Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le ammissioni fatte in sede processuale da Marcello Fournier, in merito alle violenze poliziesche avvenute al G8 di Genova del 2001, lasciano quantomeno perplessi. Qui non si tratta di umiliare chi sta già confessando, accanendosi a rinfacciargli le sue colpe, come faceva Sergio Zavoli quando intervistava i ciclisti negli anni '60 e i brigatisti negli anni '80. Non si tratta nemmeno di indignarsi per il ritardo delle sue ammissioni, dato che non sarebbe molto anarchico mettersi a pronunciare giudizi sulle persone, neppure se fanno i poliziotti.
Il problema consiste nel chiedersi quanto sia realistico il quadro che consegue dalle dichiarazioni dell'allora vicequestore Fournier circa i fatti di Genova. Possibile che tanti diversi corpi di polizia si lanciassero in una tale ondata di brutalità senza aver ricevuto dall'alto degli ordini precisi a riguardo?
Anche se, come spesso accade, in quell'occasione i poliziotti erano sotto l'effetto di qualche sostanza eccitante, chi poteva autorizzarne una tale massiccia distribuzione?
Possibile che un alto funzionario come Fournier arrivasse ignaro sul luogo delle violenze e poi vi assistesse come se stupissero per primo lui?
Sembra quasi che con il suo racconto Fournier faccia leva sui pregiudizi antipolizieschi dei suoi ascoltatori per rendere credibile quella che è in effetti l'ennesima operazione di depistaggio.
In realtà i poliziotti non scatenano la loro ferocia in ogni occasione e soprattutto non con tutti allo stesso modo. Quando la polizia se la prende con anarchici e no global, è facile bollare le loro denunce come dettate da odio pregiudiziale verso le forze dell'ordine.
Ma fra le vittime delle violenze di Genova c'erano anche parecchi esponenti di organizzazioni cattoliche, legati spesso a loro volta ad altre persone influenti, tutti potenziali testimoni a cui i magistrati sarebbero stati disposti a credere.
E' stata fatta l'ipotesi che uno degli obiettivi principali dell'ondata di violenza poliziesca di Genova 2001, fosse proprio quello di ammonire il mondo cattolico a non usare il pacifismo come area per pescare consensi. È una possibilità, dato che nel luglio 2001 già si preparavano l'11 settembre, l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, e quindi occorreva irreggimentare il clero agli interessi del colonialismo statunitense.
Aldilà dell'attendibilità o meno del pacifismo cattolico, c'è da dire che il Vaticano sulla questione delle guerre contro l'Iraq aveva poco da scegliere, poiché l'Iraq (come anche la Siria) conta consistenti minoranze cattoliche di rito non latino, che sono in posizione molto più influente di quanto la loro entità numerica farebbe supporre, poiché risultano determinanti negli equilibri di potere tra le varie etnie.
Non è forse neppure un caso che in quello stesso periodo dagli Stati Uniti sia partita la campagna sui preti pedofili, che ha dato tanti colpi all'immagine della Chiesa cattolica. Anche qui, un anticlericalismo meditato, e non pregiudiziale, rimane diffidente di fronte a queste improvvise scoperte dell'acqua calda.
Agli inizi del '900, uno dei più attivi pubblicisti anticlericali, lo svizzero Emilio Bossi, pubblicava il libro "La degenerazione sessuale del clero cattolico", un saggio molto documentato che, con argomentazione scientifica, sosteneva la tesi secondo cui l'erotomania sarebbe una vera e propria malattia professionale del clero. Quindi il problema era già noto e sviscerato da tempo.
Negli anni '70 e '80 Hollywood rappresentava i preti cattolici come eroici combattenti contro il Maligno. Ma allora la Chiesa cattolica era per gli Stati Uniti un alleato (o uno strumento?) per combattere l'Unione Sovietica. Oggi invece anche un film come "L'esorcista" verrebbe prodotto senza far mancare la figura del prete pedofilo.
L'esperienza dimostra che non ci vuole molto per intimidire la Chiesa cattolica, come accadde quando il papa consegnò agli Americani Noriega, che si era rifugiato nella nunziatura apostolica di Panama. La Chiesa infatti ha già annacquato il suo presunto pacifismo e tiene duro solo su temi come la condanna dell'aborto e dell'omosessualità, in cui il pensiero del Vaticano coincide con quello dei Neocons americani.
