Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Fortuna vuole che in questo periodo il “pericolo fascista” sia incarnato da un personaggio con il pedigree in piena regola come Giorgia Meloni, la quale proviene da un lignaggio nostalgico-fascista a denominazione di origine controllata. Purtroppo da parte “antifascista” si tende come sempre a barare, usando le radici ideologiche della Meloni come motivo per dubitare della sua effettiva fedeltà euro-atlantica. Si tratta di un sospetto alquanto ingeneroso se si considera la storia dei fascisti dal 1945 in poi; una vicenda che ci propone esempi luminosi, come il principe Junio Valerio Borghese, che negli ultimi giorni di Salò andò a trattare il suo reclutamento da parte degli Alleati già con l’uniforme americana addosso; oppure come Pino Rauti, fondatore e capo di Ordine Nuovo, oltre che esponente di primo livello dei servizi segreti della NATO. Insomma, a noi che abbiamo avuto
Gladio, il Battaglione Azov ci fa un baffo.
Nel dopoguerra il riciclaggio in grande stile del personale fascista in funzione anticomunista trovò un cronista efficace nel
comico triestino Angelo Cecchelin, il quale era stato perseguitato in epoca fascista, e poi perseguitato nuovamente in epoca antifascista da poliziotti già fascisti poi passati a lavorare per la repubblica antifascista, rimanendo però fascisti. Così, mentre il povero Cecchelin era costretto a nascondersi, i fascisti potevano scorazzare per le strade cantando “Giovinezza” grazie ai privilegi offerti dalla loro militanza anticomunista. Non c’è perciò nessuna contraddizione tra la matrice nostalgico-fascista della Meloni e la sua attuale militanza nell’Aspen Institute e nella NATO, anzi, c’è una precisa coerenza storica. La camicia a stelle e strisce è stata la naturale erede della camicia nera.
Se si va ad analizzare i reali contenuti del nostalgico-fascismo ci si accorge infatti che non si tratta per niente della rivendicazione di indipendenza nazionale o di ruolo imperiale, bensì del rimpianto verso la mitica figura del Duce, colui che voleva risollevare l’Italia e del quale gli Italiani non si sarebbero dimostrati degni. Tra fascismo ed antifascismo si riscontra perciò questo filo di continuità nel senso dell’autorazzismo: siamo un popolo minorenne e minorato, quindi bisognoso di un tutore che sia in grado di disciplinarci e di garantirci a livello internazionale grazie al suo personale prestigio. Questa convinzione accomuna i nostalgici di Mussolini ed i nostalgici di Draghi. Questi salvatori della patria hanno avuto però a loro volta dei tutori, visto che in epoca fascista era il re a detenere le leve decisive del potere, mentre oggi tutta la vicenda del governo Draghi è stata gestita da un monarca in versione repubblicana.
Un equivoco storico riguarda il mito secondo il quale la nostra Costituzione antifascista avrebbe rappresentato un serio tentativo di rottura con il passato, ciò al di là del fatto che questa Costituzione sia stata disattesa o tradita. Che ci sia stata in molti dei Costituenti l’aspirazione ad un vero cambiamento, non c’è dubbio; anzi, dal punto di vista filosofico la nostra Costituzione introduce un concetto come la “pari dignità sociale” che è certamente interessante, poiché supera molte delle contraddizioni del liberalismo classico. Mentre la tradizione liberale si è avvitata tra concezioni espansive della libertà e concezioni costrittive dell’uguaglianza, invece il tema della dignità delinea la possibilità di precise soglie di rispetto nei confronti delle persone. In base alla “pari dignità sociale” sarebbero da considerare incostituzionali non solo il Trattato di Maastricht, la precarizzazione del lavoro e il Green Pass, ma anche l’insolenza arrogante e altezzosa che caratterizza l’attuale comunicazione istituzionale.
Ma queste osservazioni valgono per la parte introduttiva ed enunciativa della Carta Costituzionale, non per l’ordinamento dei poteri. In base ad una lettura superficiale della Costituzione, c’è la diffusa opinione che l’Italia oggi sia una repubblica parlamentare. In realtà nel 2013 vi fu un tentativo del parlamento di pronunciarsi contro l’acquisto degli aerei caccia F-35, ma il Consiglio Supremo di Difesa, presieduto da Giorgio Napolitano, dichiarò che si trattava di materia di esclusiva competenza del governo, rispetto alla quale il parlamento non poteva porre veti.
