Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Se una guerra nucleare fosse scoppiata cinquanta o sessanta anni fa, essa avrebbe avuto il crisma e la solennità di uno scontro ideologico, mentre nell’attuale contrapposizione nella crisi ucraina non si riscontra niente del genere, semmai una miseria di motivazioni. Ci sono stati goffi tentativi di inquadrare l’attuale situazione di conflitto tra sedicente “Occidente” e Russia nell’ambito di una dicotomia tra globalismo da un lato e società tradizionaliste/identitarie dall’altra. Questa interpretazione si regge esclusivamente sul rovesciamento della propaganda occidentale, in quanto la Russia da trenta anni sta operando un sistematico tentativo di integrazione nell’economia globale e nelle sue istituzioni di riferimento. L’adesione della Russia al Fondo Monetario Internazionale data al 1992 e quindi potrebbe essere liquidata come un tradimento da parte dell’occidentalista Eltsin.
L’adesione alla World Trade Organization però è del 2012, perciò sarebbe farina del sacco di Putin; ammesso, e non concesso, che sia lui l’unico decisore.
La realtà è che il collasso dell’Unione Sovietica è stato determinato solo in parte dallo stress della guerra fredda e dalla sconfitta in Afghanistan, dato che forse ancora più determinanti sono state le spinte interne alla classe dirigente sovietica per riconvertire il tradizionale imperialismo politico-militare russo in un imperialismo commerciale-finanziario. La linea Gorbaciov prevedeva una ritirata strategica dell’URSS dall’impero europeo, ma non la liquidazione della stessa URSS e neppure la rinuncia all’azione di contenimento dell’imperialismo americano, come si vide durante l’attacco degli USA e dei suoi sodali contro l’Iraq del 1991, quando tecnici balistici russi diedero una mano determinante al regime di Saddam Hussein per sopravvivere. La fine dell’URSS voluta da Eltsin e da Gazprom, comportò il rischioso ritiro anche dall’Ucraina e dalla Georgia, con la conseguente perdita del controllo del Mar Nero, poiché si trovava più conveniente trasformare gli antichi sudditi in clienti paganti di Gazprom. C’è da ricordare che la Russia non aiutò Saddam nel 2003 e neppure Gheddafi nel 2011. Solo la perdita dell’Ucraina nel 2014 e la prospettiva della trasformazione del Mar Nero in un mare americano, ha comportato la riattivazione da parte russa dell’opera di contenimento dell’imperialismo USA in Siria, in Venezuela, in Libia e nell’Africa sub-sahariana.
I dirigenti ex sovietici avevano una concezione del capitalismo da scuola-quadri, quindi edulcorata con astrazioni mitologiche come il "Mercato", la "logica del profitto”, o il cosiddetto “individualismo borghese”. Si illudevano quindi di essere lasciati in pace a far soldi, senza sapere che nel capitalismo sono i soldi a fare te, a trasformarti in quegli zombi e dispositivi automatici che sono i lobbisti. Il capitalismo si basa sulla combinazione esplosiva di capitali privati di Borsa e di denaro pubblico, cioè il denaro privato segue soprattutto i business senza rischio in cui il cliente è lo Stato, quindi paga sicuramente il contribuente. Nulla perciò è in grado di movimentare i capitali come il business delle armi, dove il governo è il committente. Anche i vaccini hanno sempre attirato tanti capitali per gli stessi motivi: la ricerca su di essi si è sviluppata all’interno di programmi per le bio-armi ed alla fine è sempre il contribuente a pagare il conto.
Se il tentativo russo di trasformarsi in un imperialismo commerciale è riuscito solo in parte, è stato infatti per il boicottaggio americano, in particolare per l’azione delle lobby delle armi che occupano da decenni il Dipartimento di Stato. La linea del Dipartimento di Stato è quella di provocare i militari russi con continue estensioni della NATO e, quando arrivavano delle reazioni, punire Gazprom con le sanzioni commerciali e finanziarie.
In assenza di una contrapposizione ideologica, la propaganda occidentalista deve ripiegare sulla demonizzazione di Putin: “il criminale, l’ animale, l’autocrate delirante, l’avvelenatore, il despota sanguinario”, cioè la solita fiaba del dittatore pazzo. A differenza di Hitler, che aveva alle spalle un’ideologia preesistente alla sua leadership, Putin fa invece la figura del “mutante”, il “Mule”, del romanzo di Asimov, un’anomalia antropologica in grado di modificare il corso della Storia e di mettere in pericolo la sopravvivenza dell’umanità con la sua stessa esistenza. Anche se si tratta di fiabe, il troppo è troppo.
