La parodia del politicamente corretto, oggi vigente in Europa, ha posto alla gogna mediatica la scelta del nuovo buffone della Casa Bianca di defilarsi dall’accordo di Parigi sul clima. Quell’accordo era stato voluto proprio dall’icona del politicamente corretto, Barack Obama. Non è la prima volta nella storia che gli USA facciano di questi bidoni: nel 1919 il presidente Wilson impose agli altri Paesi vincitori della prima guerra mondiale la nascita della Società delle Nazioni (l’antenata dell’ONU), ma poi il Congresso USA non ratificò l’operato del suo presidente. È prassi normale nella politica internazionale americana l’imporre agli altri dei trattati a cui gli stessi USA poi non si sentono vincolati; e la loro messinscena democratica consente di questi voltafaccia senza rischiare di essere accusati di doppiogiochismo.
L’uscita degli USA dall’accordo peraltro cambia di poco le cose. Obama aveva disegnato l’accordo in funzione degli interessi delle multinazionali USA, le maggiori detentrici di brevetti nel campo delle tecnologie a presunto basso impatto ambientale; perciò, dato che le multinazionali sono in posizione di forza nei confronti di quasi tutti gli Stati, compresi molti Stati americani, i risvolti di business dell’accordo di Parigi rimarranno intatti.
La decisione di CialTrump si muove quindi sul piano del meramente simbolico. Il nuovo presidente USA ha impostato il suo piano di impatto mediatico proponendosi come icona del politicamente scorretto, in opposizione al suo predecessore. Questo sinora appare l’unico cambiamento della politica USA, dato che negli atti di CialTrump non si è configurata alcuna inversione di rotta nel rapporto tra finanza ed economia reale. Il nuovo “asse preferenziale” costituitosi tra USA e Arabia Saudita va appunto nel senso del perpetuare il dominio del movimento dei capitali.
I movimenti di capitali hanno sempre effetti destabilizzanti ed infatti l’Arabia Saudita, forte delle centinaia di miliardi appena elargiti agli USA, ha immediatamente avviato un brutale regolamento di conti con il suo principale concorrente sul mercato dei capitali, cioè il Qatar, accusato persino di
“finanziare il terrorismo”. L’accusa è senz’altro fondatissima, ma che provenga proprio dall’Arabia Saudita costituisce un’ipocrisia degna del Sacro Occidente.
Anche per ciò che riguarda la politica interna, CialTrump non ha dato segni significativi di discontinuità col passato. L’attesa della drastica svalutazione del dollaro, che consentirebbe un rilancio delle esportazioni USA ed un ridimensionamento dell’invadenza commerciale della Germania e della Cina, è rimasta appunto un’attesa. In Italia molti “sovranisti” continuano a sperare in un’alleanza con gli USA in funzione antitedesca, ma, per il momento, sono solo speranze.
Il problema è che la “sovranità” è un’astrazione e ciò che conta è il rapporto di forza, che oggi è a favore delle lobby finanziarie. USA e Germania certamente si odiano, ma sottostanno alle stesse lobby. La stessa Italia, con il sistema industriale che ancora possiede, potrebbe uscire dall’euro anche domani mattina infischiandosene dei ricatti del Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi. Il problema è che l’Italia come soggetto politico non esiste e qui, come altrove, le scelte sono condizionate sempre dalle solite lobby finanziarie. La finanza non ha neppure bisogno di comandare, tramare o complottare, poiché si impone con la forza del senso comune, ormai radicato nella suggestione secondo cui la via maestra dello sviluppo economico consisterebbe nel dar torto ai poveri e nell’assistere i ricchi.
A proposito di assistenzialismo per ricchi, anche il taglio delle tasse alle imprese annunciato da CialTrump non avrebbe alcun effetto sul rilancio della produzione, perché notoriamente le imprese non investono nella produzione, bensì in prodotti finanziari, ciò che risparmiano sul fisco. C’è, anche in Italia, una forte campagna mediatica che tende a far credere all’opinione pubblica che il
rilancio dell’economia sia legato al taglio delle tasse; ma in realtà un governo che volesse rilanciare davvero l’economia, invece di tagliare le tasse alle imprese, dovrebbe usare quei proventi fiscali per trasformarsi in committente di beni e servizi per quelle imprese. Così davvero le imprese sarebbero costrette ad investire ed assumere personale. Il punto è che le lobby finanziarie non hanno interesse a rilanciare l’economia reale ed i governi si adeguano al loro volere.
Il prezzo del petrolio intanto continua a cadere per il calo mondiale della produzione industriale. La questione della recrudescenza dell’aggressione imperialistica degli USA nei confronti del Venezuela non riguarda il petrolio in sé, che gli USA potrebbero comprare a prezzi stracciati. La vera questione oggi in ballo è quella della movimentazione dei capitali ottenuti dall’estrazione del petrolio venezuelano. Ha suscitato “scandalo” tra gli oppositori di Maduro la decisione di Goldman Sachs di acquistare
obbligazioni dell’ente petrolifero venezuelano, più di due miliardi di bond pagati a circa un terzo del valore nominale. L’accusa a Goldman Sachs degli aspiranti golpisti venezuelani è quella di aiutare un “dittatore”, come se Maduro fosse stato eletto presidente con metodi più sordidi di qualsiasi altro capo di Stato o di governo. È chiaro che il mainstream ha le sue leggi inesorabili ed impone il suo conformismo, tanto che oggi anche a “sinistra” fa brutto non dire che Maduro è un dittatore.
È chiaro anche che mesi di destabilizzazione interna al Venezuela, causata proprio dalle ONG legate agli USA, hanno costretto l’ente nazionale del petrolio venezuelano a “internazionalizzare” i suoi profitti. Potrebbe essere un compromesso momentaneo, ma anche l’inizio di una resa totale del regime chavista al dominio della mobilità dei capitali; cosa che comunque non lo preserverebbe da un colpo di Stato camuffato da “rivoluzione colorata”.