Il parlamento è un organo costituzionale, mentre
il Consiglio Superiore di Difesa è semplicemente un organo di rilevanza costituzionale, quindi dovrebbe essere gerarchicamente inferiore. In realtà così non è, dato che nel Consiglio Supremo di Difesa non ci sono soltanto il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio e il ministro della Difesa, ma anche i vertici delle Forze Armate. Si tratta perciò di un organo integrato e immediatamente operativo, rispetto al quale il parlamento ha margini di manovra quasi inesistenti, poiché potrebbe al massimo sfiduciare il governo ma non il Presidente della Repubblica o i vertici delle Forze Armate. E poi anche un governo sfiduciato potrebbe rimanere in carica se il Presidente della Repubblica così disponesse, mentre invece il parlamento non potrebbe opporsi se il Presidente della Repubblica decidesse di scioglierlo, a parte la breve limitazione del “semestre bianco”.
Il Buffone di Arcore tiene fede all’appellativo che si è ampiamente guadagnato, infatti auspica una repubblica presidenziale. La proposta non ha senso, dato che in Italia siamo già ben oltre il presidenzialismo, siamo addirittura al super-presidenzialismo. Considerato un semplice garante della Costituzione, il Presidente della Repubblica è in realtà investito di poteri effettivi. La locuzione
“finzione giuridica” non è un semplice modo di dire, ma è una possibilità prevista dalla legge; per cui per legge si possono effettivamente costruire delle situazioni vere/non vere in barba alla mitica “certezza del Diritto”. Il parlamento è formalmente il depositario della sovranità popolare che si esprime con il voto, ma è anche nella condizione di un minorenne/minorato da mantenere costantemente sotto tutela. La Costituzione antifascista condivide col fascismo questa figura del tutore, per cui si determina legalmente l’ossimoro di una sovranità popolare sottoposta ad un doppio filtro: prima la delega a dei rappresentanti, poi la riduzione sotto tutela di questa sovranità rappresentata. La sovranità si rivela così un dono avvelenato proprio per il popolo che ne sarebbe il beneficiato, infatti si finge di dargli importanza solo per avere più occasioni per umiliarlo e trattarlo da deficiente.
La parte ordinamentale della Costituzione sottintende una vera e propria restaurazione monarchica, dietro il fittizio paravento di repubblica parlamentare. Il dato di fatto fu sancito dal primo Presidente della Repubblica eletto dopo la proclamazione della Costituzione, Luigi Einaudi, ex governatore della Banca d’Italia. Einaudi era famoso per la sua contrarietà agli “sprechi”, ma intanto scelse come dimora la fastosa reggia del Quirinale, mentre il suo predecessore, Enrico De Nicola, si era accontentato di un ufficio a Palazzo Madama. Il Quirinale segna simbolicamente lo status monarchico del Presidente, quindi congeda definitivamente ogni possibilità di “pari dignità sociale”.
All’inizio degli anni ’90 l’illimitata circolazione dei capitali ha annichilito la politica ed il sistema dei partiti, per cui si sono determinate le condizioni per un’ulteriore formalizzazione del regime monarchico, con la reiterazione dei mandati presidenziali. Va notato però che nel 1948 il sistema dei partiti appariva al massimo della sua vitalità, eppure fu nominato alla Presidenza della Repubblica un ex banchiere centrale; quindi la vendetta dell’establishment finanziario era già latente nel nostro sistema da molto prima del Trattato di Maastricht.
C’è un passaggio interessante nelle motivazioni - depositate pochi giorni fa - della sentenza di appello che il 23 settembre scorso aveva mandato assolti gli ufficiali dei carabinieri condannati in primo grado di giudizio per la famosa
“trattativa Stato-mafia”. Secondo i giudici: “V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra … Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. Questa lezioncina di geopolitica avrebbe un senso se si ritenesse che lo Stato non rivendica il suo carattere di unico potere legittimo, ma si considera una banda che si disputa il territorio con altre bande in un alternarsi di conflitti ed alleanze tattiche. Si potrebbe anche scendere dalle vette della geopolitica e procedere ancor più rasoterra: non esiste lo Stato, non esiste Cosa Nostra, ma esiste semplicemente il potere, con le sue trasversalità tra le fittizie categorie giuridiche di pubblico e privato, di legale e di illegale. Certe contiguità tra forze dell’ordine e criminali sono quindi fenomeni fisiologici della gestione materiale del potere, che ovviamente è sempre ispirata al “superiore interesse”. E chi siamo noi per affermare il contrario?
