Da circa due anni i media mainstream stanno cercando di riciclare il mito della “stagflazione”, che già tanta fortuna riscosse negli anni ’70. Oggi il termine “stagflazione” viene però rivenduto in accoppiata semantica col termine “spettro”, come nel famoso incipit del “Manifesto dei Comunisti” di Marx ed Engels. La parola “spettro” consente infatti di immergere il tutto in un’atmosfera gotica e notturna per rendere meno evidenti le contraddizioni narrative.
Un articolo di “Lavoce.info” dell’ottobre del 2021 (prima della guerra e delle supersanzioni alla Russia) si nascondeva dietro lo “spettro” della stagflazione per non spiegarci a cosa fosse dovuta un’inflazione dei prezzi delle materie prime che non corrispondeva ad alcun aumento della domanda.
I creduloni affezionati alla fiaba edulcorata del capitalismo produttivo e “sviluppista” ci sono sempre. Ma oggi è meno facile vendere il mito della stagflazione a tutti, perché si sa che a Chicago e Amsterdam ci sono mercati finanziari di titoli sulle materie prime (le “commodity”); titoli la cui funzionalità dovrebbe consistere nell’ottenere la merce sottostante indipendente dal luogo o dal produttore. Sulle “commodity” ci sono anche dei titoli derivati, i ”future”, che dovrebbero essere delle assicurazioni a scadenza sulla materia prima in questione. In astratto tutto questo mercato di titoli dovrebbe garantire compratori e venditori dall’alea del mercato; di fatto è l’opposto, perché consente di scommettere sui prezzi futuri delle materie prime. Si crea così l’effetto bisca, fatto di scommesse e di rilanci sulle scommesse. Il prezzo di un “future” può lievitare al punto di superare di molte volte il valore del bene assicurato; sennonché tra il titolo ed il suo sottostante si crea un effetto di rimbalzo, per cui l’uno insegue il prezzo dell’altro.
Queste cose è già difficile capirle oggi; anzi, non si è mai sicuri di averle proprio capite. Ma negli anni ’70 certi fatti non li potevamo neppure sapere, perché non c’era internet, quindi non era possibile accedere agli archivi del “New York Times”. Chi avesse letto
il NYT del 4 aprile del 1972 avrebbe saputo che a Chicago e New York il mercato delle “commodity” stava registrando un boom senza precedenti; si stava cioè creando una bolla finanziaria che non corrispondeva alla domanda ed all’offerta di beni reali, bensì alla speculazione su titoli derivati. In base a quell’articolo era facile prevedere ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, cioè l’esplosione dei prezzi delle materie prime, ed in particolare del petrolio. Come si potevano dissimulare gli effetti depressivi delle bolle finanziarie sull’economia reale? Venne chiamato qualche pubblicitario con talento di poetastro, e gli si fece confezionare un bell’ossimoro che confondesse le menti: “stagflazione”.
Il capitalismo non è quello che ci hanno raccontato; anzi, il capitalismo, e persino lo Stato, sono astrazioni giuridiche, mentre i soggetti concreti in campo sono le lobby d’affari, trasversali al pubblico ed al privato, al legale ed all’illegale. Nel cosiddetto capitalismo il ruolo del lobbying finanziario è sempre stato prevalente rispetto alle esigenze produttive. Oggi qualche sospetto comincia a diffondersi, ma negli anni ’70 fu molto facile scaricare la colpa sui “salari troppo alti” e convincere i dirigenti sindacali a calarsi le brache. Di questi tempi è un po’ ostico parlare di salari troppo alti, però l’Italietta, con la sua finta aria frivola e svagata da Paese dei Campanelli, riesce sempre ad eccellere in campo internazionale quando si tratta di crudeltà e avarizia; perciò ci vengono negati anche i palliativi diffusi quasi ovunque, come il salario minimo ed i sussidi di disoccupazione. L’imbecille professionista riesce sempre a travisare certe notizie come se riguardassero teorie cospirative, mentre in effetti si tratta di automatismi mentali e comportamentali. I potenti non cospirano: sono cospirati dal loro status e dai loro interessi di lobby.
