Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Quando nel 1991 finirono l’Unione Sovietica e il socialismo reale, ci è stato raccontato che l’assorbimento della Russia nell’economia occidentale avrebbe determinato una cessazione dei conflitti ideologici e l’inaugurazione di un’era di pace e sviluppo. La narrazione attecchì anche in settori della cosiddetta sinistra radicale, per cui pochi a quel tempo osservarono che un’integrazione della Russia nel sistema capitalistico avrebbe inevitabilmente inasprito i conflitti imperialistici. Anzi, la parola “imperialismo” fu censurata dal politicamente corretto, ed il mantra consistette nell’individuare l’unico pericolo di guerra in quel soggetto politico fantasma che sarebbero i “nazionalismi”. In realtà le nazioni non esistono in natura e sono prodotti storici degli imperialismi, per cui ogni Stato nazionale non è che un imperialismo interno che si esprime nel confronto con altri imperialismi. La criminalizzazione del dittatore di turno è la formula obbligata con cui l’attuale falsa coscienza, il politicamente corretto, deve dissimulare il conflitto intercapitalistico, lo scontro degli imperialismi, ed anche il costo crescente dell’imperialismo a scapito del livello di vita della popolazione.
L’espansionismo commerciale della Russia è stato immediatamente percepito come una doppia minaccia, politica ed economica. Nel 2009 era già chiaro che gli USA non avrebbero consentito l’attuazione del gasdotto North Stream 2, che collegherebbe (se fosse operativo) la Russia e la Germania. La Polonia lanciò l’allarme: l’impero russo si stava espandendo usando petrolio e gas invece dei carri armati. Da Washington l’allarme veniva rilanciato a tutte le altre cancellerie europee. L’epoca della sedicente globalizzazione ha visto così una recrudescenza delle guerre commerciali ed un uso a tutto campo dell’arma delle sanzioni.
Dalla seconda metà degli anni ’90 era già iniziata l’espansione della NATO ad Est, per cui la Russia tentò persino di farsi integrare a sua volta nell’alleanza, ovviamente senza riuscirci. Con l’espansione inarrestabile della NATO l’imperialismo USA perdeva attitudini classiche degli imperialismi, cioè la dissuasione e l’equilibrio di potenza. L’automatismo dei comportamenti statunitensi man mano toglieva all’avversario russo la preoccupazione di avere qualcosa da perdere, infatti, quali che fossero le mosse russe, la NATO si allargava ugualmente. Rispetto alle tradizionali alleanze militari la NATO è qualcosa di più: un apparato mastodontico che si configura come una rete di carriere personali con porte girevoli tra pubblico e privato e di lobby di affari, da quelli “legali” a quelli illegali, che si consumano all’ombra del segreto militare. Non solo l’Unione Europea, ma anche la NATO, funzionano col pilota automatico di cui ci narrò Draghi nel 2013, quando disse che i governi potevano cambiare ma che l’agenda di governo sarebbe rimasta sempre la stessa.
Oggi ci si racconta il conflitto in Ucraina come una serie di mosse e contromosse, di azioni della Russia e di reazioni della NATO. In realtà quella pioggia di forniture militari che giunge all’Ucraina non è una risposta all’invasione, ma era già cominciata da tempo. Nel settembre dello scorso anno il Congresso USA approvava l’invio di batterie missilistiche all’Ucraina.
La spesa in armamenti crea il fatto compiuto a cui poi adeguare tutta la politica, per cui i flussi di denaro sono diventati indipendenti da ogni strategia sottostante. Si può dire che l’espansione della NATO non è stata l’effetto di una decisione strategica ma una conseguenza del lobbying delle armi, che ha promosso gli affari trovando ogni volta nel repertorio linguistico del politicamente corretto gli slogan pubblicitari utili alle esigenze del business, secondo lo schema collaudato dal Segretario di Stato Madeleine Albright. Nel 2003 la NATO e l’Ucraina festeggiavano i loro primi cinque anni di partnership. Il colpo di Stato di piazza Maidan di undici anni dopo arrivava come ovvia conseguenza, poiché occorreva rendere irreversibile il processo di colonizzazione militare ed economica dell’Ucraina.
