La disinformazione a tappeto, con corredo di falsi “esperti”, sulla guerra ucraina ha investito anche aspetti collaterali, come la presunta uscita dalla neutralità di Finlandia e Svezia. Il parlamento finlandese ha approvato la richiesta di adesione formale alla NATO, ma la notizia, pur rilanciata con grande enfasi dai media, va fortemente ridimensionata. La Finlandia ha infatti
un rapporto di partnership con la NATO sin dal 1994, e sul sito della stessa NATO si attribuisce grande importanza a questo rapporto di collaborazione. Del resto non si spiegherebbe la protervia dimostrata dalla Finlandia nell’ambito dell’Unione Europea se Helsinki non potesse rivendicare un ruolo di alleato privilegiato degli USA, con posizione di frontiera nei confronti della Russia. Tra partnership e membership non c’è grande differenza pratica, a meno di non ospitare basi missilistiche con testate nucleari, cosa che farebbe ascendere al ruolo privilegiato di bersaglio prioritario di un’eventuale ritorsione; un privilegio che l’Italia può già vantare da molti decenni.
Se la Finlandia non è più neutrale da quasi trenta anni, non lo è neppure
la Svezia, dato che risulta anch’essa “partnerizzata” con la NATO sin dagli anni ’90, come ci informa ancora una volta lo stesso sito della NATO. La posizione di neutralità della Svezia aveva peraltro una lunga storia (anche se non paragonabile a quella della Svizzera), tanto da attraversare tutta la seconda guerra mondiale.
La fine della guerra fredda ha quindi comportato una ridefinizione di equilibri ben precedenti alla guerra fredda stessa, tanto da determinare anche profonde modifiche dell’assetto internazionale uscito dalla prima guerra mondiale. Si è verificato perciò uno smantellamento cruento della Jugoslavia, uno Stato che il presidente Wilson aveva creato nel 1919 in funzione di contenimento dell’imperialismo adriatico dell’Italia. Si attuò all’inizio degli anni ‘90 anche la separazione tra Repubblica Ceca e Slovacchia, senza particolare spargimento di sangue; a meno di non voler considerare tale lo strano “incidente” capitato ad Alexander Dubcek nel 1992, uno dei tanti casi sospetti silenziati dai media, che non dedicarono particolare attenzione alla morte dell’ex eroe della Primavera di Praga del 1968, diventato inviso al Sacro Occidente perché contrario alla separazione della Cecoslovacchia.
La stessa riunificazione della Germania non aveva alcun nesso storico e logico con la caduta del Muro di Berlino, dato che la divisione in più Germanie era stato un intendimento comune degli alleati della seconda guerra mondiale. A distanza di trenta anni i commentatori americani non riescono ad offrire una spiegazione plausibile dell’assenso offerto da Bush senior e da Clinton per la riunificazione tedesca, nonostante la posizione contraria di Francia e Regno Unito.
In
un articolo del New York Times, scritto nel 2017 in occasione della morte di Helmut Kohl, la riunificazione tedesca venne presentata come una sorta di “premio di fedeltà” alla persona del cancelliere; una tesi molto poco “strategica”, dato che i leader cambiano e gli Stati rimangono. La fedeltà di Kohl sarebbe inoltre consistita nell’accettare senza problemi l’installazione sul proprio territorio dei missili Pershing. In realtà all’inizio degli anni ‘80 vi fu tra i leader europei una gara di velocità nell’ospitare quei missili, e basti ricordare lo zelo atlantista del povero Craxi, che ispirò la battuta secondo cui il socialismo italiano era passato dal massimalismo al missilismo.
Non a caso la rinnovata ostilità antitedesca ha caratterizzato la politica USA degli ultimi venti anni, in considerazione del fatto che l’Unione Europea è diventata una colonia della Grande Germania. Era una facile profezia che la riunificazione tedesca avrebbe squilibrato irrimediabilmente i rapporti di forza in Europa, ma questa profezia fu sacrificata all’esigenza di espandere al più presto la NATO ad Est.
Per ammissione dell’esponente del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, col suo famoso “Fuck Europe” del 2014, la vicenda ucraina è stata gestita dal Dipartimento di Stato USA tanto in funzione antirussa che antitedesca, con la preoccupazione di separare le sorti economiche ed energetiche di Russia e Germania. Sennonché il risultato di questa separazione si configura adesso nel consenso americano al riarmo tedesco, quantificato, ma solo per ora, in investimenti per cento miliardi di euro. Ancora poca cosa in confronto agli stratosferici budget della Difesa USA, ma moltissimo in considerazione della capacità industriale tedesca di spiazzare tecnologicamente l’attuale livello di sofisticazione delle armi. Già dal febbraio scorso il governo tedesco ha fatto sapere che intenderebbe spendere una parte di quei soldi per
acquistare dei caccia F35 di quinta generazione, i famigerati bidoni volanti della Lockheed Martin. La decisione tedesca non è ancora definitiva, ma si tratterebbe di un ovvio pedaggio da pagare al padrone USA per poter dopo procedere all’elaborazione di proprie tecnologie militari.
Sarebbero poi da considerare gli effetti psicologici sulla Germania di un riarmo della portata che si sta annunciando; e la perplessità a riguardo non è dettata dai soliti pregiudizi etnici sui Tedeschi, poiché una questione analoga potrebbe essere posta per qualsiasi altro Paese, compreso il nostro. Se l’intento USA era quello di ridimensionare la Germania, si deve concludere che siamo ad un caso conclamato di schizofrenia.