Le dichiarazioni del ministro del Lavoro (?), Giuliano Poletti, sul
superamento dell'orario di lavoro come strumento contrattuale sono state accolte dai sindacati in parte come il consueto annuncio/spot/diversivo, in parte come riproposizione acritica dell'ultra-liberismo come soluzione dei problemi economici e sociali. Queste reazioni possono apparire sensate, ma in realtà prescindono dal dato fondamentale, e cioè il conflitto di interessi legato alla persona del ministro Poletti.
Il ministro Poletti proviene infatti da un'agenzia di "somministrazione" del lavoro (quelle che una volta si chiamavano agenzie di lavoro "interinale"), perciò egli esprime gli interessi di una lobby nata attorno ad un tipico business della recessione, cioè lo sfruttamento della disoccupazione e del precariato attraverso un'intermediazione parassitaria. Le dichiarazioni di Poletti costituiscono quindi un messaggio di rassicurazione alla propria lobby, a cui si fa sapere che il governo intende continuare per la stessa strada: nessun limite alla disoccupazione ed alla precarizzazione del lavoro.
Ad ottobre l'ISTAT ha pubblicato dei
dati confezionati in modo confuso ad uso dei telegiornali, dati da cui risulterebbe, ad una lettura superficiale, un calo della disoccupazione ed un conseguente successo delle politiche governative. La stessa notizia, sulla carta stampata, si presta a tutt'altra lettura, poiché il presunto calo della disoccupazione avviene a fronte di un aumento degli "inattivi", cioè di quelli che rinunciano ad iscriversi alle liste di disoccupazione. L'inattività non è solo l'effetto dell'inutilità della ricerca di un lavoro, ma soprattutto di salari troppo bassi e di condizioni lavorative troppo vessatorie, che costringono a consumare i già magri salari in spese di trasporto e di salute.
Sul mercato del lavoro rimangono quindi i "disposti a tutto", coloro che sperano in un'occupazione in funzione del continuare a sperare che tale occupazione si stabilizzi. Si tratta delle vittime ideali dell'intermediazione parassitaria delle "agenzie di somministrazione", come quella di Poletti, la quale ha un nome involontariamente autoironico : "Obiettivo Lavoro". I sindacati avrebbero potuto incamerare la confessione del lobbista Poletti come un proprio risultato, e non c'era neppure bisogno di rinfacciare apertamente a Poletti il suo conflitto d'interessi, poiché bastava ricordare che la precarizzazione è diventata un business per alcuni. I sindacati hanno invece preferito parlare d'altro, con ciò alimentando il sospetto che in quel business anche gli stessi vertici sindacali siano coinvolti.
Si tratta di uno schema comunicativo ricorrente, - anzi, costante -, per il quale una questione di business, e di annesso lobbying, viene spostata sul piano astratto del confronto ideologico. L'ideologia, da strumento per interpretare la realtà, diventa un modo per oscurarla. Tale schema comunicativo vale a tutti i livelli. La destabilizzazione del Vicino Oriente ha permesso l'insediamento di una rete di affari legata al traffico di armi ed al contrabbando di petrolio. Nella comunicazione ufficiale, e di gran parte delle opposizioni, tutto ciò è stato messo in ombra grazie allo spostamento dell'attenzione sul dato religioso. L'Islam viene apertamente criminalizzato dal razzismo antropologico delle destre, che lo presentano come culto della violenza e della conquista; oppure indirettamente criminalizzato dal razzismo sociologico delle sinistre, che presentano il fanatismo islamico come espressione della frustrazione degli esclusi e degli emarginati.
Si è arrivati ad una mitizzazione dell'ISIS, alla narrazione delle doti soprannaturali di un'organizzazione espressione sia dell'Islam più fanatico e retrivo che dell'efficientismo più moderno. L'ISIS si autofinanzierebbe attraverso la tassazione dei territori che controlla (una sorta di "equi-ISIS"). Oppure ci si è raccontato che l'ISIS fa traffico di petrolio, ma, visto che non possiede una flotta di petroliere, allora si è andati a concludere che lo rivende allo stesso Assad, lo stesso contro il quale l'ISIS combatte. Oggi persino un settimanale come
"l'Espresso" ammette però che la storia del traffico di petrolio gestito direttamente dell'ISIS è stata gonfiata e non corrisponde ai dati disponibili. Cos'è successo da indurre una parte della stampa alla rettifica?
A tagliar corto su queste fiabe è arrivata la pubblica confessione del presidente turco Erdogan, il quale abbattendo l'aereo russo che stava colpendo le vie di comunicazione del traffico di petrolio, ha ammesso pubblicamente il proprio coinvolgimento nell'affare. Ecco che allora il ridimensionare le cifre sul contrabbando di petrolio dell'ISIS giunge tempestivamente a minimizzare le colpe di Erdogan, il quale magari qualche affaruccio con l'ISIS l'ha fatto, ma sarebbe poca cosa.
Per quanto di scarsa entità, i traffici con l'ISIS avrebbero dovuto comunque collocare la Turchia nella lista dei paria internazionali o degli "Stati Canaglia". Invece è accaduto tutt'altro, dato che la Turchia qualche giorno fa si è vista addirittura concedere dall'Unione Europea tre miliardi di euro per la gestione del
business dell'emergenza migranti; ed in più si sono persino riaperte le trattative per l'ingresso della stessa Turchia nell'Unione Europea, un ingresso che solo un anno fa appariva definitivamente bloccato.
Questo eccesso di solidarietà nei confronti della Turchia può essere interpretato come un pubblico riconoscimento di corresponsabilità dell'UE nei business che oggi vedono coinvolta la stessa Turchia, e non solo quelli del traffico di petrolio e armi, ma anche quello del traffico di migranti. Forse Erdogan non è l'unica canaglia, e neppure la principale, ma solo quella che si è esposta di più. Qui il problema evidentemente non riguarda le briciole gestite dall'ISIS, e neppure la sovraesposizione di Erdogan, ma c'è qualcosa di molto più rilevante da nascondere. Si può essere certi che anche queste confessioni non verranno accolte come tali, e si preferirà parlar d'altro.