La vicenda del pazzo dittatore nord-coreano con la bomba atomica sembrerebbe uno di quei successi senza tempo, ciò che gli anglosassoni chiamerebbero un "evergreen". Al contrario, la fiaba mediatica del dittatore pazzo è erosa da un crescente scetticismo trasversale, tanto che, per supportarla, è stato necessario associarla ad uno di quei personaggi pubblici addetti alla provocazione a tempo pieno, di quelli che affidano la loro credibilità al proprio discredito personale, cioè Antonio Razzi. Un'operazione analoga fu condotta nei confronti di Gheddafi, accostato mediaticamente ad un altro campione del discredito, il Buffone di Arcore.
Lo scopo di queste fiabe mediatiche è quello di seppellire la categoria di imperialismo sotto una discussione a vuoto a proposito di persone e modelli sociali, come se gli intenti aggressivi del sedicente Occidente non esistessero; perciò, in base ai canoni della parodia del "politically correct" vigenti nella "sinistra", si potrebbe discutere di Corea del Nord come se gli USA negli ultimi tempi non avessero già aggredito la Serbia, l'Afghanistan, l'Iraq, la Libia e la Siria, e sicuramente nella lista ci si è dimenticato di qualcosa. In base alla parodia del "politicorretto", la nostra missione di "occidentali" nei conflitti internazionali sarebbe di stabilire chi siano i buoni e chi i cattivi; e, nell'ambito di questo gioco, oggi ci viene concesso di "schierarci" con i Curdi, come se lo "schierarsi" contasse qualcosa.
Il problema è che l'imperialismo non riguarda solo gli "altri"; anzi, ogni aggressione ad un altro può costituire un modo indiretto di aggredire noi. Lo si è visto sin troppo clamorosamente nel 2011, quando l'aggressione della NATO alla Libia ha mostrato che uno dei bersagli dell'operazione era proprio l'Italia, sia per distruggere il rapporto commerciale preferenziale della Libia con l'Italia, sia per porre l'Italia al centro di un'ondata migratoria. Stranamente, nel dibattito politico fumoso e inconsistente che caratterizza l'arena mediatica, è pervenuto un barlume di realismo nella
polemica che contrappone in questi giorni il Presidente del Consiglio Renzi al presidente della Commissione Europea Juncker.
Una parte preponderante di questa polemica è basata su una questione assolutamente nulla come la "flessibilità" dei conti pubblici. In realtà, in base al Trattato di Lisbona, Renzi avrebbe già diritto ad adottare tale flessibilità in quanto ha varato delle cosiddette "riforme strutturali". Il punto è che la vera via maestra per contenere gli effetti recessivi dell'euro era proprio quella di non fare le "riforme" del mercato del lavoro, del sistema bancario e della Scuola, poiché queste misure rendono l'economia italiana sempre più fragile di fronte all'attacco delle multinazionali estere.
L'altro tema di confronto polemico con Juncker è invece talmente concreto che non può trattarsi di farina del sacco di Renzi. Il fatto che il governo italiano si sia blandamente opposto all'erogazione da parte dell'Unione Europea dei tremila miliardi alla Turchia per "gestire" l'emergenza immigrati, non ha infatti solo il senso di opporsi al ricatto di Erdogan, ma è soprattutto indizio del fatto che nei nostri apparati polizieschi e militari vi sia la convinzione che quei soldi saranno utilizzati per aggravare la pressione migratoria sui nostri confini. Insomma, anche nelle nostre servili oligarchie pare che qualcuno inizi a temere l'irresponsabilità dell'imperialismo della NATO per gli effetti che potrebbe sortire sul suo quieto vivere.
D'altra parte la polemica del governo italiano non è indirizzata verso il vero responsabile, cioè la NATO, ma verso un'istituzione di facciata come la Commissione Europea. In questo senso il rancore di Juncker verso l'insolenza di Renzi è pienamente comprensibile, se si considera che il lussemburghese è soltanto un passacarte e che la sua possibilità di mediazione è prossima allo zero, perciò il suo ruolo istituzionale è unicamente quello di fingere di avere uno scopo nella vita.
La stessa nascita dell'euro avvenne non soltanto all'ombra della NATO, ma anche sotto la sua pesante ingerenza. In un articolo sul quotidiano "Il Foglio" dello scorso anno, l'ex ministro Giorgio La Malfa ha narrato la storia della nascita dell'euro come una
commedia degli equivoci, nella quale nessuno degli attori voleva davvero la moneta unica.
D'altro canto pare che Ugo La Malfa, il padre di Giorgio, ci abbia fornito dati del tutto diversi. Nel 1978, quando al parlamento italiano fu dato da approvare dal governo Andreotti l'ingresso nel Sistema Monetario Europeo (l'antenato dell'euro), il Partito Comunista Italiano si oppose, e lo fece in base ad
una relazione di Giorgio Napolitano, nella quale erano messi in evidenza gli effetti disastrosi che un vincolo monetario di quel tipo avrebbe provocato sulla nostra bilancia dei pagamenti e sulla nostra economia in genere. Alle ritrosie del PCI, Ugo la Malfa oppose una dichiarazione minacciosa, e cioè che rifiutare lo SME avrebbe significato per il PCI collocarsi al di fuori dell'Occidente e della NATO. Già nel 1978 il legame tra moneta unica europea ed obbedienza NATO era stato dichiarato, e più chiari di così non si poteva essere.
Nel 1978 però Napolitano liquidò le parole di Ugo La Malfa come gratuito terrorismo; ma negli anni successivi lo stesso Napolitano ha dovuto ricredersi, tanto da abbandonare i suoi doppi giochi da massone per diventare un fervido ed incondizionato sostenitore dell'euro e della NATO. Tanto più che ormai, scomparsa l'Unione Sovietica nel 1991, il timore della NATO era diventato autentico terrore. La NATO fa tanta paura che nessuno se la sente di affrontarla di petto, perciò è meglio prendersela con Juncker.