Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Lo schema di colpevolizzazione è sempre lo stesso, quello che si usa quando un bambino rifiuta un cibo particolarmente nauseante: pensa ai bambini poveri che non hanno da mangiare. Oggi lo schema viene adoperato in modo anche più spudorato e ipocrita verso coloro che non si vaccinano: pensa ai Paesi poveri dove vorrebbero vaccinarsi e non possono (ma quando mai!?). Nel 2011 lo schema di colpevolizzazione fu rilanciato in occasione delle cosiddette “Primavere Arabe”: qui in Occidente avete la democrazia e la disprezzate ed invece nei Paesi poveri la invocano. Si creò così il clima adatto per la prima guerra imperialistica politicamente corretta, addirittura “di sinistra”, cioè l’aggressione contro la Libia in “soccorso” del popolo libico. La sedicente “sinistra” smarriva da allora in poi tutti i suoi punti di riferimento storici, in nome di un’infantilizzazione totale, per cui ogni abuso può essere giustificato con predicozzi morali e con la gratificazione di fare dispetto al cattivo di turno: nel 2011 il dispetto era contro il Buffone di Arcore, ritenuto amico di Gheddafi, oggi è contro Salvini o la Meloni.
A distanza di dieci anni dalla eliminazione di Gheddafi e del suo regime, la Libia è nel caos della guerra civile ed è diventata terreno di scontro per potenze straniere. Ma chi ha detto che esportare la democrazia non è servito? Nel caso della Libia è servito, eccome; anche se ovviamente non alla Libia. Il Fondo Sovrano libico, di circa 68 miliardi di dollari, è stato “congelato” nel 2011 dall’ONU, ma mai riconsegnato al governo di Tripoli, pur riconosciuto dalla stessa ONU. La condizione per la restituzione è che il governo di Tripoli dimostri di essere in grado di assicurare la stabilità del Paese. Ma se il governo non ha i soldi come può crearsi i consensi costruendo infrastrutture e distribuendo reddito? Grazie a questo dilemma irrisolto i fondi rimangono congelati, cioè utilizzati da qualcun altro, perché i capitali non rimangono mai davvero fermi e “congelati”, il modo di riciclarli si trova sempre.
L’aggressione contro la Libia di dieci anni fa sembrava all'inizio inquadrabile nei canoni del colonialismo classico, dato che c’era l’evidente tentativo franco-britannico di sloggiare l’Italia e l'ENI dal Nord Africa per conquistare il controllo sia delle risorse petrolifere, sia della sponda meridionale del Canale di Sicilia. Ma l’orgia di politicamente corretto avrebbe già dovuto avvertire che i concetti di vittoria, conquista controllo del territorio, persino la stessa concezione storica della guerra, si andavano dissolvendo per lasciare il posto ad una destabilizzazione permanente. La mobilità dei capitali non è compatibile con la stabilità politica ed economica. Investendo o depositando le sue risorse finanziarie all'estero, la Libia è diventata un ostaggio e una preda; e molti altri Paesi sono nella stessa condizione.
Nel caso dell’Afghanistan il mantra dell’esportazione della democrazia è arrivato ad invasione già avviata, visto che il pretesto iniziale era stato la lotta al terrorismo. Ma anche in questo caso il lucro non è mancato. Il paragone tra Afghanistan e Vietnam non regge, poiché per gli USA il Vietnam fu una guerra vera, con grandi confronti sul campo, non solo con la guerriglia Vietcong ma soprattutto con l’esercito regolare nord-vietnamita. In Afghanistan niente del genere, si è pensato direttamente ad altro.
Gran parte dell'opinione pubblica americana è più “sgamata” di quella europea, quindi più interessata a seguire il percorso dei soldi. Così molti americani sanno che, secondo dati del Pentagono, circa 107 miliardi sono stati corrisposti dal governo USA a compagnie private appaltatrici per la Difesa, tra cui la Fluor Corporation, che si occupa soprattutto di logistica e infrastrutture. Nuovi contratti sono stati stipulati sino all’anno in corso; ma nel frattempo le agenzie appaltatrici per la Difesa, i “contractors”, svolgevano attività di lobbying per accelerare il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Visto che i contratti di appalto sono già stati concessi, ciò vorrà probabilmente dire che le compagnie ne incasseranno ugualmente i proventi o riscuoteranno delle penali per inadempienza del governo.
