Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nelle ultime settimane
i media mainstream si sono occupati del caso dell’anarchico Alfredo Cospito, che sta scontando l’ergastolo ostativo nel carcere di Sassari. Cospito era stato dichiarato colpevole di un attentato dimostrativo contro i Carabinieri e per questo aveva subìto una dura condanna; sennonché, in uno degli slanci creativi a cui ormai la giurisprudenza della Corte di Cassazione ci ha abituati, il reato è stato riconfigurato come “strage”, sebbene non ci fossero stati morti e neppure feriti, e quindi è scattata la condanna all’ergastolo. Il metamorfismo concettuale operato dalla Corte per questa dilatazione del reato è risultato piuttosto oscuro, ma parrebbe che nel gesto attribuito a Cospito si sia scorto un intento di attacco alla personalità dello Stato, una sorta di lesa Maestà. Su certi aspetti il potere non cambia mai, perciò la cara e vecchia accusa di sacrilegio rimane uno dei suoi schemi ricorrenti, che si ritrova nei contesti più diversi. Lo Stato non esiste, è solo una chimera giuridica che copre un coacervo di bande, ma se glielo fai notare ci rimane male. Per questi suoi presunti assalti alla sacralità del potere, Cospito è inoltre sottoposto alle restrizioni previste dall’articolo 41bis e, per questo motivo, da alcune settimane è in sciopero della fame.
Del caso Cospito sono state tentate varie possibili spiegazioni. Alcuni lo hanno considerato un tipico esempio di sadismo burocratico, in cui vari organi di potere hanno fatto a gara tra di loro nel dimostrarsi più zelanti nell’accanirsi contro un soggetto debole; che poi moralmente debole non è, visto che ha il coraggio di sfidare i propri aguzzini. Altri hanno inquadrato l’episodio come manifestazione della cattiva coscienza di uno Stato in cronica sindrome emergenzialista, che finge di esorcizzare il proprio stesso caos scaricandone la colpa su un capro espiatorio ideale, cioè l’anarchico.
Altri ancora si sono invece concentrati sulla questione dell’ergastolo ostativo previsto dall’articolo 41bis, ipotizzando che la scelta di utilizzare a sproposito una normativa, che era stata presentata in funzione antimafia, contro uno che non ha nulla a che vedere con tutto ciò, fosse appunto dettata dallo scopo di screditare un regime carcerario rivelatosi utile per isolare i boss del crimine organizzato dalla loro rete di potere. Non si tratterebbe neppure di avventurarsi nell’operazione, politicamente molto rischiosa, di abolire il 41bis, ma semplicemente di creare una condizione di confusione, per cui se si tratta l’anarchico come un mafioso si potrebbe persino trattare il mafioso come un anarchico. Un’operazione mistificatoria di tal genere è resa possibile anche dal fatto che il 41bis non si applica automaticamente a certe categorie di reati, bensì viene imposto caso per caso, per cui, con l’opportuna dose di confusione, ci sarebbe spazio per qualsiasi discrezionalità o abuso, dato che la norma è già formulata di per sé in modo molto vago. Il 41bis è stato venduto all’opinione pubblica come norma antimafia, ma nel testo non mancano riferimenti ad altre categorie di reati come il “terrorismo”, che è una nozione molto generica ed applicabile anche alle opinioni. Nel 41bis c’è soprattutto l’appello ad una categoria ancora più generica, la famigerata “emergenza”, con la quale è possibile giustificare tutto ed il contrario di tutto.
Del resto c’è già il precedente del 1993, nel quale
un ministro della Giustizia ritirò le misure di detenzione ai boss detenuti all’Ucciardone; e le giustificazioni addotte spaziarono dalle sottili disquisizioni giuridiche alle smaccate confessioni di aver condotto una trattativa con la mafia, con la motivazione, o con il pretesto, di evitare altre stragi. Il ministro si autoassolveva in quanto, secondo lui, non si poteva parlare di trattativa se non c’erano stati da parte sua rapporti diretti con la controparte mafiosa. Insomma, il 41bis non si è mai fermato al bis, ma ha assunto tante facce quante ne sono servite, tanto è vero che l’emergenzialismo consente di imporre o ritirare a piacimento la norma.