L’uscita di Svezia e Finlandia dalla loro presunta neutralità, ci viene anch’essa narrata come una risposta all’invasione russa: gli agnellini spaventati dall’orso russo che corrono a rifugiarsi tra le braccia di mamma NATO. In realtà Svezia e Finlandia sono partner della NATO da ventotto anni, dal 1994, cioè nel periodo in cui la Russia sembrava in pezzi e prossima ad un crollo definitivo. Nel 2011 la Svezia ha fornito persino supporto alle operazioni militari contro la Libia, e dal 2014 ha partecipato ad operazioni militari in Afghanistan. E questo perché era “neutrale”. Le frenesie del militarismo svedese sono del tutto comprensibili, se si considera che la Svezia è uno dei Paesi che mirano esplicitamente ad una dissoluzione della Russia per ritagliarsi nuovamente un ruolo imperialistico nel mondo slavo. Del resto l’Ucraina di Kiev è nata come colonia svedese.
Il militarismo finlandese non è da meno per mezzi e personale. La Finlandia è inoltre uno dei pochi Paesi ad aver mantenuto l’esercito di leva, per cui in caso di guerra può mobilitare quasi un milione di uomini.
Nel 2018 Svezia e Finlandia parteciparono ad un’esercitazione militare congiunta con la NATO, che venne presentata come la premessa di una prossima adesione a tutti gli effetti, quindi era tutto già deciso e l’invasione russa è stata solo l’occasione per farlo sapere e digerire all’opinione pubblica ignara.
A distanza di varie settimane dall’annuncio dell’uscita dei due Paesi dalla cosiddetta “neutralità”, nessun giornalista o “esperto” del mainstream, neppure della tendenza più “critica” verso l’escalation militare, si è preoccupato di dare una sbirciata al sito della NATO in modo da accertare fino a che punto era già arrivata la collaborazione militare tra la Svezia, la Finlandia e la NATO. Queste omissioni sono un oggettivo indicatore del grado di attendibilità della comunicazione ufficiale.
Gli aedi dell’establishment in questa vicenda ucraina vivono una condizione di frustrazione poiché sanno di non avere più dietro di sé la ”solida e compatta maggioranza” di ibseniana memoria, come ai bei tempi del Covid. In realtà è una semplice questione di rapporti di forza: una cosa è chiamare le masse ad una ludica guerra civile per vessare l’inerme minoranza dei no-vax, altra cosa è il confronto con una potenza nucleare come la Russia. Appare normale che stavolta la maggioranza degli Italiani non voglia starci, anche perché troppe imprese dipendono dal gas russo e dal mercato russo.
La reazione di una parte dell’establishment a questa condizione di isolamento dalla gran parte della pubblica opinione si configura nel neo-maccartismo. Rinato negli USA direttamente ad opera del presidente Biden, il maccartismo è stato immediatamente adottato anche in Italia dall’organo di vigilanza sui servizi segreti, il Copasir, che attribuisce la scarsa popolarità del bellicismo alle spie ed alle fake news della Russia. Anche il maccartismo storico fu originato nella prima metà degli anni ’50 dal rifiuto di gran parte dell’establishment americano di fare i conti con i rapporti di forza. La frustrazione dovuta allo shock dell’atomica sovietica ed alla batosta rimediata in Corea contro i “volontari” cinesi, venne sfogata dando vita ad una commissione per indagare sulle “attività antiamericane”; una commissione che si accanì contro Hollywood, cioè proprio contro la fabbrica della propaganda americana più efficace ed insinuante, tanto da aver convinto tutti che gli USA avessero vinto la guerra da soli. La psicosi sulle spie comuniste copriva l’incapacità di ammettere che anche imperialismi straccioni come quello russo e quello cinese erano in grado di mordere, e infatti erano stati determinanti nella sconfitta della Germania e del Giappone. Quando la caccia al comunista cominciò a infastidire settori dello stesso establishment, si diede il permesso ad Hollywood di reagire con film di denuncia sul maccartismo, per cui dagli USA poterono nuovamente arrivarci lezioncine sulla libertà.