A meno che non siano stati ipnotizzati da questa scadente propaganda, i leader europei dovrebbero sapere bene che Putin è solo una figura di mediazione tra i due potentati che dominano in Russia: Gazprom e l’esercito. Indebolire Gazprom comportava automaticamente far crescere il potere dei militari russi poiché veniva meno la capacità di Gazprom di corromperli. La decisione cruciale che ha messo fuori gioco Gazprom quindi non l’ha presa Biden, ma il cancelliere tedesco Olaf Scholz, quando ha deciso di
bloccare la messa in opera del gasdotto Nord Stream 2. Il pretesto ufficiale per il blocco è stato il riconoscimento da parte del governo russo delle repubbliche indipendentiste del Donbass. Si trattava ancora di un atto puramente diplomatico, quindi niente di irreparabile; mentre la sospensione del Nord Stream 2, quella sì, ha messo la Russia nella condizione di perdere i soldi, ma dopo anche la faccia se non avesse invaso l’Ucraina. In effetti col blocco del Nord Stream 2 la Russia non aveva più niente da perdere, poiché nessuna successiva sanzione avrebbe potuto risultare così grave come quella.
Molti osservatori, preoccupati per la piega che stanno prendendo gli avvenimenti, lamentano una presunta “assenza dell’Europa” invocando un’iniziativa diplomatica dei Paesi europei che possa impedire il peggio. Biden si sbraccia, straparla e dà i numeri, quindi attira su di sé tutta l’attenzione, ma forse la realtà è un po’ più complicata.
Non è ancora chiaro l’atteggiamento della Francia. Per quanto riguarda la Germania invece non è da escludere che nella decisione di Scholz abbia avuto un ruolo determinante il lobbying degli armamenti, dato che la tensione con la Russia ha indirizzato i flussi di capitale verso la prospettiva di un riarmo tedesco in grande stile. I tempi sono troppo ravvicinati per non essere sospetti:
il 22 febbraio arriva la decisione di Scholz sul blocco del gasdotto, il 24 febbraio c’è stata l’invasione russa, ed il 28 febbraio Scholz ha annunciato i primi cento miliardi di investimenti in armi, come se la decisione fosse ineluttabile a causa dei capitali che si erano già smossi e perciò si aspettassero solo le condizioni per renderla nota.
L’impressione è che anche l’attuale, ed inconsueto, estremismo italiano faccia da sponda servile all’inconfessato estremismo tedesco, secondo lo schema del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. L’oligarchia italica ha messo da parte il Green Pass (ma solo per il momento!), ponendo in standby gli annessi sogni di grandeur dell’Italietta per il primato nella corsa ai programmi di controllo sociale digitale, con la rinuncia, per ora, agli atteggiamenti da prima della classe tenuti durante l’emergenza Covid. Oggi la priorità è mettersi in fila per agganciarsi al flusso di denaro pubblico che il governo tedesco riversa sulle armi.
La disinformazione a tappeto, con corredo di falsi “esperti”, sulla guerra ucraina ha investito anche aspetti collaterali, come la presunta uscita dalla neutralità di Finlandia e Svezia. Il parlamento finlandese ha approvato la richiesta di adesione formale alla NATO, ma la notizia, pur rilanciata con grande enfasi dai media, va fortemente ridimensionata. La Finlandia ha infatti
un rapporto di partnership con la NATO sin dal 1994, e sul sito della stessa NATO si attribuisce grande importanza a questo rapporto di collaborazione. Del resto non si spiegherebbe la protervia dimostrata dalla Finlandia nell’ambito dell’Unione Europea se Helsinki non potesse rivendicare un ruolo di alleato privilegiato degli USA, con posizione di frontiera nei confronti della Russia. Tra partnership e membership non c’è grande differenza pratica, a meno di non ospitare basi missilistiche con testate nucleari, cosa che farebbe ascendere al ruolo privilegiato di bersaglio prioritario di un’eventuale ritorsione; un privilegio che l’Italia può già vantare da molti decenni.