Tanto per cambiare, la maggiore compagnia di “contractors”, la Fluor Corporation, ha come maggiori azionisti i soliti noti, gli stessi maggiori azionisti di Pfizer e Google, cioè i fondi di investimento Blackrock e Vanguard Group. A proposito di concentrazione dei capitali.
Ciò fornisce una chiave di lettura anche per il progetto di Difesa europeo, che molti commentatori realistici ritengono assurdo, dato che confliggerebbe con la NATO e con gli interessi USA, qualunque cosa ne dica Mattarella. Solo che “Difesa” non va tradotto con “confronto strategico-militare”, bensì con “appalti”. Già esiste un programma europeo, l’EDIDP, per gli appalti della “Difesa”, con vari progetti in atto, e la Von Der Leyen chiede che ci si investano più soldi. Per questo motivo il lobbying degli appalti ha scatenato i media per auto-colpevolizzare il Sacro Occidente e per rovesciare la narrazione della figuraccia in Afghanistan in un inno alla necessità di riscattarsi dall'onta con una “difesa” europea.
L'interesse italiano per il progetto di Difesa europeo è del tutto comprensibile. Tra gli appaltatori c’è infatti l’ex Finmeccanica, che oggi si fa chiamare Leonardo, con ben undici progetti in operatività. Anche Finmeccanica vanta circa un 5% di partecipazione azionaria da parte di Blackrock. Occorrerà seguire i flussi di capitale azionario per capire se la sedicente “Difesa europea” avrà un futuro “luminoso” oppure no. (5)
Ringraziamo Claudio Mazzolani e Michele per la collaborazione.
Di comidad (del 19/09/2021 @ 00:36:09, in Storia, linkato 6903 volte)
Una testimonianza di Giosuè Vezzuto,
nato a Ischia il 6 luglio 1924, professore in scienze, chimica e geografia.
GINO LUCETTI NELL’ISOLA D’ISCHIA
Il 16 settembre 1943. Discussione con Gino Lucetti.
Estratto dai miei appunti autobiografici
Qualche giorno dopo l’8 settembre 1943 in Ischia vedemmo passeggiare insieme un gruppetto di uomini non ischitani. Venimmo a sapere che erano ex detenuti politici confinati a Ventotene, liberati dagli Alleati e sistemati nello stabilimento militare Francesco Buonocore a Porto d’Ischia.
Io e i miei amici – mi riferisco a Franco Buono, ai fratelli Michele ed Enrico Longobardi, a Enzo Baldino, a Salvatore D’Ambra, a Coppola – eravamo desiderosi di conoscerli per poter discutere di politica. Da loro c’era molto da apprendere.
La dittatura fascista circoscrisse e delegittimò la cultura politica. Quella vera, nel suo ampio significato. E la limitò solo alle sue idee. Cosa che fanno tutte le dittature. C’era infatti a riguardo un “hic sunt leones”. Per cui noi studenti liceali eravamo, in politica, in uno stato di grande e grassa ignoranza. Che sentivamo con sofferenza, eccome, dentro di noi. E che ci spingeva, con avido desiderio, come affamati ed assetati, verso dove si poteva trovarla.
Riuscimmo a stabilire con gli antifascisti un contatto. E alla sera, mentre essi passeggiavano, noi potevamo unirci a loro ed ascoltarne i discorsi. Ogni tanto ci permettevamo di fare qualche domanda. Eravamo timidi ed impacciati nei loro confronti. Quasi sempre parlava un albanese. Non ho mai saputo il suo nome, perché, in verità, non l’ho mai chiesto. Questi era basso e tarchiato. Forse questi due caratteri fisici potrebbero farlo individuare, perché doveva essere un personaggio di spicco del rigido e rigoroso partito comunista albanese. Gli altri antifascisti lo ascoltavano con un gelido silenzio o fingevano di ascoltare i suoi monologhi. Cioè era un tipo che, come si dice volgarmente, “rompeva i timpani”. Ho ancora ben impresso nella mia mente alcune sue frasi. Eccone una: “Io sarò paracadutato in Albania dagli Alleati perché io devo capitanare la rivolta antinazifascista”. A parte la sfacciata millanteria, non mi sembrava il tipo adatto né per l’età, né per il fisico, ad essere paracadutato. Poi io mi meravigliai che potesse esternare e rendere di pubblica ragione un importante segreto militare. Noi eravamo educati ed abituati al motto fascista: “Taci, il nemico ti ascolta!”
