Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’amministratore delegato della multinazionale farmaceutica Pfizer, Albert Bourla (un nome davvero ad hoc), è stato proclamato pochi giorni fa l’uomo dell’anno per l’economia. Bourla, invece di esaltarsi per il suo successo personale, ha pensato prima ai sofferenti ed ha annunciato la necessità a breve di una quarta dose di vaccino per tutti. Poche settimane prima lo stesso Bourla aveva parlato di un semplice richiamo annuale, ma poi si vede che la generosità e l’altruismo gli hanno preso la mano.
I media pendono dalle labbra di Bourla, senza notare due curiose incongruenze. Se il vaccino prodotto da Pfizer fosse stato efficace nel bloccare il contagio, Bourla ci avrebbe venduto soltanto due dosi a testa, mentre ora potrà moltiplicare le vendite e quindi i profitti. Alcuni malpensanti ritengono che ciò rientri nella normale strategia industriale, qualcosa di simile all’obsolescenza programmata nel progettare gli elettrodomestici, fabbricati in modo tale da durare un certo numero di anni e non di più. La strategia industriale delle case farmaceutiche non punterebbe quindi a farmaci efficaci per eliminare le malattie, bensì a farmaci poco efficaci in grado di creare dipendenza.
Attribuire ad un sant’uomo come Bourla propositi così meschini di business, è una mera bassezza, ma, al di là delle intenzioni soggettive, rimane comunque il dato di fatto che la minore efficacia del siero Pfizer sta facendo lievitare i suoi profitti. Il fatto poi che un siero ormai dichiaratamente di efficacia scarsa ed effimera assorba la spesa sanitaria a scapito di strutture durevoli, rimane un paradosso non spiegato. Si è attuata così una sorta di “demeritocrazia”. Se infatti il siero Pfizer fosse stato più efficace, Bourla non sarebbe stato proclamato uomo dell’anno dell’economia mondiale.
Anche la seconda incongruenza riscontrabile è indipendente dai nobili propositi del sant’uomo Bourla, e riguarda il fatto che un amministratore delegato di una multinazionale farmaceutica detti la politica sanitaria proclamando la inevitabilità della quarta dose. Certo, Bourla lo ha fatto perché ci vuole bene e lo fa dall’alto della sua indiscutibile competenza; ma sarebbe stato ovvio attendersi che qualche giornalista gli facesse notare che, a fare dichiarazioni e pressioni del genere, si cade nel conflitto di interessi, in quanto si sta consigliando qualcosa che incrementerà i profitti di Pfizer. Il problema quindi non riguarda l’integerrimo Bourla, che è al di sopra di queste umane miserie, ma proprio i media, che si accorgono dei conflitti di interesse se riguardano una mezza tacca come Matteo Renzi, mentre non fanno una piega se ad incorrervi sono delle multinazionali.
I giornalisti non si accorgono più dei grandi conflitti di interesse, forse perché tendono ad incorrervi anche loro. Il governo Conte bis aveva allestito nello scorso anno una “task force” per contrastare le fake news sul Coronavirus. Tra le bufale da contrastare all’epoca c’era anche l’ipotesi che il virus fosse un prodotto di laboratorio; magari effettivamente è una balla, ma quest’anno è ascesa al rango di nuova verità ufficiale negli USA, tanto che il boss dei boss della politica sanitaria, Anthony Fauci in persona, ha dichiarato che l’ipotesi è attendibile.
Ma non era questo il dato interessante, bensì il fatto che un governo arruolasse dei giornalisti ancora in servizio nei loro organi di informazione, e li organizzasse in una task force per contrastare le notizie ritenute pericolose. Anche la sorte non gloriosa della task force, non è in sé rilevante, mentre invece lo è il fatto che nessuno dei giornalisti coinvolti si sia sentito in contraddizione a svolgere contemporaneamente sia il ruolo di operatore dell’informazione nella sua testata di origine, sia il ruolo di dipendente del governo.
Anche in questo caso si sta parlando di persone integerrime, di specchiati professionisti dell’informazione, che non hanno agito per meschini interessi personali ma per puro amore della verità; del resto la lotta alle false notizie andava affidata a dei competenti, quindi a dei giornalisti e non a dei ciabattini. Solo che la verità, guarda caso, coincide con la narrativa dell’establishment, che viene quindi assunto come sinonimo di competenza. Il ruolo del giornalista perciò non è quello di controllare l’establishment, bensì di mettere alla gogna chi contesta la versione ufficiale.
Le fake news non sono trattate come un normale prodotto, o incidente, della comunicazione, bensì come un’emergenza nell’emergenza, come l’espressione di un degrado antropologico che minaccia l’ordine costituito. In base all’aurea regola del bue che deve dire cornuto all’asino, ci si riferisce agli stessi giornalisti che ci narrano di complotti da parte di troll che diffondono fake news complottiste. Insomma, le fake news sui complotti delle multinazionali farmaceutiche sarebbero il prodotto di un complotto organizzato dai teorici del complotto. Logica stringente.
Emergenzialismo, santificazione dell’establishment, conflitto di interessi, “competenza”, sub-umanizzazione del dissenso, configurano un unico schema di relazioni sociali e di potere. In definitiva il titolo di legittimazione di questa presunta tecnocrazia non sta in particolari titoli, ma proprio nel conflitto di interessi, che è diventato garanzia di competenza.