La questione dei rapporti di forza comunque si fa strada nel dibattito e, non a caso, uno dei politici più zelanti nella caccia ai no-vax, Pierluigi Bersani, ha rivestito i panni dell’agnellino auspicando un “negoziato” con la Russia su una base piuttosto pragmatica. Al di là delle narrative mediatiche sui suoi tracolli militari, la Russia si è già presa quello che voleva, il Donbass ed il Mar d’Azov; ma ora sta occupando anche altri territori, da cui potrebbe ritirarsi in caso di accordo tra le parti in conflitto, ciascuna delle quali potrebbe presentarsi come parzialmente vittoriosa. Anche la narrazione sulle sconfitte subite dall’esercito russo potrebbe risultare una bugia utile a salvare la faccia mentre si fanno concessioni territoriali su Crimea e Donbass. Persino la NATO potrebbe spacciare come un proprio rafforzamento l’ingresso di Finlandia e Svezia (che sono in realtà già partner NATO da un quarto di secolo).
Tutti felici e contenti? Per niente, dato che c’è in ballo la variabile del business di tutte quelle armi che stanno piovendo in Ucraina. Il nucleo solido del regime ucraino è rappresentato dalle milizie naziste che vivono nel culto del loro eroe della seconda guerra mondiale, Stepan Bandera, e che il Dipartimento di Stato USA sta allevando dai tempi della guerra fredda. Il rischio è che i banderisti, forti delle armi e di tutte le loro ramificazioni in Europa, diventino una nuova potenza autonoma al centro dell’Europa stessa. La “denazificazione dell’Ucraina” potrebbe risolversi in nazificazione dell’Europa. Nel 2014 la stampa mainstream di tutto il mondo “occidentale” poteva ancora mostrarsi preoccupata per prospettive del genere, mentre oggi non potrebbe più farlo.
Possibile che gli Stati europei tollerino un pericolo del genere senza reagire, anzi, collaborando alla propria destabilizzazione? Possibilissimo, se si considera che si tratta di Stati che non corrispondono al mito che si ha comunemente sullo Stato, dato che sono intrecci di lobby. Il caso italiano è eclatante. A volte per sparare balle, si finisce involontariamente per dire una verità. Piero Fassino ha paragonato le pretese russe sul Donbass ad un’eventuale richiesta di restituzione del Lombardo-Veneto da parte dell’Austria. Fassino ha toccato così il vero fondo oscuro della politica italiana, cioè il separatismo strisciante che si cela dietro le istanze di autonomia differenziata delle Regioni del Nord Italia.
La Lega ed il PD stanno adesso nello stesso governo, ma di solito si spacciano per partiti alternativi, mentre invece sono alleati sul progetto di autonomia differenziata, tanto che il presidente della Regione Emilia-Romagna, il piddino Stefano Bonaccini, rappresenta la figura di traino anche nei confronti dei leghisti Zaia e Fontana nell’incalzare il governo per riscuotere concessioni "autonomiste", cioè di più mani in pasta nella gestione del denaro pubblico. Salvini si mostra preoccupato circa gli effettivi destinatari delle armi che l’Italia sta inviando, ma non si decide a far cadere il governo, poiché è un “leader” di facciata, messo lì a fare da imbonitore, mentre il vero gruppo dirigente della Lega persegue i propri obbiettivi separatistici e affaristici.
L’ombrello europeo per questo separatismo strisciante è la Macroregione Alpina, con un centro austro-bavarese che fa da attrazione verso le Regioni limitrofe. Ad onta di ciò che dice Fassino, non solo l’Austria si sta riprendendo il Lombardo-Veneto, ma ci lucra pure gli interessi, visto che nel pacchetto ora ci sta persino l’Emilia-Romagna, che con le Alpi e con l’Austria non ha mai avuto a che vedere. Ma tra poco il quadro europeo delle autonomie differenziate dovrà probabilmente misurarsi con la nuova realtà di una ISIS banderista.
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