Sino a qualche anno fa una sentenza con argomentazioni così arroganti e spudorate sarebbe stata impensabile ed i giudici avrebbero trovato il modo di assolvere gli imputati o negando l’evidenza dei fatti, oppure con cavilli che rendessero inaccettabili le prove documentali. Secondo il roleplay istituzionale potevano essere semmai i governi o i poliziotti a fare di questi appelli all’interesse superiore per scavalcare le regole, mentre alla magistratura spettava di richiamare, anche ipocritamente, al rispetto della lettera della legge. Ma due anni e mezzo di emergenzialismo Covid non sono passati invano, per cui ci siamo abituati a vedere dei giuristi e “costituzionalisti” come Cassese e Zagrebelsky affannarsi a legittimare lo sciamanismo del ministro Roberto Speranza, il quale può vantare una sua relazione mistica con l’Ascienza. Il primato della legge e la separazione dei poteri alla fine si rivelano illusioni di una modernità rimasta allo stadio di aspirazione, per cui il potere rivela il suo nucleo arcaico ed ancestrale, con questi re-sacerdoti che ci comunicano il volere degli dei. Nulla di strano perciò nel fatto che anche ad alti ufficiali dei ROS si riconosca la facoltà di farsi illuminare direttamente dal Nume dell’Interesse Superiore.
Gli ufficiali dei ROS comunque se la sono passata liscia, e buon per loro. Ma siamo sicuri che il rapporto mistico col “superiore interesse” non mieta invece altre vittime? Non è che questa concezione sacerdotale del potere comporta i suoi silenziosi sacrifici umani? Il dubbio trova una sua fondatezza se si segue la vicenda tragica di altri esponenti, magari meno illustri, delle forze dell’ordine.
Nel giugno scorso l’associazione sindacale dei carabinieri Unarma ha lanciato un allarme sul fenomeno dei
“suicidi” tra le forze dell’ordine. Tra il 2014 e il 2021 i casi di suicidio tra poliziotti, carabinieri e guardie di finanza sono stati 355 (sì, proprio trecentocinquantacinque). Dal gennaio al maggio dell’anno in corso si sono verificati altri 29 (sì, proprio ventinove) casi di suicidio, addirittura quattro nella stessa settimana e due nella stessa caserma. Dal 2014 a questi ultimi giorni siamo già ad un totale di 384 morti: praticamente i numeri di una guerra civile. Sono infatti dati ufficiali che dovrebbero far clamore, ma rimangono invece ai margini della comunicazione e non pervengono assolutamente al dibattito politico.
Il problema è che i suicidi sono un po’ troppi per essere spiegati con il solito “disagio psicologico” da adolescenti. Del resto, se tassi di suicidio di questa entità si riscontrassero, ad esempio, tra le forze dell’ordine russe, li riterremmo realistici e credibili? Ma anche chi volesse a tutti i costi dar credito alla versione del suicidio di massa, dovrebbe poi essere anche in grado di spiegare come mai non ci sia ancora un commissione di inchiesta a riguardo.
Non mancano però i casi di suicidio persino tra i magistrati. Nel 1998 si tolse la vita un magistrato che era oggetto di indagini, Luigi Lombardini; e il fatto suscitò polemiche politiche piuttosto accese. Certi suicidi un po’ troppo tempestivi hanno riguardato anche altri magistrati sotto inchiesta. Il problema è che queste tendenze suicide riguardano persino magistrati immuni da qualsiasi sospetto o pendenza. Nella maggior parte delle volte però le notizie su queste strane morti tra i magistrati passano senza che la stampa vi attribuisca un rilievo eccessivo; anzi, come in un caso del 2020, affrettandosi a precisare che tutte le circostanze sono già chiarissime e che
non ci sono “gialli”. L’ammonimento era piuttosto evidente: chiunque pensi di rivolgere qualche domanda di troppo sappia di essere già candidato alla gogna come “complottista”. In fondo, una volta stabilito che si tratta di suicidio, cosa importerebbe se fosse “suicidio assistito”?
A rassicurare tutti i potenziali malpensanti c’è comunque l’accuratezza rigorosa e meticolosa con cui vengono svolte le indagini.
Nel 1999 una magistrata fu trovata suicida negli uffici del tribunale civile di Torino. Secondo la versione ufficiale infatti la povera donna si era tolta la vita sparandosi ad una tempia con due (sì, proprio due) colpi di pistola. Con il “suicidio” di Raul Gardini si è ben delineato lo schema che seguono le indagini: all’inizio qualche cosina non torna, i colpi sparati sono troppi, l’arma è fuori posto, ma col tempo gli opportuni “ricordi” degli inquirenti rimettono i pezzetti laddove devono stare. C’era da qualche parte un criminologo che diceva che non esistono suicidi ma soltanto indagini insabbiate. Ma sicuramente quel criminologo non ha mai fatto carriera.