Tutte queste spiegazioni del caso di Cospito non sono necessariamente incompatibili l’una con l’altra; anzi, ognuna di esse potrebbe essere atta a descrivere questo o quel risvolto della vicenda. La cosa strana è che il 41bis ha sempre avuto l’alone di incostituzionalità, ciò sin dalla sua prima formulazione nel 1986. Quando la normativa fu ulteriormente modificata e inasprita nel 1992 col noto decreto Martelli-Scotti, il presidente della Corte Costituzionale dell’epoca offrì al governo il varco giuridico della provvisorietà; quindi una misura incostituzionale ma legittimabile in quanto “temporanea” (temporanea sì, però prorogabile). In effetti il 41bis si è rivelato tutt’altro che provvisorio, e inoltre soggetto a deroghe o imposizioni tutt’altro che trasparenti. All’opinione pubblica non si è mai ben chiarito neppure se la provvisorietà riguardasse solo l’applicazione della norma oppure anche la norma stessa. Tutto ciò rientra nel paradosso dell’emergenza: si può facilmente dichiararne l’inizio, ma poi diventa praticamente impossibile proclamarne la fine, e ciò è dovuto proprio alla vaghezza della nozione di emergenza.
In questi anni di emergenzialismo cronico è diventata molto popolare la formula del giurista tedesco Carl Schmitt, secondo la quale il sovrano sarebbe colui che è in grado di decidere lo stato di eccezione. Il realismo di Carl Schmitt oggi appare molto datato, poiché l’eccezione ora è diventata la regola. Non c’è neppure bisogno di sospendere le leggi, bensì è sufficiente chiamare un “costituzionalista” a spiegarci che c’è scritta quella cosa ma vuol dire esattamente il contrario. La legalità probabilmente non è mai esistita, ma oggi non ne è rimasta neppure la parvenza o la finzione. Abbiamo visto persino una legge per l’obbligo vaccinale non solo senza che vi fosse approvazione in via definitiva del siero in oggetto, ma addirittura con la pretesa che gli inoculati continuassero a firmare il modulo di consenso informato. Insomma, una legge che diventa essa stessa un reato di estorsione. Il bello dell’emergenzialismo è che funziona come una competizione a chi “osa” e spinge di più nel senso dell’allarmismo e dell’invocazione di misure punitive, anche le più deliranti.
Va tenuto presente che all’epoca di Schmitt, il dibattito giuridico considerava lo stato di eccezione, la sospensione delle garanzie costituzionali, solo nell’eventualità di insurrezione interna e di rischio di perdita del controllo del territorio nazionale. Oggi invece l’eccezionalità viene invocata per banalissime crisi finanziarie o epidemie. Se il realista Carl Schmitt è stato superato dalla realtà attuale, oggi ci si potrebbe magari inventare un iper-realista “Karl Schmidt” che aggiornasse la nota formula, stabilendo che è sovrano chi fosse in grado di decidere la fine dello stato di eccezione; solo che questo sovrano non c’è e non ci può essere. Ogni emergenza muove spesa pubblica, capitali di Borsa, bolle finanziario/mediatiche e cordate di lobby d’affari. Settori di business che languivano, come il digitale o il biotecnologico, grazie alla psicopandemia sono resuscitati a nuova vita. Qualunque autorità avesse tentato di frapporsi a questo tsunami di denaro, sarebbe stata travolta, per cui ha trovato conveniente assecondare la corrente.
Checché ne dicano i soliti disfattisti, l’Italia è ancora all’avanguardia in tanti settori; in particolare in quello dei brogli elettorali. Mentre negli USA sono rimasti a mezzucci ottocenteschi da romanzo di Gogol, come il voto dei morti, qui ci siamo già inoltrati nel nuovo millennio montando brogli elettorali preventivi. I commenti recriminatori dei media sul risultato elettorale del PD appaiono senza senso, dato che sono stati gli stessi media a porne le condizioni. Sin dalla sua origine il PD aveva reciso i legami col tradizionale elettorato di sinistra andando in cerca del voto pro establishment. Nel momento in cui questa consacrazione del PD come partito dell’establishment appariva compiuta, i media, invece di celebrarla, l’hanno screditata appoggiando lo schieramento concorrente di Calenda e Renzi, dove infatti è andato quel 7% di voti mancanti al PD.
