Sino ad una decina di anni fa era frequente che commentatori, o anche comici, mettessero in parodia la locuzione “ma anche” che caratterizzava i discorsi dell’ex segretario del PD Walter Veltroni. In effetti nel “ma anche” non vi sarebbe nulla di sbagliato in sé; anzi è opportuno tenere conto di aspetti vari, di più punti di vista e istanze diverse. Un discorso però non può neanche diventare un affastellarsi di osservazioni, impressioni e suggestioni, magari tenute insieme dal filo dell’approssimazione o dei buoni sentimenti, oppure della mera arroganza intellettuale. Un discorso non si qualifica per quantità e qualità dei suoi ingredienti, bensì per le priorità che stabilisce. In base a quella priorità poi si analizza e si mette in ordine tutto il resto, altrimenti la complessità rischia di diventare un alibi per dire tutto e il contrario di tutto. Proprio perché la realtà è complessa, tanto più è necessario stabilire delle priorità per dare senso al discorso. In caso contrario le priorità saranno le scadenze dettate dal mainstream, dalla propaganda ufficiale.
Qualsiasi critica sociale che non stabilisca le sue priorità, si sfilaccia in una serie di velleità; per di più la critica sociale annulla se stessa diventando vulnerabile alla manipolazione propagandistica e quindi a quelle fittizie “emergenze” che finiscono per spiazzare tutti i buoni propositi. La critica sociale era nata invece sull’evidenza del divario tra ricchi e poveri, quindi sulla questione della redistribuzione del reddito. Non basta che nel discorso ci sia “anche” il riferimento al divario tra ricchi e poveri ed alla questione della redistribuzione del reddito, e non conta quanto pathos ci si mette; o il tema della redistribuzione del reddito viene individuato come la priorità, oppure il discorso si porrà sullo stesso piano delle omelie domenicali del papa, che spesso creano l'illusione che il “più a sinistra” di tutti sia lui. Tutti sono buoni a spremere la lacrimuccia sui poveri o a riconoscere che il lavoro è mal pagato, salvo poi rimandare il tutto a tempi migliori o all'avverarsi di certe condizioni, come i mitici “investimenti”.
La quota salari rappresenta perciò un preciso e concreto indicatore, una lancetta, che mette in rilievo il grado di gerarchizzazione e discriminazione sociale, e persino antropologica, poiché, quando il divario di reddito diventa abissale, è facile che i ricchi si percepiscano come una razza a parte. In base a quell’indicatore del reddito potranno essere valutati altri indicatori. Più scende la lancetta della quota salari, più saliranno altre lancette: ovviamente quella del reddito dei ricchi, ed anche quella che indica la quantità di menzogne necessaria per dissimulare i motivi della compressione del reddito dei più poveri. Per i poveri il loro redditometro rappresenta un criterio attendibile, un principio di realtà, con cui valutare il grado di menzogna di un sistema di potere.
Tutti i poteri mentono, ma il tasso di menzogna deve salire ogni volta che scende la quota del reddito dei poveri. Si potrebbe dire che esiste una connessione, un rapporto inversamente proporzionale, tra il redditometro e il cazzatometro: meno soldi ti danno, più cazzate ti devono raccontare per giustificarlo. La deflazione dei salari implica necessariamente l’inflazione dei cazzari, cioè dei narratori di fiabe o dei somministratori di psicodrammi (ogni riferimento al Recovery Fund o all'altrettanto fumoso “PNRR” del governo Draghi è puramente casuale).
Dalla quota salari è anche possibile capire quale lobby capitalistica stia prevalendo in un determinato momento. Salari sempre più bassi e disoccupazione sempre più estesa indicano la prevalenza della lobby dei creditori, cioè di quei gruppi finanziari che hanno il preciso interesse a scongiurare qualsiasi prospettiva inflazionistica pur di preservare il valore della moneta e quindi dei loro crediti. In questo quadro si spiegano anche i
processi di deindustrializzazione e la distruzione delle reti distributive a base familiare. Il principale fattore inflazionistico infatti non è rappresentato dai salari ma dall'importazione di materie prime necessarie alla produzione. Paradossalmente il sistema certo per avere una bilancia commerciale in attivo, non è esportare di più ma importare meno materie prime, cioè deindustrializzare. Dal governo Monti in poi, l'Italia ne sa qualcosa.
La quota salari è in diretta relazione con tutta un'altra serie di fenomeni sociali e politici. Il dato che la lancetta del reddito da lavoro tende sempre più al basso, è un indizio anche sull’assetto dei rapporti internazionali e del livello di ingerenza imperialistica. Per comprimere i salari, le oligarchie locali hanno infatti bisogno di protezioni e tutele da parte di potenze straniere e di istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea. La diceria secondo cui il FMI e l’UE avrebbero abbandonato il dogma dell'austerità, rientra appunto in quelle fiabe funzionali a spostare le attese dei salariati, e dei poveri in genere, ad un indeterminato futuro. In realtà la deflazione salariale rappresenta la vera ragione sociale di quelle istituzioni sovranazionali ed il motivo per cui le oligarchie locali le adottano come sponda. L’imperialismo perciò non va inquadrato come scontro tra nazioni, ma come espressione dello scontro di classe interno, e ciò spiega il fenomeno dell'autocolonialismo, cioè della ricerca di vincoli esterni da parte dell'oligarchia italiana.
Ringraziamo Claudio Mazzolani per la collaborazione