21 giugno 2007
I contenuti dell'intervista rilasciata pochi giorni fa dall'ex presidente del parlamento israeliano, Avraham Burg, sono stati riportati per stralci dal quotidiano "La Stampa" del 9 giugno, ma hanno fatto soprattutto il giro dei siti e dei forum su internet. Molti hanno interpretato le parole di Burg come una spietata critica proveniente dall'interno del sionismo e della società israeliana. In effetti la propaganda americano-sionista sta già predisponendo le cose per liquidare il caso, catalogando Burg fra gli Ebrei "che odiano se stessi e tradiscono Israele". In realtà, aldilà dei suoi aspetti retorici e astratti come la questione della "vera" identità ebraica e della "vera" essenza del sionismo, il discorso di Burg ha una sua valenza concreta sino alla crudezza, che la retorica ha avuto solo la funzione di rendere più elegante.
Il problema urgente che pone Burg è che oggi l'emigrazione - o la fuga - da Israele è già in atto. Decine di migliaia di Israeliani sono tornati ai Paesi di origine per ristabilirvisi. Inoltre i figli della borghesia israeliana hanno pronta la loro prospettiva di lavoro e di residenza all'estero, e non a caso i loro genitori li hanno provvisti di doppie cittadinanze e di doppi passaporti.
Persino i propagandisti più intransigenti del sionismo - alla Fiamma Nirenstein - dispongono della loro base d'appoggio in Europa nel caso che le cose si mettessero al peggio prima del previsto. L'ultimo disastro militare israeliano in Libano ha soltanto accelerato questo processo, non lo ha determinato, dato che era in atto da tempo. Chi sta in Israele sa quanto la situazione sia grave, sono invece quelli come Magdi Allam (opinionista del Corriere) che non se ne accorgono, dato che non sono pagati per questo.
Per ora la fuga da Israele rimane un privilegio di classe, ma Burg avverte gli Europei che di qui a qualche anno il fenomeno del ritorno potrebbe assumere dimensioni di massa. Burg sottolinea che si tratterebbe del ritorno di persone tutt'altro che facili da trattare, che sono state ormai abituate a comandare ed a risolvere tutto con la violenza. Nell'intervista Burg parla di una società israeliana violenta in tutti i suoi aspetti e relazioni, dato che non si può passare la giornata a picchiare e uccidere Palestinesi e poi comportarsi da persone equilibrate nelle altre circostanze.
Con le sue dichiarazioni attuali Burg non sta facendo altro che riproporre ciò che aveva già detto agli Europei cinque anni fa, durante il suo viaggio ufficiale in veste di presidente del parlamento israeliano. Secondo lui, i governi europei dovrebbero imporre ad Israele una pace in cambio dell'ammissione all'Unione Europea.
Nel suo discorso Burg non nomina mai gli Stati Uniti, ma è evidente che sta chiedendo ai governi europei di salvare Israele dal disastro provocato dalla colonizzazione statunitense. Questa operazione di salvataggio sarebbe in effetti nell'interesse dei governi europei, dato che questi hanno tutto da perdere nella destabilizzazione a vasto raggio dell'area del Vicino e Medio Oriente che gli Stati Uniti stanno organizzando.
La tesi di Burg è concreta, ma ha il difetto di rivolgersi ad un interlocutore del tutto astratto: l'Europa. Burg definisce l'Europa "l'ultima Utopia", volendo dare a questa espressione retorica il senso di un'alleanza e di un punto di riferimento per gli Israeliani.
Questa espressione retorica va invece presa alla lettera. L'Europa è un'utopia nel senso che non sta proprio da nessuna parte.
Mentre Burg spera che gli Europei vengano a salvare Israele dagli Americani, molti Europei stanno sperando che Putin arrivi per salvarli da Bush. Anche l'Europa aspetta una salvezza che venga da fuori, ed oggi esiste tutta una destra che vede in Putin il nuovo Salvatore. Putin invece sembra soprattutto occupato ed intenzionato a vendere gas.
Qualche giorno fa con le sue dichiarazioni di opposizione allo scudo antimissile che gli Stati Uniti vogliono dislocare in Polonia, Putin aveva suscitato la speranza che ritornasse la grande Russia in grado di fare da contrappeso allo strapotere statunitense in Europa. D'altra parte gli organi d'informazione europei in quell'occasione si erano schierati compatti contro Putin. Paradossalmente persino chi sperava in un Putin più energicamente antiamericano, non osava poi contrastare più di tanto gli Stati Uniti e metterne in evidenza l'aggressività verso l'Europa.
Il punto è che gli Stati Uniti fanno paura a ragion veduta, dato che la loro posizione geografica gli conferisce un vantaggio incolmabile, consentendogli di destabilizzare l'intero pianeta per favorire i propri interessi affaristici, per poi ritirarsi nella loro posizione di isolamento se le cose dovessero mettersi male. Molti Israeliani contano di fuggire in Europa, ma gli Europei dove potrebbero mai fuggire? In Russia?
14 giugno 2007
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