Quella sera, in cui l’albanese pronunciò la citata frase, ero vicino ad un simpatico giovane greco. Simpatico da ogni punto di vista: per aspetto fisico e per comportamenti personali. Gli chiesi: “Anche tu sarai sbarcato in Grecia”. Usai la parola “sbarcato” perché mi sembrava la più adatta. E lui, con molta tranquillità e discrezione abbassò semplicemente le palpebre degli occhi per dire sì. Quanta differenza con l’albanese! Quanta modestia e serietà! Dopo di che mi resi conto perché gli Alleati erano così generosi con gli antifascisti: non facevano niente per senza niente.
Un’altra frase dell’albanese, che ricordo benissimo, fu: “Le guardie carcerarie sono crudeli aguzzini”. Io mi permisi di intervenire nel suo monologo e dissi: “Ma non tutti”. “Tutti! Tutti! Tutti!” Questa fu la sua violenta ed arrabbiata risposta.
Papà era una guardia carceraria e non era “un crudele aguzzino”. Chi ha conosciuto mio padre può confermarlo sinceramente. Quindi, se prima per istinto non mi era simpatico, allora dopo la sua stizzosa risposta, lo odiai. Indubbiamente. E non lo ascoltai più. Perciò mi misi a discutere col simpatico e gentile giovane greco. Tra di noi si stabilì una buona amicizia. Lui voleva migliorare il suo italiano ed io l’ho aiutato. Io volevo leggere i giornali che loro ricevevano ogni giorno. E lui me li dava. Così ebbi l’occasione di leggere giornali di cui ignoravo l’esistenza: L’Avanti, l’Unità, Bandiera Rossa, il Giorno. Per inciso faccio notare che in quel tempo, a Ischia, in commercio non si trovava nessun giornale. Questa situazione durò un bel po’.
Intanto l’amico Franco Buono, che abitava a via Roma a Porto d’Ischia a circa cento metri dallo stabilimento termale militare, aveva stretto amicizia con Gino Lucetti, l’anarchico che fece un attentato a Mussolini. Io avevo dei preconcetti grossolani sugli anarchici. Ma Franco mi assicurò che Lucetti era gentile, colto e ben disposto a discutere con i giovani. Perciò mi invitò a partecipare agli incontri che lui teneva con Gino nel parco della Pagoda sia al mattino sia al pomeriggio-sera.
Franco studiava alla Nunziatella a Napoli che era ed è un liceo militarizzato. Intendeva far carriera militare, che vedeva in pericolo ed era per questo inquieto e preoccupato. Ho partecipato con Franco, alla Pagoda, in un solo pomeriggio-sera al colloquio con Gino Lucetti e propriamente il 16 settembre 1943, cioè il giorno prima della loro morte. In quel pomeriggio, più che in altre occasioni, mi resi conto che Franco aveva già acquisito una spiccata mentalità militare. Non faceva solo domande a Gino, ma gli replicava vivacemente. Allora l’argomento dell’animato e appassionato dibattito, fra i due, fu quello della pace e della guerra. Due frasi che ricordo bene anche a distanza di diversi anni, e che mi colpirono, possono dare abbastanza bene l’idea dell’animosità della disputa. Quella di Franco è la seguente: “Se non si faranno più guerre la storia finirà e questo è impossibile”. Controreplica di Lucetti: “Mica la storia è fatta solo di guerre”. Botta e risposta. Sparate di frasi semplificative ma significative.
