Checché ne dicano i soliti disfattisti, l’Italia è ancora all’avanguardia in tanti settori; in particolare in quello dei brogli elettorali. Mentre negli USA sono rimasti a mezzucci ottocenteschi da romanzo di Gogol, come il voto dei morti, qui ci siamo già inoltrati nel nuovo millennio montando brogli elettorali preventivi. I commenti recriminatori dei media sul risultato elettorale del PD appaiono senza senso, dato che sono stati gli stessi media a porne le condizioni. Sin dalla sua origine il PD aveva reciso i legami col tradizionale elettorato di sinistra andando in cerca del voto pro establishment. Nel momento in cui questa consacrazione del PD come partito dell’establishment appariva compiuta, i media, invece di celebrarla, l’hanno screditata appoggiando lo schieramento concorrente di Calenda e Renzi, dove infatti è andato quel 7% di voti mancanti al PD.
L’elettore è quasi sempre un media-dipendente, persino se è di sentimenti anti-establishment, perciò le sue scelte si orientano nell’ambito del mainstream. Ciò è tanto più vero quando ci si rivolge ad un elettorato centrista, quello che oggi si definirebbe politicamente corretto e negli anni ’60 si chiamava “benpensante”, quello di “chi sta sempre con la ragione e mai col torto”, come diceva Francesco Guccini quando ancora non c’era cascato anche lui. Questo elettorato benpensante è propenso a guardare con diffidenza a chiunque si autodefinisca, anche falsamente, di sinistra; perciò un’offerta esplicitamente centrista, per di più accreditata dai due quotidiani principali del mainstream, avrebbe per forza penalizzato il PD. Se la destra, con un numero effettivo di voti inferiore alle elezioni del 2018, ha riscosso la maggioranza dei seggi, lo si deve al duo Calenda-Renzi ed ai media che lo hanno sostenuto.
La combine era già anticipata in
un articolo del luglio scorso sul quotidiano “Il Foglio”, in cui si spiegava che si poteva tranquillamente rischiare col sostegno a Calenda e Renzi, poiché, anche in caso di vittoria dei “populisti”, la continuità del sistema sarebbe stata comunque assicurata dai “vincoli europei” e soprattutto dalla tutela di Sergio Mattarella. In Italia la politica estera e la politica finanziaria non fanno parte della disponibilità e delle competenze dei governi, e ciò non solo perché ci sono gli obblighi dovuti alla condizione di sottomissione coloniale. L’oligarchia italica usa infatti i “vincoli esterni” come alibi e pretesto per opprimere il proprio popolo e, come i campieri dell’epoca del latifondo, ha trovato il suo sentiero di grandeur nell’esibire davanti ai baroni sovranazionali la propria capacità di controllare i cittadini, imponendo loro ogni genere di forca caudina o di numero da foca ammaestrata.
In altri termini, in Italia siamo ad un grado tale di mistificazione psicodrammatica del processo elettorale che potremmo permetterci personaggi molto più folkloristici della Meloni. La Bonino e Soros quindi non avevano capito niente ed era patetico che credessero di condizionare le elezioni italiane con un milione e mezzo di euro, come se fossimo sulle montagne dei Balcani. Del resto l’età è avanzata e i bei tempi in cui
il duo Bonino-Soros allestiva tribunali internazionali per i crimini contro le multinazionali, ormai sono lontani. Insomma, Soros si rassegni al fatto che l’Italia è già vegliata da un altro vegliardo con ben altra dimestichezza col potere.
La sconfitta del PD è quindi un puro effetto di alchimie mediatico/elettorali e non c’entra assolutamente nulla con l’identità della sinistra, il cui smarrimento è una questione di mezzo secolo fa, non certo di oggi. Occorre ricordarsi che negli anni ’70, quando c’era ancora il PCI, quello bello di Berlinguer, l’arrivo della “crisi” finanziaria del 1976/77 giustificò l’adozione da parte della sinistra di una politica di austerità e sacrifici per i lavoratori. Il nonsenso di questa posizione era evidente già allora: in una fase di sviluppo economico infatti una distribuzione del reddito avviene per forza di cose: le imprese acquistano macchinari, assumono lavoratori, pagano salari che, per quanto bassi, alimentano la domanda e quindi innescano altri investimenti nella produzione. L’aumento dell’occupazione porta a sua volta una spinta oggettiva all’innalzamento dei salari, dato che i lavoratori sono meno ricattabili. In questo periodo di sviluppo i sindacati ed i partiti di sinistra stanno lì ad assecondare la tendenza ed a prendersi i meriti. Arriva però il momento in cui le lobby finanziarie perseguono l’obbiettivo di preservare il valore dei loro crediti, e quindi spingono per politiche deflattive con l’alibi della “crisi”. In questa spinta a schiacciare i salari la finanza trova ovviamente la complicità del padronato, che non vedeva l’ora di poter regolare i conti con i lavoratori. In quel momento ci sarebbe bisogno di una sinistra che facesse da argine all’impoverimento delle classi subalterne, che demistificasse la categoria di interesse generale e facesse capire che “crisi” significa anzitutto concentrazione dei capitali e delle ricchezze.