L’elettore è quasi sempre un media-dipendente, persino se è di sentimenti anti-establishment, perciò le sue scelte si orientano nell’ambito del mainstream. Ciò è tanto più vero quando ci si rivolge ad un elettorato centrista, quello che oggi si definirebbe politicamente corretto e negli anni ’60 si chiamava “benpensante”, quello di “chi sta sempre con la ragione e mai col torto”, come diceva Francesco Guccini quando ancora non c’era cascato anche lui. Questo elettorato benpensante è propenso a guardare con diffidenza a chiunque si autodefinisca, anche falsamente, di sinistra; perciò un’offerta esplicitamente centrista, per di più accreditata dai due quotidiani principali del mainstream, avrebbe per forza penalizzato il PD. Se la destra, con un numero effettivo di voti inferiore alle elezioni del 2018, ha riscosso la maggioranza dei seggi, lo si deve al duo Calenda-Renzi ed ai media che lo hanno sostenuto.
La combine era già anticipata in
un articolo del luglio scorso sul quotidiano “Il Foglio”, in cui si spiegava che si poteva tranquillamente rischiare col sostegno a Calenda e Renzi, poiché, anche in caso di vittoria dei “populisti”, la continuità del sistema sarebbe stata comunque assicurata dai “vincoli europei” e soprattutto dalla tutela di Sergio Mattarella. In Italia la politica estera e la politica finanziaria non fanno parte della disponibilità e delle competenze dei governi, e ciò non solo perché ci sono gli obblighi dovuti alla condizione di sottomissione coloniale. L’oligarchia italica usa infatti i “vincoli esterni” come alibi e pretesto per opprimere il proprio popolo e, come i campieri dell’epoca del latifondo, ha trovato il suo sentiero di grandeur nell’esibire davanti ai baroni sovranazionali la propria capacità di controllare i cittadini, imponendo loro ogni genere di forca caudina o di numero da foca ammaestrata.
In altri termini, in Italia siamo ad un grado tale di mistificazione psicodrammatica del processo elettorale che potremmo permetterci personaggi molto più folkloristici della Meloni. La Bonino e Soros quindi non avevano capito niente ed era patetico che credessero di condizionare le elezioni italiane con un milione e mezzo di euro, come se fossimo sulle montagne dei Balcani. Del resto l’età è avanzata e i bei tempi in cui
il duo Bonino-Soros allestiva tribunali internazionali per i crimini contro le multinazionali, ormai sono lontani. Insomma, Soros si rassegni al fatto che l’Italia è già vegliata da un altro vegliardo con ben altra dimestichezza col potere.
La sconfitta del PD è quindi un puro effetto di alchimie mediatico/elettorali e non c’entra assolutamente nulla con l’identità della sinistra, il cui smarrimento è una questione di mezzo secolo fa, non certo di oggi. Occorre ricordarsi che negli anni ’70, quando c’era ancora il PCI, quello bello di Berlinguer, l’arrivo della “crisi” finanziaria del 1976/77 giustificò l’adozione da parte della sinistra di una politica di austerità e sacrifici per i lavoratori. Il nonsenso di questa posizione era evidente già allora: in una fase di sviluppo economico infatti una distribuzione del reddito avviene per forza di cose: le imprese acquistano macchinari, assumono lavoratori, pagano salari che, per quanto bassi, alimentano la domanda e quindi innescano altri investimenti nella produzione. L’aumento dell’occupazione porta a sua volta una spinta oggettiva all’innalzamento dei salari, dato che i lavoratori sono meno ricattabili. In questo periodo di sviluppo i sindacati ed i partiti di sinistra stanno lì ad assecondare la tendenza ed a prendersi i meriti. Arriva però il momento in cui le lobby finanziarie perseguono l’obbiettivo di preservare il valore dei loro crediti, e quindi spingono per politiche deflattive con l’alibi della “crisi”. In questa spinta a schiacciare i salari la finanza trova ovviamente la complicità del padronato, che non vedeva l’ora di poter regolare i conti con i lavoratori. In quel momento ci sarebbe bisogno di una sinistra che facesse da argine all’impoverimento delle classi subalterne, che demistificasse la categoria di interesse generale e facesse capire che “crisi” significa anzitutto concentrazione dei capitali e delle ricchezze.