Io ho potuto discutere con Lucetti, Franco permettendo, un solo argomento: l’autarchia. Lui iniziò il suo discorso con questa frase incisiva e sentenziosa: “L’autarchia è una politica economica di miseria per il paese che l’applica e crea miseria anche nel mercato internazionale”. Fece una serie di esempi di processi autarchici antieconomici, quali la coltivazione del grano in terreni con bassi sedimenti e l’estrazione dei minerali di ferro dalle nostre spiagge, da cui si ricavava un acciaio scadente. Mi parlò di forti dazi applicati per difendere autarchicamente prodotti vegetali ed industriali nazionali spesso di scarsa qualità. Mi riferì finanche del problema del petrolio libico che noi non eravamo in grado di estrarre per mancanza di macchinari nostrani adatti allo scopo. Macchinari che, per motivi autarchici, non compravamo dagli U.S.A. e dalla Gran Bretagna. Paesi che avevano ed hanno una forte industria petrolchimica, una vasta tecnologia ed una numerosa schiera di tecnici altamente qualificati. Tecnici di cui noi, allora, eravamo carenti. Perciò l’autarchia non contribuiva allo sviluppo industriale ed economico dell’Italia. Inoltre essa, oltreché contribuire a formare un falso orgoglio nazionale, costituiva, già in tempo di pace, una preparazione pratica e psicologica alla guerra. Invece lo sviluppo dell’Italia si poteva avere facendo una politica di pace e di amicizia tra i popoli (argomento che era il suo cavallo di battaglia). Questa politica permetteva di utilizzare le risorse economiche disponibili al fine di costruire non un’industria di guerra, che non crea ricchezza e beni utili per la gente, ma un’industria di trasformazione delle materie prime in prodotti con alto valore aggiunto. Lucetti, con convinzione, asserì anche che la politica di pace e di amicizia tra i popoli permetteva di abolire i confini onde consentisse agli uomini, merci e capitali di circolare liberamente.
Io ascoltai Gino con la massima attenzione. Senza interromperlo. Cercai di capire il più possibile. Adesso le sue idee mi sembrano giuste, semplici ed ovvie. Ma allora no. E non posso negare che su certi argomenti, come quello dei confini, io rimasi fortemente incredulo. Devo dire, però, che lui ribaltò ed annientò le mie idee fasciste sull’autarchia. Idee inculcate nella mia mente in tanti anni di indottrinamento.
Gino, in altre parole, ci espose quella concezione di idee che poi è stata definita “l’utopia di Ventotene”, cioè la dottrina di Altiero Spinelli, antifascista confinato a Ventotene e considerato un padre fondatore dell’Unione Europea.
Gino Lucetti era una persona garbata e affabile. Una persona colta ed informata. Questa fu la conclusione a cui arrivai dopo quella discussione avuta con lui. E in questo fui d’accordo con Franco.
Verso sera accompagnammo Gino allo stabilimento militare. Io fissai un appuntamento per l’indomani pomeriggio. Franco anche uno al mattino.
A questo punto desidero fare alcune considerazioni: l’utopia di Ventotene è diventata realtà. I visionari di allora si sono rivelati i veri realisti. E Gino Lucetti fu uno di loro. Ma questo l’ho capito tanti anni dopo. I benefici previsti sono sotto i nostri occhi: uomini, merci e capitali circolano liberamente attraverso i vari confini degli stati europei.
Io e la mia famiglia abbiamo potuto verificarli, constatarli e beneficiarne. Sia quando andavamo a trovare i miei suoceri in Germania e sia quando andavamo a trovare a Praga la nostra figlia Silvia e i tre nipotini.
Mi viene voglia di gridare a gola piena: “Che bella cosa è l’Unione europea”. Perché? Perché ho bene in mente i disagi, i fastidi, e la perdita di tempo che ci creavano, ai confini, i controlli meticolosi e rigorosi dei poliziotti e dei doganieri. Prima dell’U. E.
Inoltre, con essa e per essa, abbiamo avuto un lungo periodo di pace e di benessere. E il turismo, che crea lavoro, ricchezza ed amicizia tra i popoli, non solo, ma anche cultura, se ne è avvantaggiato moltissimo. In Italia, che è ricca di bellezze naturali e storiche, esso è diventato un’attività economica molto importante e florida. E questo noi ischitani lo possiamo affermare benissimo.
