MANUALE DEL PICCOLO COLONIALISTA N° 11
ALCUNE NOTE SULLA STORIA DI ISRAELE
I nuovi storici israeliani hanno potuto accedere agli archivi ufficiali che hanno cominciato ad essere accessibili nel 1978 – la legge israeliana prevede che essi possano essere aperti solo trenta anni dopo- La storia di Israele si rivela dunque come quella di molti altri Stati, nient’altro che un insieme di miti. Molte delle notizie “rivelate” da questi nuovi storici erano già note, o comunque erano già intuibili per coloro che si sono dimostrati refrattari alla propaganda ufficiale; e tuttavia, nel caso di Israele, la forza e la sistematicità dell’intossicazione informativa, l’allineamento della cosiddetta stampa indipendente e della cultura critica, la copertura e il conformismo internazionale sui temi in questione, gli effetti di dominio e di pulizia etnica che sono risultati da queste distorsioni comunicative, rendono significative queste conferme basate su documentazione di prima mano. Sembra superfluo ricordare che molti di questi nuovi storici israeliani hanno dovuto cambiare aria velocemente dopo aver pubblicato i loro scritti.
Altri archivi, altri documenti dovranno essere prima o poi resi disponibili per comprendere il nesso, anche cronologico, che intercorre tra la nascita del sionismo e le prime compagnie petrolifere britanniche, quelle che a partire dal 1909, diventeranno la British Petroleum. Le compagnie petrolifere occidentali appoggiarono sin dall'inizio, con l'intermediazione di Lord Rothschild, la prospettiva di un insediamento sionista in Palestina, per affidargli il ruolo di guardiano del cosiddetto Occidente sul Canale di Suez, divenuto la via di approvvigionamento del nuovo affare del petrolio.
Nel 1948, in Gran Bretagna il governo laburista di Attlee era contrario ad appoggiare la nascita di uno Stato sionista in Palestina per non alienarsi i rapporti amichevoli col mondo arabo, ma c'è il sospetto che la British Petroleum abbia scavalcato il proprio governo, intrattenendo rapporti diretti con Stalin, per ottenere l'appoggio decisivo dell'Unione Sovietica alla fondazione di Israele, appoggio sia in termini diplomatici che di armamenti.
• La guerra del 1948 non fu affatto una lotta fra “Davide e Golia” (o almeno, non con gli Israeliani nella parte di Davide), visto che le forze ebraiche erano nettamente superiori sia in effettivi che in armamenti ai loro avversari. Nel momento di maggiore intensità della guerra civile tra israeliani e palestinesi, si contavano solo poche migliaia di combattenti palestinesi, male equipaggiati e spalleggiati dai volontari arabi dell’Esercito di liberazione guidato da Fawzi Al-Qawuqji.
• Anche quando gli Stati arabi intervennero, il 15 maggio del 1948, i loro contingenti erano nettamente inferiori a quelli dell’Hagana, che continuò in seguito a rafforzarsi. Per di più gli eserciti arabi hanno invaso la Palestina in extremis (e alcuni controvoglia), non per “distruggere lo Stato ebraico”, cosa di cui sapevano essere incapaci, ma per impedire a Israele e alla Giordania – in “collusione” secondo lo storico Avi Shlaďm – di spartirsi il territorio devoluto ai Palestinesi dal piano di suddivisione dell’Onu del 29 novembre 1947.
• “Noi siamo in grado di occupare tutta la Palestina, non ho alcun dubbio”, così scriveva Ben Gurion nel febbraio del 1948, tre mesi prima della guerra arabo-israeliana e alcune settimane prima dei massicci invii di armamenti da parte dell’Unione Sovietica. Il che non gli impedì di proclamare senza sosta che Israele era minacciato da un “secondo Olocausto”.
• Altra favola per anni accuratamente alimentata dai dirigenti israeliani, è quella secondo cui i Palestinesi avrebbero lasciato le loro abitazioni e le loro terre volontariamente, in seguito agli appelli lanciati dalle autorità e dalle radio arabe (trasmissioni che la propaganda israeliana ha inventato di sana pianta, come dimostrano le registrazioni integrali realizzate dalla BBC). In realtà, viene confermato quello che si sapeva fin dagli anni 50, che proprio le autorità israeliane costrinsero i Palestinesi all’esodo ricorrendo al ricatto, alla minaccia, al terrore e alla brutalità delle armi per scacciarli da loro territori.