La sinistra ed i sindacati invece impugnano la bandiera dei sacrifici e del contenimento dei salari. Ma allora che ci stanno a fare?
L’Italia è il Paese dell’OCSE che ha registrato la maggiore diminuzione della quota salari e, di conseguenza, anche la maggiore quota di mistificazione ed inganno sociale, in base alla regola per cui più scende la lancetta del redditometro dei lavoratori, più sale la lancetta del cazzatometro, alla deflazione dei salari corrisponde l’inflazione dei cazzari. Il “contentino” che si concede ai lavoratori impoveriti è l’eterna promessa di una via fiscale alla giustizia sociale; sennonché la mobilità internazionale dei capitali preserva i ricchi dal fisco, che perciò si accanisce sul ceto medio, ed anche sugli stessi lavoratori tramite l’IVA e le accise.
Se si vanno però a seguire le sorti della socialdemocrazia europea in generale, ci si accorge che, pur senza gli estremi pauperistici del caso italiano, sono ovunque in recesso sia il welfare, sia la quota salari, per cui anche lì vale la regola della sinistra che si gonfia nelle fasi di sviluppo economico e si sgonfia nelle fasi recessive. Seppure non ai livelli italiani, anche l’intervento pubblico in economia è arretrato dappertutto. Ma nessuno a sinistra si è chiesto come mai l’ondata delle privatizzazioni sia andata a coincidere con l’emergenzialismo cronico. Una multinazionale è una società per azioni che deve esibire utili ogni anno e, se i profitti calano, una bella emergenza trasforma forzosamente milioni di persone in clienti, con buona pace delle regole della mitica concorrenza. A cantare le lodi di questa spinta oligopolistica, arriva il solito finto economista con
la citazione di Joseph Schumpeter, per cui la concorrenza sleale assume l’appellativo tragico e solenne di “distruzione creativa”.
La “sinistra” è rimasta perciò ad uno stadio enunciativo, infatti la formula non viene mai applicata proprio quando servirebbe. Qualche anno fa il “Manifesto” ci intratteneva con dovizia di dottrina sul tema marxiano del
feticismo della merce. Quando però il feticismo ha riguardato la merce-vaccino, il “Manifesto” non si è accorto di nulla. Eppure la vicenda dei vaccini (o sedicenti tali) rappresentava un caso clamoroso di feticismo della merce.
Il vaccino non era più considerato un prodotto industriale, tantomeno era riconosciuto come l’effetto di un’operazione imprenditoriale di investimento di capitali, di
un processo produttivo, di un lobbying, e quindi di una promozione pubblicitaria indirizzata a creare un bisogno; bensì il vaccino era considerato un’emanazione, l’irradiazione diretta della “Scienza”, come se questa esistesse in una sorta di empireo al di là dei rapporti produttivi e di classe. Marx viene rimandato in soffitta dopo la ricreazione del solito articolo “colto” quanto astratto, preferendogli poi un Plotino in versione Bignami. La fuga nella metafisica ha fatto perdere di vista che se accertare la validità del vaccino è una questione di competenze immunologiche, stabilire invece l’opportunità di una campagna vaccinale è una questione di buonsenso alla portata di qualsiasi cittadino. La spesa stratosferica per centinaia di milioni di dosi di vaccino, con le relative siringhe, avrà pure qualcosa a che vedere con la distruzione di quel poco che rimaneva del sistema sanitario pubblico.
Le campagne pubblicitarie servono ad aumentare il potenziale feticistico delle merci, a caricarle di valore simbolico. Insieme col vaccino ci è stato così venduto anche un senso di superiorità morale e intellettuale, bollando i renitenti al vaccino di egoismo/liberismo e di ignoranza/oscurantismo. La sinistra come metodo concreto, come critica, scompare del tutto; ma la “sinistra” torna utile come ingrediente pubblicitario per quello che è il suo aspetto più esteriore e deteriore, cioè il senso di superiorità morale e intellettuale.