Il 17 settembre 1943.
LA MORTE DI GINO LUCETTI E DI FRANCO BUONO
Il 17 settembre 1943 feci, come al solito, una passeggiata pomeridiana, andando al Porto d’Ischia. Non era però una usuale passeggiata: avevo un appuntamento con Gino Lucetti e Franco Buono nel parco della Pagoda. Per discutere di politica, avevo un vivo desiderio di sentire ed apprendere le idee antifasciste. Queste mi potevano essere utili per la revisione delle mie idee fasciste. Come ero intenzionato a fare. Mentre camminavo, pensavo alle domande da porre a Gino. Sapevo che ero in ritardo, ma non mi preoccupavo: comunque li avrei trovati alla Pagoda. Forse Franco – così pensavo allora – aveva già sfogato abbastanza e poteva dare più spazio e più possibilità a me di fare domande a Gino. Ne avevo preparato diverse.
Camminando con passo svelto, ero arrivato a via Roma, una trentina di metri dopo il bar Diaz, a Piazza Croce, cioè a circa dieci minuti di cammino per arrivare alla Pagoda, quando ho sentito un colpo di cannone proveniente dalla terraferma. Subito ho capito che era l’inizio di un cannoneggiamento tedesco sul Porto d’Ischia, dove c’erano navi militari inglesi ed italiane. Siccome quel tratto di via Roma, al lato est, da dove era venuto il colpo di cannone, era aperto perché c’è una larga strada, via Francecso Buonocore, che porta alla spiaggia, tornai indietro correndo velocemente. Ed entrai nella sartoria-boutique di Filippo Ferrandino, detto “Capo di ferro”. Questa era protetta, al lato est, da un gruppo di case. Quindi là si era al sicuro dai colpi di cannone. Mi misi a parlare con Filippo del più e del meno, aspettando che finisse il cannoneggiamento.
Alla fine del bombardamento si sparse subito la notizia che Franco Buono e Gino Lucetti erano stati colpiti. Ed erano morti. Pare che fossero stati colpiti dal primo proiettile sparato. Franco morì subito mentre Gino, gravemente ferito, si trascinò fino alla ex centrale elettrica che stava al porto in via Iasolino.
La notizia mi scioccò: là per là rimasi bloccato, impalato. Subito dopo un freddo tremore si diffuse in tutto il mio corpo. Un nodo alla gola mi impedì di parlare. E poi grosse lacrime incominciarono a scendere sul mio viso. Per non farmi vedere che piangevo e per concentrarmi in me stesso – come uso fare, nella mia vita, nei momenti di difficoltà – me ne andai senza proferire parola. Feci un breve cenno di saluto con la mano destra a Filippo. Che mi fissava negli occhi, mettendomi a disagio.
Mi diressi verso casa. Camminavo tristemente e facevo fatica a trattenere le lacrime, che mi asciugavo continuamente. Tanti pensieri frullavano nella mia testa, dove c’era una Babele. Ma due erano dominanti. Il primo: “Per fortuna che ero in ritardo. Se no cosa sarebbe stato di me?” E il pensare che avrei potuto morire anch’io, mi impauriva e mi riempiva d’angoscia. Mi consideravo “un fortunato”. Oggi mi sento di dire “un graziato dal Signore, le cui vie sono infinite”. L’altro pensiero era: Gino Lucetti è morto per discutere con noi. Per colpa nostra. Ed anche un senso di colpa mi affliggeva e mi avviliva.
A casa mi gettai subito sul letto. Il mio ritorno fu un sollievo per i miei genitori che furono in apprensione per me. Mio padre notò il mio turbamento e si informò se il bombardamento aveva fatto dei morti al Porto d’Ischia. Lo misi al corrente con poche parole. Non riuscii a dormire durante tutta la notte. La mia mente era sempre una Babele.
All’indomani mattina non ebbi il coraggio di far visita ai morti. Era troppo per me. Il solo pensare di vederli sfigurati mi metteva in crisi. Il pomeriggio mi feci coraggio e andai al Porto. Come al solito. Non ero al corrente di niente: non chiesi a nessuno notizie dei funerali. Al Porto d’Ischia notai che sul marciapiede davanti al bar Diaz, si faceva la commemorazione funebre di Gino Lucetti. C’era diversa gente. Io mi sono fermato al marciapiede opposto. Dietro a tutti. Come è mia abitudine.
