Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una notizia che è stata poco evidenziata dai media in questi ultimi giorni, riguarda la rottura tra gli Stati Uniti ed il governo Karzai, che pure gli stessi USA avevano imposto come un proprio fantoccio. L’occasione della rottura è stata l’ennesima strage di civili afgani perpetrata dall’aviazione USA, con il consueto alibi degli “scudi umani”. Karzai ha consentito agli studenti afgani di manifestare contro la strategia della NATO, ed ha sostanziato ulteriormente la sua posizione attraverso una propria nota di protesta, di durezza inusitata.
Le lamentele di Karzai per le vittime civili non costituiscono in sé una novità, ma il tono è ora decisamente cambiato, a dimostrazione che gli USA non controllano più completamente il loro fantoccio, che è stato costretto a fare i conti con una pressione popolare crescente contro l’occupazione NATO.
La resistenza afgana - etichettata in modo sommario dai media come “Talebani”- ha indubbiamente messo in crisi l’occupazione e forse Karzai pensa già a come salvarsi la pelle quando la sconfitta della NATO sarà del tutto maturata. C’è però anche da rilevare che l’opposizione all’occupazione riguarda adesso anche le etnie afgane che sinora avevano accettato l’alleanza con gli USA, ed il fatto non può non essere posto in collegamento con la radicalizzazione della strategia anti-civili messa in atto dalla NATO.
In questa radicalizzazione va fatto probabilmente rientrare anche l’episodio della ragazzina afgana assassinata pochi giorni fa dai militari italiani. Non è stato neppure necessario per i comandi italiani di ordinare esplicitamente ai propri militari di sparare sui civili, ma è bastato imporre delle regole di ingaggio tali da ottenere lo stesso risultato, cioè sparare a vista su tutto ciò che si muove. È significativo che anche nella vicenda ragazzina assassinata, le autorità afgane non abbiano offerto nessuna copertura agli occupanti, ed abbiano presentato i fatti per quello che erano, facendo crollare la retorica umanitaria con cui il ministro Frattini tenta inutilmente di mistificare la presenza militare italiana nell’avventura coloniale in Afghanistan.
È evidente che la NATO sta da tempo cercando di “ripulire” vaste zone dell’Afghanistan non soltanto dalla resistenza, ma anche dai semplici civili inermi. L’evoluzione della strategia militare corrisponde ad una evoluzione della strategia affaristica della NATO.
Il primo obiettivo della NATO è chiaramente quello di giungere al monopolio assoluto della produzione e del traffico dell’oppio, che costituisce l’affare di base con cui pagare anche la rete di oleodotti che deve attraversare l’Afghanistan. La colonizzazione dell’Afghanistan è giunta dunque alla sua fase cruciale, cioè la “bonifica” del territorio dalla popolazione autoctona, spingendo i civili alla fuga, e quando non si lasciano convincere, arrivando allo sterminio diretto.
I gruppi etnici afgani finora alleati della NATO si sono perciò resi conto di essere divenuti anch’essi un bersaglio. Tutto ciò non ha ancora determinato una alleanza alternativa, cioè una riconciliazione con i cosiddetti “Talebani” in vista di una lotta comune contro l’occupante. Karzai e gli altri capi-tribù stanno cercando ancora di contrattare con l’occupante, sperando forse di trovare interlocutori all’interno dello schieramento NATO che gli consentano di mettere in difficoltà la strategia di sterminio imposta dagli Stati Uniti.
Se la speranza di Karzai e dei suoi amici era questa, la risposta italiana è già arrivata ed è stata eloquente, e cioè il totale allineamento dei militari italiani alla strategia USA. I reparti italiani sono restii ad impegnarsi in combattimento aperto, poiché non si fidano della copertura aerea USA (e come potrebbero, dopo i bombardamenti subiti dai militari britannici in Iraq da parte del “fuoco amico” americano?). D’altra parte queste furberie non implicano una contestazione della strategia USA, che viene seguita dai militari italiani quando ciò non comporti rischi per la propria incolumità, come si è visto quando si è trattato di sparare all’impazzata su una famigliola che si recava ad un matrimonio.
In questi giorni in Afghanistan non sta sprofondando solo l’immagine dell’Italia, ma anche la sua residua dignità. Grazie, Frattini.
L’acquisizione della Chrysler da parte della FIAT è stata celebrata con toni trionfali non solo dalla stampa di proprietà della stessa FIAT, ma da tutti i media italiani, compreso il quotidiano “il Manifesto”.
