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Il testo che presentiamo, Lo spionaggio fascista all'estero, è inedito in Italia. Fu scritto e pubblicato da Camillo Berneri nel 1928, mentre era esule in Francia. Il testo ci proietta di colpo in un contesto difficile da comprendere immediatamente, perché, persino a chi possieda una buona cultura storica, potrebbero mancare i punti di riferimento.
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Questa è la trama della storia. A Sassuolo dei carabinieri pestano a sangue un immigrato marocchino ormai inerme, ma un altro immigrato riprende il fatto con la videocamera del suo telefonino e la scena finisce su internet. Ma c'è un colpo di scena: ecco che, invece della prevista indignazione, i carabinieri ricevono il sostegno ed il plauso del governo ed anche dell'opinione pubblica, che si pronuncia a favore dell'Arma con lettere e telefonate alle redazioni dei giornali. Come in un reality show, al pubblico è stata data l'occasione di partecipare e di esprimere il suo voto. Peccato che tutta la rappresentazione appaia rigorosamente falsa, proprio come avviene nei reality show.
Che le immagini del pestaggio siano state riprese per caso e siano poi trapelate clandestinamente, è del tutto improbabile. La vicenda ricorda, in scala ridotta, la campagna mediatica sulle "rivelazioni" delle torture nel carcere di Abu Ghraib. Anche in quel caso la comunicazione fu all'insegna dell'ambiguità, del doppio messaggio: un'indignazione di maniera che sottintendeva uno smaccato compiacimento.
In tal modo il Potere può giocare su due tavoli: da un lato pretende di essere umanitario e legalitario, perciò migliore dei suoi avversari, dall'altro lato però rivendica di potersi lasciare completamente le mani libere, irridendo l'ipocrisia dei "buonisti" che non accettano di "sporcarsi le mani". È una debolezza tipicamente occidentale quella di considerare l'impudenza e la mancanza di scrupoli come una sorta di condizione morale superiore, il che consente di poter fare agli altri la morale, rivendicando però per se stessi la libertà da ogni vincolo morale.
Ma la vera ambiguità di questo tipo di messaggi, sta nella loro capacità di trascinare gli spettatori in una dimensione che supera la distinzione tra il vero ed il falso, cioè la dimensione del gioco. In fondo molti spettatori sanno, o sospettano, che i reality show siano finti, ma fanno finta di niente, cioè stanno al gioco.
Allo stesso modo, sono oggi molti di più di quelli che sembrano, a dubitare dell'autenticità della rappresentazione del terrorismo e dello scontro di civiltà tra Occidente e Islam, e magari in tanti sospettano che sia stato proprio Bush a far saltare ieri i grattacieli e oggi le cupole delle moschee; però accettano lo stesso di partecipare al gioco, recitandovi le battute prestabilite.
Non che nel sistema della comunicazione la verità sia completamente assente, ma è confinata in "nicchie". Se invece si vuole accedere - o sperare di accedere - ai vertici della comunicazione, allora bisogna partecipare alla finzione.
Comidad, 2 marzo 2006
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