del sistema. Un banchiere che non abbia istinti criminali ed un banchiere centrale che non abbia propensione alla connivenza, non sono nel novero delle possibilità umane.
È facile supporre il motivo per il quale Renzi accettò il cattivo consiglio di Draghi di anticipare l’applicazione del “bail in”, cioè dimostrarsi il primo della classe, il più ligio ad applicare le regole. In altre parole, si trattò di velleitarismo, di cialtroneria. Renzi ha incarnato ancora una volta il mito della “politica del fare”, la fiaba secondo cui un Paese immobilista impedisce sistematicamente ai suoi aspiranti “salvatori” (i Mussolini, i Craxi, i Buffoni di Arcore, i Prodi e i Renzi) di smuoverlo dalla sua storica stagnazione. Nel caso di Renzi (ed anche del Buffone nel suo governo del 1994) la fiaba fu auto-smentita dall’inizio ponendo il proprio governo sotto la tutela di esponenti del Fondo Monetario Internazionale come Lamberto Dini e Pier Carlo Padoan, come a dire: sono il più bravo, ma intanto mi prendo un tutore proveniente da un’organizzazione sovranazionale.
La vera incapacità dimostrata in questi anni dalla classe politica italiana è stata quella di non riconoscere lealmente la propria condizione di debolezza internazionale e di non riuscire a tenere un basso profilo nell’attesa che le follie eurocratiche si spegnessero da sole. Nel settembre dello scorso anno era bastata un’indiscrezione su una dichiarazione elettorale della cancelliera Merkel per far crollare in Borsa il titolo di Deutsche Bank. La Merkel aveva detto che non sarebbero stati impiegati fondi pubblici per salvare Deutsche Bank ed i “Mercati” - che sono i primi a sapere che senza i soldi pubblici la pacchia finirebbe in un batter d’occhio - reagirono di conseguenza affossando le azioni della superbanca tedesca. Ci volle perciò
una nuova “indiscrezione” sulle intenzioni della Merkel, stavolta di segno opposto, per rassicurare i “Mercati”.
Nei prossimi anni ci saranno Deutsche Bank e BNP Paribas da salvare e quindi il “bail in”, già oggi disapplicato, verrà messo definitivamente in soffitta. In Italia, invece, degli insolenti consulenti del governo come Luigi Marattin continuano a ripetere la pura stupidaggine secondo cui le banche sarebbero aziende come le altre e quindi possono fallire, come se non fossero arcinoti gli effetti a catena che ne deriverebbero.
Ma la cialtroneria costituisce la costante della politica estera dell’Italia. La cialtroneria del ministro Carlo Calenda nella vicenda Fincantieri si è appunto manifestata quando egli, invece di ritirarsi silenziosamente e in buon ordine dopo la rottura dei patti da parte del presidente francese Macron, si è lasciato andare a dichiarazioni di sfrenato orgoglio nazionale. La conseguenza è che la missione a Roma del ministro francese dell’Economia per “rabbonire” il governo italiano, si è trasformata in una nuova trattativa e nell’ennesimo accordo bidone.
La cialtroneria non nasce affatto dalla debolezza, bensì dal vivere la condizione di debolezza come una colpa da cui riscattarsi velleitariamente. In questo senso la cialtroneria rappresenta da un lato la manifestazione plateale della cattiva coscienza delle classi dirigenti collaborazioniste del colonialismo, dall’altro la cialtroneria diventa un vero e proprio strumento di auto-sottomissione coloniale.
Ogni processo di colonizzazione si pone su basi di reciprocità, cioè ogni ingerenza coloniale si sovrappone ad una richiesta di colonizzazione. Un Paese colonizzato partecipa alla propria colonizzazione sia invocando l’aiuto dello straniero per ridimensionare le pretese delle classi subalterne, sia generando le ideologie che riconfermano e perpetuano la colonizzazione.
Il razzismo interno, l’autorazzismo, è a più facce. In Italia alla criminalizzazione delle regioni del Sud è corrisposta la cialtronizzazione delle regioni del Nord. Negli anni ’80 i media fabbricavano l’immagine della Milano vincente, della “Milano da bere”, spingevano sino alla caricatura l’enfasi sui successi della moda e della nuova finanza. Il leghismo ha rappresentato la forma politica di questa cialtronizzazione, sotto l’egida di un falso federalismo che era, ed è, un separatismo più o meno strisciante.
Dal punto di vista elettorale
i recenti referendum del Lombardo-Veneto si sono rivelati degli insuccessi, in quanto neppure la metà degli elettori ha risposto all’appello al voto. La principale città, Milano, ha dimostrato l’accoglienza più tiepida con una bassissima affluenza alle urne.
Eppure il “dibattito” politico è riuscito a trasformare questo insuccesso in una vittoria, ponendo le condizioni per un’estenuante destabilizzazione interna.
La Lega Nord era stata accreditata negli anni scorsi di poter svolgere un ruolo di recupero della “sovranità nazionale” in funzione antieuropea, ma ha riconfermato invece il suo ruolo di agenzia coloniale. Il problema è che tutti gli altri, a cominciare dal governo, l’hanno inseguita sullo stesso piano. Gentiloni si è immediatamente reso disponibile ad una “trattativa” che non può aver altro esito che indebolirsi ulteriormente sul piano negoziale in campo internazionale.