Tutti avvolti nel tricolore, i politici e i giornalisti hanno ammirato estatici e plaudenti l’incredibile miracolo: la FIAT ancora cinque mesi fa sembrava un paziente in coma, mantenuto in vita solo dalla macchina dei sussidi statali, ed ora invece il comatoso non solo risorge, ma va persino a conquistare l’America.
Il miracolo è davvero incredibile, e infatti non è mai avvenuto. Il paziente si è alzato, ma non si è strappato le flebo di denaro pubblico che lo tengono in vita, anzi deve i suoi passi proprio a quelle continue trasfusioni.
La FIAT è la stessa di cinque mesi fa, di trenta anni fa, di un secolo fa, cioè mantenuta in vita dai finanziamenti statali. Con questi cento anni di finanziamenti statali alla FIAT, non solo la FIAT avrebbe potuto essere nazionalizzata un centinaio di volte, ma addirittura altre cento FIAT avrebbero potuto essere create, ovviamente se il denaro pubblico non fosse stato oggetto di sistematica privatizzazione.
L’Amministratore delegato della FIAT, Sergio Marchionne, sbarca in America grazie ai soldi del contribuente italiano, e lascia in America i soldi del contribuente italiano: questo è il dettaglio concreto che la disinformazione ufficiale si è lasciata sfuggire. Del resto, questo sbarco per Marchionne è un po’ un ritorno a casa, dato che è mezzo canadese e, con tutta probabilità, anche agente della CIA.
Da parte dell’opinione pubblica, qualche accenno preoccupato non è mancato. Ma non sarà un modo per gli Stati Uniti di mettere loro un piede in Italia? E il know-how della FIAT non rischia di passare all’industria USA?
In realtà gli Stati Uniti non solo già hanno un piede in Italia, ma addirittura ne hanno centoquattordici, cioè le centoquattordici basi americane e NATO disseminate sul territorio italiano. Circa la metà di queste basi sono centri affaristico-criminali delle Corporation USA, e luoghi in cui merci di tutto il mondo affluiscono per essere smistate senza controlli e dazi doganali, quindi in barba al fisco italiano.
L’altra metà sono dei “semplici” centri di ascolto, con antenne radar ed ogni altro mezzo di intercettazione, ad onta di ogni patetica legge contro le intercettazioni. In Italia non c’è comunicazione che non venga intercettata attraverso le basi americane e NATO, perciò in Italia lo spionaggio industriale a vantaggio delle multinazionali statunitensi già avviene sistematicamente e in modo capillare.
È evidente perciò che l’interesse statunitense non è per la FIAT in quanto tale, ma per il collettore di denaro pubblico che essa rappresenta; ed è grave che giornali come “il Manifesto” o “Liberazione” non siano andati immediatamente e direttamente al sodo, ponendo la domanda più urgente: che fine faranno ora i finanziamenti statali alla FIAT?
Non è pertinente l’osservazione secondo cui la spesa pubblica italiana è poca cosa se comparata ai bilanci palesi e occulti delle multinazionali statunitensi, poiché il colonialismo è fondato proprio sui piccoli furti che finanziano quelli grandi; allo stesso modo in cui scippando la pensione sociale alle vecchiette è possibile reperire i fondi necessari ad allestire le grandi rapine. Si tratta di un paragone e non di una metafora, poiché effettivamente gran parte del business che ha dato vita all’esplosione del fenomeno delle agenzie finanziarie, si fonda appunto sui prestiti garantiti dal prelievo automatico sulle pensioni.
Alla fine degli anni ‘70, attraverso la Legge sulla Riconversione industriale, il governo Andreotti di Unità Nazionale - sostenuto anche dal Partito Comunista - poté erogare alla FIAT sessantamila miliardi, con i quali l’azienda finanziò i licenziamenti a Mirafiori nel 1980; licenziamenti che la FIAT non si sarebbe potuta permettere se i suoi proventi fossero dipesi esclusivamente dalla produzione.
Oggi, con ammirevole senso di equità e solidarietà internazionale, il denaro pubblico italiano viene chiamato a finanziare i licenziamenti alla Chrysler, i cui sindacati hanno accettato decurtazioni di paga in cambio di garanzie cartacee; ciò a conferma che, anche in fatto di sindacati, tutto il mondo è paese.
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