Se la Finlandia non è più neutrale da quasi trenta anni, non lo è neppure
la Svezia, dato che risulta anch’essa “partnerizzata” con la NATO sin dagli anni ’90, come ci informa ancora una volta lo stesso sito della NATO. La posizione di neutralità della Svezia aveva peraltro una lunga storia (anche se non paragonabile a quella della Svizzera), tanto da attraversare tutta la seconda guerra mondiale.
La fine della guerra fredda ha quindi comportato una ridefinizione di equilibri ben precedenti alla guerra fredda stessa, tanto da determinare anche profonde modifiche dell’assetto internazionale uscito dalla prima guerra mondiale. Si è verificato perciò uno smantellamento cruento della Jugoslavia, uno Stato che il presidente Wilson aveva creato nel 1919 in funzione di contenimento dell’imperialismo adriatico dell’Italia. Si attuò all’inizio degli anni ‘90 anche la separazione tra Repubblica Ceca e Slovacchia, senza particolare spargimento di sangue; a meno di non voler considerare tale lo strano “incidente” capitato ad Alexander Dubcek nel 1992, uno dei tanti casi sospetti silenziati dai media, che non dedicarono particolare attenzione alla morte dell’ex eroe della Primavera di Praga del 1968, diventato inviso al Sacro Occidente perché contrario alla separazione della Cecoslovacchia.
La stessa riunificazione della Germania non aveva alcun nesso storico e logico con la caduta del Muro di Berlino, dato che la divisione in più Germanie era stato un intendimento comune degli alleati della seconda guerra mondiale. A distanza di trenta anni i commentatori americani non riescono ad offrire una spiegazione plausibile dell’assenso offerto da Bush senior e da Clinton per la riunificazione tedesca, nonostante la posizione contraria di Francia e Regno Unito.
In
un articolo del New York Times, scritto nel 2017 in occasione della morte di Helmut Kohl, la riunificazione tedesca venne presentata come una sorta di “premio di fedeltà” alla persona del cancelliere; una tesi molto poco “strategica”, dato che i leader cambiano e gli Stati rimangono. La fedeltà di Kohl sarebbe inoltre consistita nell’accettare senza problemi l’installazione sul proprio territorio dei missili Pershing. In realtà all’inizio degli anni ‘80 vi fu tra i leader europei una gara di velocità nell’ospitare quei missili, e basti ricordare lo zelo atlantista del povero Craxi, che ispirò la battuta secondo cui il socialismo italiano era passato dal massimalismo al missilismo.
Non a caso la rinnovata ostilità antitedesca ha caratterizzato la politica USA degli ultimi venti anni, in considerazione del fatto che l’Unione Europea è diventata una colonia della Grande Germania. Era una facile profezia che la riunificazione tedesca avrebbe squilibrato irrimediabilmente i rapporti di forza in Europa, ma questa profezia fu sacrificata all’esigenza di espandere al più presto la NATO ad Est.
Per ammissione dell’esponente del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, col suo famoso “Fuck Europe” del 2014, la vicenda ucraina è stata gestita dal Dipartimento di Stato USA tanto in funzione antirussa che antitedesca, con la preoccupazione di separare le sorti economiche ed energetiche di Russia e Germania. Sennonché il risultato di questa separazione si configura adesso nel consenso americano al riarmo tedesco, quantificato, ma solo per ora, in investimenti per cento miliardi di euro. Ancora poca cosa in confronto agli stratosferici budget della Difesa USA, ma moltissimo in considerazione della capacità industriale tedesca di spiazzare tecnologicamente l’attuale livello di sofisticazione delle armi. Già dal febbraio scorso il governo tedesco ha fatto sapere che intenderebbe spendere una parte di quei soldi per
acquistare dei caccia F35 di quinta generazione, i famigerati bidoni volanti della Lockheed Martin. La decisione tedesca non è ancora definitiva, ma si tratterebbe di un ovvio pedaggio da pagare al padrone USA per poter dopo procedere all’elaborazione di proprie tecnologie militari.
Sarebbero poi da considerare gli effetti psicologici sulla Germania di un riarmo della portata che si sta annunciando; e la perplessità a riguardo non è dettata dai soliti pregiudizi etnici sui Tedeschi, poiché una questione analoga potrebbe essere posta per qualsiasi altro Paese, compreso il nostro. Se l’intento USA era quello di ridimensionare la Germania, si deve concludere che siamo ad un caso conclamato di schizofrenia.