L’ultimo rapporto Censis ci ha rivelato che milioni di Italiani credono che la Terra sia piatta. Avevano quindi torto i catastrofisti che ci dipingevano il popolo italiano tutto proteso a spiare le prossime mosse di Maria De Filippi; c’è invece una quota tra il 5 e il 6% che si appassiona a teorie cosmologiche, per quanto eterodosse. Magari qualcuno si darà la pena di deluderci, analizzando i questionari del Censis e scoprendo che sono stati forzati in modo tale da suggerire le risposte ed offrire il quadro di una ventata di irrazionalismo, un calderone mediatico in cui annegare anche evidenze come i conflitti di interesse e lo strapotere del lobbying multinazionale.
Ma, in ogni caso, siamo davvero sicuri che l’irrazionalità sia un’esclusiva del popolaccio infimo? Nella sua ultima conferenza stampa Draghi, oltre a riscuotere la standing ovation dei giornalisti, ha di fatto presentato una sua candidatura alla Presidenza della Repubblica. Certo, in Italia la posizione di Presidente della Repubblica è la più invidiabile, poiché implica la gestione di un potere pressoché assoluto, lasciando a qualcun altro le figure di merda della gestione di governo.
Ma la mossa di Draghi risulta sconcertante per la sua mancanza di senso tattico, perché per il Quirinale non ci si autocandida. Non si chiede di essere eletti, si deve essere candidati dagli altri. Al Quirinale ci si va, secondo la narrazione, “controvoglia”, perché invocati, costretti dal dovere e dal senso di responsabilità. Draghi quindi avrebbe dovuto semmai schermirsi, e dichiarare che il Quirinale non gli interessa. Comportamenti grossolani come l’autocandidatura sono tipici di personaggi squalificati come il Buffone di Arcore, e Draghi si è abbassato al suo stesso livello.
Semmai l’autocandidatura del Buffone rappresenta quella minaccia utile a creare il clima emergenziale atto a far emergere altri candidati, che rappresentino la “salvezza” dalla prospettiva di trasformare il Quirinale in una casa d’appuntamenti. Tutti quelli che fingono di prendere sul serio la candidatura del Buffone, stanno in realtà tirando la volata ad un rinnovo del mandato di Mattarella, pubblicizzato come l’usato sicuro e garantito. Oltretutto, con la sua mossa improvvida, Draghi si preclude anche la possibilità di rassegnare le dimissioni da Presidente del Consiglio in caso di mancata elezione al Quirinale, poiché in tal caso passerebbe da stizzito irresponsabile che sfoga le sue delusioni sbattendo la porta.
In fatto di dilettantismo, Draghi si è esibito in un’altra performance, stavolta in società col presidente francese Macron. I due hanno pubblicato una lettera-documento sul “Financial Times”, in cui propongono una revisione del Fiscal Compact. Il nonsenso dell’operazione appare stridente, dato che a causa dell’emergenzialismo pandemico, il Fiscal Compact è già saltato di fatto e, insieme, Francia e Italia sarebbero abbastanza forti da imporre lo status quo alla Germania. Chiedere di rinegoziare il Fiscal Compact è come ammettere invece di essersi comportati da discoli cercando un accomodamento grazie alla comprensione della controparte. Col loro atteggiamento da mendicanti associati, Draghi e Macron restituiscono la palla alla Germania, che ora può giocarsela, esibendo nuovamente la faccia severa.
Il problema è che Draghi e Macron non sono l’espressione di una generica “Italia” e di una altrettanto generica “Francia”; sono due lobbisti della finanza e quindi ragionano da creditori, perciò considerano l’inflazione come il maggior pericolo, in quanto erode il valore dei crediti. Per raffreddare l’inflazione, la Francia e l’Italia sono state fatte diventare colonie deflazionistiche col pretesto dell’emergenza pandemica. In entrambi i Paesi il settore dei servizi commerciali e turistici è stato volutamente depresso con le cosiddette “misure anti-Covid”, cioè è stato chiuso come una valvola per diminuire i consumi e quindi l’inflazione. Il 31 marzo finirà il principale programma emergenziale di acquisti di titoli (il PEPP) da parte della Banca Centrale Europea, e non è detto che i vari programmi collaterali per iniettare liquidità riescano a surrogare le perdite.
Si rischia quindi non solo di tornare all’austerità conclamata, ma soprattutto di far cessare quella pioggia di liquidità monetaria che consente ai governi di compensare il crollo del gettito fiscale dovuto alle restrizioni pseudo-sanitarie. Ora Draghi e Macron devono vendere alle loro opinioni pubbliche un ritorno all’austerità, spacciandolo però come fine dell’austerità, perciò sono costretti a chiedere pietosamente al governo tedesco di concedere il contentino di una revisione del Fiscal Compact.
L’irrazionalità quindi c’è, eccome; ma non è quella degli eventuali terrapiattisti o dei no-vax ad essere rilevante. I committenti di Draghi e Macron sono schizofrenici, pretendono tutto e il contrario di tutto, la deflazione ma anche la pioggia di liquidità dei programmi di acquisto di titoli da parte della BCE. Si spiega perciò tanta goffaggine da parte di due pur navigati mestieranti del lobbying finanziario. Così come si spiega anche il desiderio di Draghi di scapparsene da Palazzo Chigi, dato che nei prossimi mesi la poltrona di Presidente del Consiglio sarà parecchio scomoda.
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