L’approccio comparativo è importante in quasi ogni analisi, ma ci sono casi in cui potrebbe risultare fuorviante. Gli Stati Uniti ed i loro satelliti occidentali non possono più essere considerati validi termini di paragone, se non a rischio di gravi distorsioni ottiche. A confronto delle dirigenze statunitensi o europee, qualsiasi altra cricca di potere appare un incrocio tra un’Opera Pia e la Scuola di Atene dipinta da Raffaello; e rispetto ai vari Biden, Blinken, von Der Leyen e Scholz, ogni leader politico da loro criminalizzato sembra un santo e un genio. Le sedicenti élite occidentali versano in un tale stato di depravazione che si può cadere nell’errore di adottare il loro caricaturale manicheismo applicandolo all’incontrario. Stabilire gerarchie morali e antropologiche tra male assoluto e mali relativi, per molti risulta divertente, ma comunque rimane un diversivo. Quando un
Putin denuncia i guasti ed i crimini combinati in Medio Oriente dagli Stati Uniti risulta persino troppo moderato ed eufemistico nei toni, ma il punto è che anche le dirigenze russe hanno svolto il loro ruolo di sponda nell’incancrenire la situazione.
Per capire di cosa si sta parlando si può partire da alcuni particolari per risalire poi al quadro generale. Nel 2007 la stampa israeliana riferiva delle
gesta di una banda di nazisti, tutti di cittadinanza israeliana e di provenienza dall’ex Unione Sovietica. Ovviamente la narrazione del “Jerusalem Post” era condita di stupori ed indignazioni, oltre che di perplessità sulle norme sull’immigrazione che avevano consentito che ciò accadesse.
Quanto fosse seria quell’indignazione lo si è riscontrato nel 2018, tre anni prima della guerra per procura tra Russia e NATO, allorché il governo israeliano ignorò le proteste di un’associazione dei diritti umani che denunciava
l’appoggio ed il finanziamento di Israele ai nazisti ucraini del Battaglione Azov. La spregiudicatezza dimostrata in quella circostanza era analoga a quella adottata nelle politiche di immigrazione in Israele.
Negli ultimi anni autorevoli organi di stampa israeliani come “Times of Israel” hanno riportato i dati sulla
massiccia immigrazione dall’ex Unione Sovietica favorita da Gorbaciov. Dalle indagini demografiche risultava che l’identità ebraica degli immigrati non era solo dubbia, ma persino sospetta, e si cominciava a porsi domande sulla cosiddetta regola della nonna, in base alla quale bastava una nonna (o, in contrasto con la tradizione matrilineare, addirittura un nonno) di origini ebraiche per potersi qualificare come tale. Del resto un avo ebreo se lo può inventare chiunque, e non si vede come possa essere smentito senza costose ricerche anagrafiche, del tutto improponibili dato che si tratta di emigrazione di milioni di persone. Magari un antenato ebreo alla fine lo si troverebbe davvero a chiunque, dato che la purezza etnica è una chimera. Sta di fatto che oggi gli ex sovietici rappresentano il gruppo più numeroso in Israele, conservano molte delle proprie tradizioni, tra loro parlano il russo e, in base ai calcoli demografici, avranno il sopravvento elettorale entro la prossima generazione.
Questo afflusso indiscriminato in Israele di cittadini ex sovietici non risale a Gorbaciov, ma addirittura ai tempi di Stalin. Un organo sionista come “Israel for Ever” disegna
un quadro epico e commovente sulla “fuga” degli “ebrei” sovietici dal cattivissimo Stalin. Nonostante le arrampicate sugli specchi e gli svolazzi retorici, un dato però si mostra evidente, e cioè che le varie dirigenze di Mosca hanno sempre considerato Israele una comoda discarica in cui riversare i soggetti indesiderati.