La sinistra ed i sindacati invece impugnano la bandiera dei sacrifici e del contenimento dei salari. Ma allora che ci stanno a fare?
L’Italia è il Paese dell’OCSE che ha registrato la maggiore diminuzione della quota salari e, di conseguenza, anche la maggiore quota di mistificazione ed inganno sociale, in base alla regola per cui più scende la lancetta del redditometro dei lavoratori, più sale la lancetta del cazzatometro, alla deflazione dei salari corrisponde l’inflazione dei cazzari. Il “contentino” che si concede ai lavoratori impoveriti è l’eterna promessa di una via fiscale alla giustizia sociale; sennonché la mobilità internazionale dei capitali preserva i ricchi dal fisco, che perciò si accanisce sul ceto medio, ed anche sugli stessi lavoratori tramite l’IVA e le accise.
Se si vanno però a seguire le sorti della socialdemocrazia europea in generale, ci si accorge che, pur senza gli estremi pauperistici del caso italiano, sono ovunque in recesso sia il welfare, sia la quota salari, per cui anche lì vale la regola della sinistra che si gonfia nelle fasi di sviluppo economico e si sgonfia nelle fasi recessive. Seppure non ai livelli italiani, anche l’intervento pubblico in economia è arretrato dappertutto. Ma nessuno a sinistra si è chiesto come mai l’ondata delle privatizzazioni sia andata a coincidere con l’emergenzialismo cronico. Una multinazionale è una società per azioni che deve esibire utili ogni anno e, se i profitti calano, una bella emergenza trasforma forzosamente milioni di persone in clienti, con buona pace delle regole della mitica concorrenza. A cantare le lodi di questa spinta oligopolistica, arriva il solito finto economista con
la citazione di Joseph Schumpeter, per cui la concorrenza sleale assume l’appellativo tragico e solenne di “distruzione creativa”.
La “sinistra” è rimasta perciò ad uno stadio enunciativo, infatti la formula non viene mai applicata proprio quando servirebbe. Qualche anno fa il “Manifesto” ci intratteneva con dovizia di dottrina sul tema marxiano del
feticismo della merce. Quando però il feticismo ha riguardato la merce-vaccino, il “Manifesto” non si è accorto di nulla. Eppure la vicenda dei vaccini (o sedicenti tali) rappresentava un caso clamoroso di feticismo della merce.
Il vaccino non era più considerato un prodotto industriale, tantomeno era riconosciuto come l’effetto di un’operazione imprenditoriale di investimento di capitali, di
un processo produttivo, di un lobbying, e quindi di una promozione pubblicitaria indirizzata a creare un bisogno; bensì il vaccino era considerato un’emanazione, l’irradiazione diretta della “Scienza”, come se questa esistesse in una sorta di empireo al di là dei rapporti produttivi e di classe. Marx viene rimandato in soffitta dopo la ricreazione del solito articolo “colto” quanto astratto, preferendogli poi un Plotino in versione Bignami. La fuga nella metafisica ha fatto perdere di vista che se accertare la validità del vaccino è una questione di competenze immunologiche, stabilire invece l’opportunità di una campagna vaccinale è una questione di buonsenso alla portata di qualsiasi cittadino. La spesa stratosferica per centinaia di milioni di dosi di vaccino, con le relative siringhe, avrà pure qualcosa a che vedere con la distruzione di quel poco che rimaneva del sistema sanitario pubblico.
Le campagne pubblicitarie servono ad aumentare il potenziale feticistico delle merci, a caricarle di valore simbolico. Insieme col vaccino ci è stato così venduto anche un senso di superiorità morale e intellettuale, bollando i renitenti al vaccino di egoismo/liberismo e di ignoranza/oscurantismo. La sinistra come metodo concreto, come critica, scompare del tutto; ma la “sinistra” torna utile come ingrediente pubblicitario per quello che è il suo aspetto più esteriore e deteriore, cioè il senso di superiorità morale e intellettuale.