Nel 1962 l’Italietta era in pieno boom economico, il PIL si era raddoppiato in pochi anni; eppure anche allora si aggirava uno “spettro”. Di che spettro si trattasse, ce lo spiegò l’anno dopo
la relazione della Banca d’Italia relativa all’anno1962, redatta dall’allora Governatore Guido Carli. Lo spettro apparso a Carli era quello dei “salari troppo alti”; in quanto, secondo lui, i salari italiani non corrispondevano alla “produttività”. Ovviamente non si forniva alcun riscontro empirico di tale affermazione, che veniva data per scontata. Ciò perché i lavoratori guadagnano sempre troppo; anzi, è pure troppo che vengano pagati, dato che, come si dice comunemente: “si stanno imparando un mestiere”. In quella relazione del 1963, Carli lanciava un’espressione che avrebbe incontrato sempre più successo negli anni successivi: “politica dei redditi”.
Insomma, secondo Carli la priorità non era lo sviluppo economico; anzi, troppo sviluppo consentiva ai lavoratori di approfittarne per allargarsi ed avanzare pretese, facendo saltare le gerarchie sociali, dove il rango è indicato dal reddito. I poveri ci devono essere per forza, altrimenti si creerebbe una sgradevole sensazione di uguaglianza. La Banca d’Italia è l’ente assistenziale per creditori, perciò Carli indicava la priorità di tutelare la lobby dei creditori (le “aziende di credito”, alias le banche), quindi occorreva evitare il rischio di svalutazioni della lira con l’eccessivo acquisto di materie prime, anche a costo di comprimere la domanda interna e di sacrificare un po’ di industrie. Alla politica si intimava di adeguarsi; infatti negli anni successivi il segretario del Partito Repubblicano, Ugo la Malfa, si incaricò di rendere popolare l’espressione “politica dei redditi”, un eufemismo per dire “compressione dei salari”. Più di vent’anni prima del best seller “Donne che amano troppo”, Guido Carli aveva già scritto il grande libro-guida, la bibbia dell’Italietta: “operai che guadagnano troppo”.
La politica si adeguò immediatamente ai consigli di Carli. Nel 1964 avvenne una fuga di capitali all’estero, attratti da titoli con interessi più alti, a dimostrazione che i soldi seguono i soldi e non lo sviluppo economico. Niente di irreparabile, ma l’evento avverso divenne il pretesto per il primo grande esperimento di austerità, cioè il raffreddamento forzato dell’economia, ovviamente a partire dal Meridione, che da sempre funziona da valvola quando si vuole sgonfiare l’economia. I media sintetizzarono questi eventi con
un appellativo di origine astrologica: “congiuntura”. Ma si seppe fare anche di meglio che semplici provvedimenti di austerità, infatti il 1964 fu l’anno del “Piano Solo”, il colpo di Stato allestito dal generale De Lorenzo e dal Presidente Segni. Il golpe si fermò a metà, ma ottenne ugualmente l’effetto intimidatorio; infatti il Partito Socialista, da poco entrato nell’area di governo, si affrettò, quasi al completo, a sottomettersi al Carli-pensiero; con l’unica eccezione dell’ultimo dei grandi sindacalisti, Giacomo Brodolini. Un giornale che aveva denunciato il golpe, “l’Espresso”, fece addirittura ammenda, ospitando articoli che Carli firmava con lo pseudonimo di Bancor.
Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, il “Piano Solo” avrebbe inaugurato la “Strategia della Tensione”, che poi sarebbe letteralmente esplosa cinque anni dopo a Piazza Fontana. In effetti non era “Strategia della Tensione”, ma “Politica dei Redditi”. Gli aumenti salariali ostacolano la riproduzione delle gerarchie sociali, perciò i salari vanno contenuti con ogni mezzo, anche con i colpi di Stato e con le bombe. Un sistema che ha come ragione sociale la disuguaglianza percepirà ogni rivendicazione salariale come un atto sovversivo, e come tale lo tratterà. Lo stesso Carli, in un dibattito televisivo, sbatté questa verità in faccia al segretario della UIL, Giorgio Benvenuto, facendolo quasi scoppiare in lacrime. Coloro che oggi si atteggiano ad amici del salario potranno reggere il ruolo finché l’avversario è la Meloni; ma quando bisognerà vedersela con le Procure, l’illusione crollerà.