“Quando il governo decise di mandare le truppe tra i monti dell'Hindukush tutte le troupes televisive furono allertate, ricevettero l'incarico di registrare delle interviste a un gran numero di soldati. Uomini che forse non sarebbero ritornati. Se qualcuno degli intervistati, grazie ad un indecoroso calcolo delle probabilità fosse morto si sarebbe potuta trasmettere l'intervista registrata in esclusiva.
Fu una campagna progettata meticolosamente. Ai cronisti furono consegnati i profili psicologici dei partenti e la composizione delle famiglie da cui si stavano separando. "Ci presentavamo in tono dimesso e quando i soldati ci invitavano ad entrare per prendere un tè¨, chiedevamo loro: - Vuoi fare un'intervista prima di partire? Poi ti duplicheremo la cassetta; i tuoi ti potranno vedere a colori tutti i giorni". Condivamo le domande con un sorriso. Fu in quell'atmosfera cameratesca che venne
girato tutto il materiale. Partimmo poi con loro e furono lunghi mesi spesi ad incrociare i nomi degli intervistati e le liste dei caduti.
Quando quella pattuglia di intervistati fu disintegrata le tracce magnetiche registrate in precedenza vennero immediatamente vomitate nell'etere. Fu il mio ultimo incrocio di dati, mollai tutto e mi
persi nei meandri del paese. Tornai a casa solo quando il dottor Muhammad Najibullah il pashtun già sotto protezione delle Nazioni Unite fu ucciso dai Taleban."
Questa fu, in estrema sintesi, la testimonianza registrata di Michail Andreevic Suvorov alla commissione d'inchiesta di Mosca nel 1997.
In uno strambo parallelismo dodici anni dopo, a Milano, Michele sta raccontando la sua storia, con gli occhi lucidi e la testa fra le mani, ad un'attonita Paola, dopo aver ascoltato il telegiornale delle
20,30.”
Appunto scritto ascoltando la radio e navigando nel web il 17 settembre; cercando sugli scaffali "Il viaggio di Abdu" di EugenioTurri e "Sporche guerre. Dall'Afghanistan ai Balcani" di Ettore Mo.
Luciano
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