• La pulizia etnica non fu una conseguenza della guerra, ma un progetto pianificato e organizzato. Israele accettò formalmente la suddivisione delle Nazioni Unite, ma i dirigenti sionisti la giudicavano intollerabile. Certo gli era stata attribuita più di metà della Palestina, mentre il resto era assegnato agli Arabi autoctoni, seppur due volte più numerosi degli Ebrei; ma lo Stato d’Israele era troppo esiguo, ai loro occhi, per i milioni di immigrati attesi; inoltre quattrocentocinquemila Arabi palestinesi vi avrebbero coabitato con cinquecentocinquantottomila Ebrei, visto che questi ultimi costituivano solo il 58% della popolazione del futuro Stato ebraico. Il sionismo rischiava di perdere la sua ragion d’essere. Haim Weizmann, futuro primo presidente di Israele si poneva come obiettivo quello di “Rendere la Palestina tanto ebraica quanto l’America è americana e l’Inghilterra è inglese”.
• L’espulsione dei Palestinesi ha sempre ossessionato i dirigenti sionisti; al punto che fin dalla fine del XIX sec. Theodor Herzl suggeriva al sultano ottomano di deportare i Palestinesi. Ben Gurion si diceva “favorevole ad un trasferimento obbligatorio, una misura che non ha niente di immorale.” La guerra del 1948 diede finalmente questa possibilità: il bilancio dell’epurazione etnica è eloquente: in pochi mesi, diverse decine di massacri e di esecuzioni sommarie sono state recensite; cinquecentotrenta villaggi (su un migliaio) distrutti o riconvertiti per accogliere immigrati ebrei; undici centri urbani etnicamente misti, svuotati dei loro abitanti arabi…
• In realtà è proprio con la punta delle baionette che i Palestinesi di Ramleh e di Lydda, quasi settantamila persone, bambini e vecchi compresi, furono scacciati in poche ore a metà luglio del 1948, su istruzioni di Ben Gurion. Respinti verso la frontiera con la Cisgiordania, molti di loro muoiono di stenti per strada. Era avvenuto lo stesso ad aprile a Jaffa, dove cinquantamila degli abitanti arabi fuggirono terrorizzati dal bombardamento dell’artiglieria dell’Irgoun e dalla paura di nuovi massacri. E’ quello che Morris chiama il “fattore atrocità”.
• Questi orrori sono tanto più ingiustificati in quanto numerosissimi villaggi arabi, per ammissione dello stesso Ben Gurion, avevano proclamato la loro volontà di non opporsi alla suddivisione della Palestina e avevano persino, in alcuni casi, concluso accordi di non-belligeranza con i loro vicini ebrei. Così era stato per Deir Yassin, dove, nonostante tutto, le forze irregolari dell’Irgoun e del Lehi massacrarono gran parte della popolazione.
• In tutto, quasi ottocentomila Palestinesi dovettero prendere la via dell’esilio tra il 1947 e il 1949, mentre i loro beni mobili e immobili venivano confiscati. Il Fondo nazionale ebraico si impadronì di trecentomila ettari di terre arabe, la cui parte più consistente fu data ai kibutzim. L’operazione fu perfettamente concepita: all’indomani del voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’11 dicembre 1948, della famosa risoluzione sul “diritto al ritorno”, il governo israeliano adotta la legge d’urgenza relativa alle proprietà degli assenti che, completando quella del 30 giugno 1948 sulla coltura delle terre abbandonate, legalizza retroattivamente la spoliazione e vieta agli spoliati di rivendicare una qualunque compensazione o di reintegrare il loro nucleo familiare. Nonostante le rapine e le violenze cui si abbandonarono i soldati di Tsahal, essi beneficiarono della totale impunità. La comunità internazionale tacque per decenni.
• Fin dal 1923 il padre degli ultranazionalisti ebrei Zeev Jabotinski affermava che bisogna rinunciare ad un accordo di pace prima di aver colonizzato la Palestina al riparo di “un muro di ferro”, visto che gli Arabi capiscono solo l’uso della forza.
• Questa dottrina fu messa in pratica dai politici israeliani sia di destra che di sinistra, che avrebbero sabotato i processi di pace successivi con la scusa che “non c’è un partner per la pace” (Barak); i dirigenti israeliani aspettano sempre che la parte avversa si rassegni ad accettare l’espansione territoriale dello Stato ebraico, lo spezzettamento e la demilitarizzazione di un ipotetico Stato palestinese, condannato a divenire un mosaico di bantustan satellizzati.
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