Là vidi, per la prima volta, alzate di braccia destre col pugno chiuso. Ad ogni motto. “Compagno Gino noi ti vendicheremo”. E via, energicamente, braccia destre in alto col pugno chiuso. Fu una sorpresa. Rimasi impressionato. Quasi impaurito. (Poi mi sono abituato).
Era il tarchiato albanese a gridare i vari motti. E fu lui a tenere l’orazione funebre. Ascoltai un poco e poi me ne andai a casa. Per la scarsa simpatia che avevo per lui. E poi non avevo voglia di vedere gli amici ai quali, naturalmente, avrei dovuto raccontare il perché della mia crisi. Ma non avevo voglia di parlarne. Ero chiuso in me stesso. E volevo rimanere solo. Solo con me stesso.
Più tardi ci fu un altro bombardamento tedesco, mentre le bare di Franco e Gino venivano portate al cimitero. C’era al seguito molta gente che corse a ripararsi dai colpi di cannone. E le bare rimasero sole in mezzo alla strada (Questo particolare mi è stato riferito dall’amico Enrico Longobardo, che seguì il funerale).
Ho avuto l’occasione di vedere a Monte di Procida la piazzola da dove veniva cannoneggiata Ischia nel settembre 1943. A cannoneggiare era il famoso cannone tedesco da 88 mm. Un multiuso: cannone antiaereo, anticarro, navale, ecc.
E’ stato il mio omonimo cugino residente a Monte di Procida, in una delle visite fattegli, a farmi vedere la piazzola e a darmi le informazioni sul cannone.
Da consigliere comunale, eletto nelle liste del P.S.I., nel 1965, mi sono impegnato per far mettere nel parco della Pagoda, dove sono stati colpiti a morte Franco Buono e Gino Lucetti, una scultura, un bassorilievo o almeno una lapide che ricordasse l’avvenimento. E ho cercato anche di far intitolare a Gino Lucetti un pezzo della strada Iasolino, a partire dalla ex centrale elettrica, dove lui si è accasciato morto a terra. In tal modo si potrebbero unire la strada dedicata a Franco Buono, la strada che porta alla Pagoda, e quella che si potrebbe dedicare a Gino Lucetti. Unirle così come essi furono uniti nella morte. I miei tentativi non ebbero successo. E sono rimasti pii desideri. Il motivo dominante era: siamo un paese turistico e non vogliamo mortificare i tedeschi che sono i principali e più numerosi turisti stranieri in Ischia. Era sindaco l’avvocato Umberto Di meglio. Prima di me, per lo stesso scopo, ci aveva provato Michele Longobardo, consigliere eletto nella lista del P.C.I. Era sindaco Vincenzo Telese. Il motivo era sempre lo stesso.
Per l’anniversario della morte di Franco e Gino, a questo estratto dai miei appunti autobiografici, aggiungo quanto segue.
E se ci provassi ancora oggi, esattamente alla distanza di 69 anni dalla loro morte? Mi auguro che questo scritto possa servire allo scopo. Mi domando: dopo tanti anni dalla caduta del fascismo, siamo diventati democraticamente maturi? Mi permetto di dire, alla mia avanzata età, che non tener conto e in considerazione la propria storia è una cosa grave e deplorevole. Sia ben chiaro : la storia non si può cancellare. Voglio sperare che gli amministratori odierni abbiano una mentalità diversa. Una mentalità più aperta. Mi auguro che persone di buona volontà possano far proprie queste idee e portarle avanti con impegno. Se si dovesse decidere per una scultura o un bassorilievo si potrebbero raccogliere i soldi con una colletta per evitare, in tempi di crisi economica, di aggravare il bilancio comunale.
Sono convito che si potrà, anzi, che si dovrà rendere giustizia alla nostra storia. E’ tempo di farlo! E questo potrebbe avvenire nel 70° anniversario della morte di Franco e Gino. Anniversario che accade nel prossimo anno.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Ischia, 2012
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