Mentre si prospetta addirittura una privatizzazione della Banca d'Italia, il governo Letta/Saccomanni ha già avviato una
privatizzazione delle Poste, e soprattutto del suo nocciolo pregiato, cioè BancoPosta. Dato che BancoPosta produce utili che vanno al suo azionista unico, lo Stato, appare del tutto logico e trasparente che il governo decida di privarsi di questa fonte di entrate, con la motivazione ufficiale di "fare cassa".
Il decreto del governo prevede che circa il 40% delle azioni venga messo sul "mercato". Come era avvenuto per la privatizzazione dell'Enel ai tempi del secondo governo Amato, una quota attorno al 5% delle azioni dovrebbe essere venduta a dipendenti delle Poste, in modo da poterli turlupinare delle loro liquidazioni. Il decreto prevede inoltre che la quota più consistente, un 50/60% delle azioni in vendita, sia riservato a "investitori istituzionali", cioè banche. Sarebbe interessante valutare la credibilità di questi "investitori istituzionali", verificando quali siano oggi le loro effettive capacità di "investire" senza ricevere aiuti sottobanco da parte dello Stato. Il principale partner di BancoPosta per la commercializzazione di prodotti finanziari è Deutsche Bank, che poco più di una settimana fa ha subito un
tonfo borsistico, in seguito alla pubblicazione dei suoi bilanci in rosso.
La stessa Deutsche Bank risulta esposta per titoli derivati per una cifra di settantremila miliardi di euro. La messinscena dell'emergenza del debito pubblico e dello "spread" ha costituito uno dei più giganteschi depistaggi della Storia per distrarre dall'emergenza vera, quella della voragine dei titoli derivati; infatti mentre il Meccanismo Europeo di Stabilità, nato nel 2012, si fa chiamare "Fondo Salva-Stati", in realtà è un fondo salva-banche. Il sito ufficiale dell'Unione Europea ci assicura che il MES potrà
ricapitalizzare direttamente le banche.
Attualmente Deutsche Bank in fatto di derivati risulta la
banca più esposta di tutte, persino più di JP Morgan. La voragine dei derivati incombe sul sistema bancario europeo e su quello mondiale, tanto che dovrebbe mettere in liquidazione una buona volta la mitologia sulla "virtuosa" finanza tedesca.
Sennonché l'opinione pubblica non viene tenuta al corrente della fragilità del sistema finanziario tedesco, né della sua conseguente ricattabilità da parte di soggetti sovranazionali con sede a Washington, come il Fondo Monetario Internazionale. Sarà una coincidenza, ma all'ombra della mitologia delle virtù finanziarie tedesche, è proprio il FMI ad aver stabilito saldamente il suo dominio sulla UE, in base all'articolo 13 del Trattato del Meccanismo Europeo di Stabilità. Se le notizie sul verminaio del dissesto della finanza tedesca circolassero un po' di più, sarebbe più difficile per il FMI defilarsi come riesce a fare ora.
Il quotidiano confindustriale "Il Sole-24 ore" del 27 gennaio ultimo scorso, ha riportato la notizia di una proposta della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in base alla quale i Paesi in crisi debitoria dovrebbero, prima di accedere ad aiuti e prestiti, dimostrare la loro buona volontà istituendo una severa
tassa patrimoniale una tantum. Bundesbank sta chiaramente facendo da sponda ad una vecchia idea del FMI, da sempre ansioso di mettere le mani su immobili e risparmi del ceto medio italiano, sino a qualche anno fa uno dei più benestanti del mondo. Queste proposte sono lanciate anche per creare confusione nella fintosinistra, da tempo convertita al vangelo fiscale, in base al falso dogma che il fisco rappresenti un mezzo di redistribuzione della ricchezza. Ecco quindi che la "rivolta fiscale" è diventata un alibi ed una bandiera della destra in modo da lasciare alla fintosinistra il lavoro sporco. La visione redistributiva ed egualitaria del fisco in realtà è soltanto una proiezione propagandistica del pretestuoso vittimismo dei ricchi, dato che l'esperienza storica dice proprio il contrario, e cioè che il fisco costituisce uno strumento per togliere a chi ha di meno per dare a chi ha di più. La vera linfa del Capitale non è lo spirito imprenditoriale, ma il denaro pubblico.
L'articolista de "Il Sole-24 ore" ovviamente si nega all'evidenza, ed intona una litania a proposito del proverbiale moralismo tedesco. Parrebbe infatti che, in tedesco, debito e colpa si dicano con la stessa parola; cosa che, peraltro, non risulta al traduttore Google, che quindi andrebbe aggiornato ai fasti della morale teutonica. Con queste pseudo-patenti culturali, che prendono a prestito reminiscenze scolastiche sul Max Weber dell'etica protestante e lo spirito del capitalismo, si riesce a distrarre dai dati di cronaca ed a veicolare il solito razzismo.
Le follie finanziarie tedesche nell'ultimo decennio si sono impersonate nel volto e nel nome del mitico CEO di Deutsche Bank, lo
svizzero Josef Ackermann, che è stato più volte coinvolto in indagini giudiziarie, e sempre accanitamente sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel. Con inflessibile moralismo protestante, la cancelliera ha costantemente dipinto Ackermann come una vittima di magistrati faziosi e inconsapevoli del funzionamento del sistema degli affari. La Merkel usa argomenti che ci si aspetterebbe dal Buffone di Arcore, e non certo da alfieri delle virtù germaniche.
Alla fine però Ackermann ha dovuto lasciare il suo posto di super-manager di Deutsche Bank per ritirarsi nella natia Svizzera, accontentandosi di dirigere uno dei più grandi gruppi assicurativi del mondo, Zurich Insurance. La sfortuna e l'incomprensione però hanno continuato a perseguitare l'ex banchiere, poiché uno dei dirigenti del gruppo assicurativo è morto per
uno strano "suicidio", la cui responsabilità è stata ingenerosamente attribuita ad Ackermann. Solo di recente un'inchiesta interna alla compagnia assicurativa ha scagionato Ackermann dall'accusa di aver suicidato quel dirigente. Non c'è dubbio che quell'inchiesta sia stata condotta con lo stesso rigore morale che contraddistingue tutte le vicende finanziarie germaniche. Purtroppo Ackermann era stato già costretto ad abbandonare la sua carica in Zurich Insurance, quindi ora è libero di andare a far danni da qualche altra parte.