Il dato storico è che Mosca non è mai andata per il sottile nel favorire l’emigrazione delle persone non grate dall’Unione Sovietica, qualificandole di origine ebraica; così come Israele ha fatto finta di non accorgersi di questa incerta provenienza etnica. Il motivo della inevitabilità di tanta disinvoltura lo si scopre nelle
litigate che il padre della patria israeliana, Ben Gurion, si faceva con i sionisti americani. Ben Gurion era arrabbiato poiché i suoi confratelli americani, nonostante vantassero inoppugnabili origini Yiddish, pretendevano di fare i sionisti a distanza, senza stabilirsi in Israele come lui avrebbe voluto. Insomma, Ben Gurion se la prendeva con quel tipico “armiamoci e partite” che è diventato oggi il mantra dei cultori del Sacro Occidente e delle loro “proxy war”.
Non c’è tragedia che non abbia
un risvolto cialtronesco e ridicolo. Nel 2006, durante l’invasione israeliana del Libano, il giornalista Paolo Guzzanti trasformò il “vorrei ma non posso” dei cultori delle proxy war in un accorato inno in cui si esortava Israele a colpire i suoi nemici ovunque fossero. Purtroppo in quell’occasione i trentamila attaccanti israeliani non riuscirono ad accontentare Guzzanti e dovettero ritirarsi a causa delle perdite loro inflitte da tremila miliziani di Hezbollah.
Dato che i nemici hanno quel brutto vizio di reagire e di ammazzare, allora il buonsenso suggerirebbe di non dare retta agli istigatori a distanza e cercare invece un compromesso per trovare un modus vivendi. Purtroppo non dipende solo dalla buona volontà ma soprattutto da chi controlla i soldi, che sono quelli che plasmano la volontà, sia gestendo la narrativa, sia determinando il fatto compiuto che rende difficilissimo fare marcia indietro. La stampa israeliana segnala spesso che sta crescendo la totale dipendenza del presunto “Stato ebraico” dai
flussi finanziari che provengono dai gruppi evangelici statunitensi. In Israele Netanyahu è universalmente riconosciuto come un imbecille, uno psicopatico ed un supercorrotto, eppure da più di venticinque anni vince le elezioni grazie al suo legame con gli evangelici americani. Di provenienza americana ed evangelica è il denaro che finanzia gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, con tutto il corollario di ammazzamenti di palestinesi che gli insediamenti comportano. In base al mitico Diritto internazionale quei finanziamenti dovrebbero essere impediti perché diretti a sovvenzionare l’attuazione di un crimine; ma è chiaro che la legalità vale solo se fa comodo ai potenti.
Si potrebbe pensare che il “sionismo cristiano” sia un fenomeno recente. La ricerca storica ha invece scoperto che il copyright ce l’ha proprio il sionismo cristiano, che è addirittura precedente di due secoli al sionismo ebraico di Theodor Herzl, cosa che toglie ogni argomento a chi afferma che antisemitismo ed antisionismo siano la stessa cosa. Il sionismo cristiano in Gran Bretagna ha una storia molto antica, che risale addirittura al XVII secolo. Secondo il mito, il ritorno degli ebrei in Terra Santa dovrebbe forzare la mano al Padreterno ed accelerare la fine dei tempi con la guerra finale tra il Bene ed il Male. Nella concezione apocalittico-cristiana del sionismo agli ebrei è riservato il lavoro sporco ed anche una sorte abbastanza grama.
L’influenza del sionismo cristiano di matrice britannica fu determinante nella vicenda della Dichiarazione di Balfour del 1917, con la quale il ministro degli Esteri del Regno Unito riconosceva agli ebrei il diritto di una patria in Palestina. Secondo Gershon Shafir, docente presso l’Università di San Diego in California, il sionismo cristiano corrispondeva all’esigenza dell’imperialismo britannico di usare il mito del ritorno ebraico in Palestina come pretesto per creare degli avamposti coloniali nell’area mediorientale.
Uno storico israeliano come
Shlomo Sand arriva addirittura a mettere in discussione la stessa nozione di popolo ebraico, documentando che si tratterebbe di una "invenzione" molto più tarda di quanto si creda. Anche al di là di tali ipotesi, l'identità ebraica di Israele si rivela evanescente. Ma, se opportunamente finanziata, una bolla identitaria può comunque giustificare l'apartheid e la guerra infinita.