Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La scelta di svolgere il G-8 nel terremotato capoluogo abruzzese, è stata del tutto in carattere con la psicopatologia personale di Silvio Berlusconi, con la sua morbosa invidia per ogni occasione di protagonismo altrui. Non vi è nulla di strano che egli, da buon ricco che ruba ai poveri, abbia voluto rubare la scena anche a coloro che si trovavano al centro dell’attenzione a causa di una immane sciagura che li aveva colpiti, e che sono stati trasformati in comparse sullo sfondo per un presunto trionfo mediatico del Presidente del Consiglio.
D’altra parte questa ignobile rappresentazione è risultata del tutto compatibile, anzi omogenea, con gli schemi della guerra psicologica, di cui il G-8 non è altro che un momento. I vertici di capi di Stato e di Governo non ricoprono in sé alcuna vera funzione decisionale, dato che le decisioni non soltanto sono già state prese da tempo e altrove (Federal Reserve, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea), ma sono anche, e sempre, le stesse identiche decisioni, che riguardano il trasferimento di risorse pubbliche a gruppi affaristici privati.
La stampa estera aveva criticato Berlusconi per non aver allestito una vera agenda dei lavori del G-8, ma, anche in questo caso, il Presidente del Consiglio italiano non aveva fatto altro che aderire in pieno alla funzione puramente mediatica della scadenza, perciò la sua trascuratezza verso il lato “serio” del vertice, deve essere ritenuta in carattere con le esigenze spettacolari della guerra psicologica.
Nello spettacolo del G-8 la presenza di terremotati a fare da sfondo all’esibizione di Berlusconi, ha conferito un palcoscenico utile anche alle esibizioni pseudo-buonistiche degli altri capi di Stato e di Governo. Il capitalismo non è altro che il rubare ai poveri per dare ai ricchi, e lo scopo della guerra psicologica è quello di far passare il vampiro per un donatore di sangue; perciò il circondarsi di folle di bisognosi da accarezzare, può risultare utile ad alimentare la mistificazione.
Non a caso, il nuovo idolo delle folle, Barack Obama, ha concluso il G-8 con il proclama di un programma di aiuti finanziari ai “Paesi poveri”, cosa che gli ha meritato il plauso di papa Ratzinger, che a causa dell’attuale disperato bisogno di soldi da parte del Vaticano, ha trasformato quella che una volta era una indipendente e arrogante cosca finanziaria - la Chiesa Cattolica - in uno zerbino delle multinazionali.
“Aiuti ai Paesi poveri” costituisce l’etichetta mediatica per una serie di elargizioni di denaro pubblico a imprese multinazionali, ufficialmente perché possano andare a “investire” questo denaro pubblico nei suddetti Paesi poveri. In realtà, non solo le multinazionali trattengono per sé la gran parte degli “aiuti”, ma il loro cosiddetto ”investimento” nei Paesi poveri consiste nell’appropriazione tout-court di risorse agricole, minerarie e idriche locali, per costituirvi una serie di monopoli privati. La traduzione dal linguaggio ufficiale della espressione “Aiuti ai Paesi poveri”, è quindi: aggressione colonialistica e rapina ai danni dei Paesi poveri.
Una delle leggi fondamentali del capitalismo, è che l’impresa privata si fondi sul denaro pubblico, e che sia direttamente lo Stato a finanziare le privatizzazioni, ovviamente con i proventi delle tasse. Oggi il contribuente “occidentale” è perciò chiamato altruisticamente a pagare perché le risorse dei “Paesi poveri” - o, per meglio dire, dei Paesi colpiti dalla miseria creata dalle multinazionali - possano essere ulteriormente privatizzate a vantaggio delle stesse multinazionali.
Non ci sono, per la verità solo le multinazionali, dato che oggi anche le Organizzazioni Non Governative pretendono la loro parte. Ufficialmente le ONG sono organizzazioni no-profit, e quindi fanno figurare i loro profitti come rimborsi spese, o spese amministrative, in tal modo la mistificazione “solidaristica” può risultare impeccabile.
In Afghanistan persino ONG italiane si sono distinte in saccheggi e ruberie sui fondi destinati alle opere pubbliche, un dato che è passato - anche se poi immediatamente dimenticato - per i media ufficiali della Gran Bretagna. Le domande sul che cosa ci stiano a fare i soldati italiani in Afghanistan, sul perché ammazzino poveri civili, e si facciano a loro volta ammazzare (l’ultimo appena qualche giorno fa), risultano quindi oziose.
Berlusconi è un personaggio imposto dalla guerra psicologica statunitense nei confronti della colonia italiana, perciò, come prodotto della Psycho-war, egli non poteva non risultare omogeneo alla bisogna del G-8. Persino le magagne in cui Berlusconi è coinvolto, e di cui la stampa estera largamente si occupa, finiscono per avvilire e infantilizzare soprattutto l’immagine della colonia di cui è stato messo a capo.
Se davvero Berlusconi verrà fatto fuori, non sarà quindi per le sue losche vicende personali, e neppure per la sua favoleggiata e inesistente intesa personale con Putin, ma soltanto perché l’attuale Presidente del Consiglio non possiede la tempra per affrontare privatizzazioni che comporterebbero gravi rischi di scontro all’interno delle istituzioni italiane. Il piano delle multinazionali di privatizzare ENI, Enel, INPS, e i servizi del Pubblico Impiego, determinerebbe notevoli resistenze da parte di forze che dispongono a loro volta di risorse finanziarie e di potere di corruzione. Probabilmente, neppure un burocrate viziato come Draghi risulterebbe all’altezza di un tale incarico da parte delle multinazionali, perciò il candidato più credibile per affrontare le mega-privatizzazioni, rimane ancora il fascista e neo-sionista Gianfranco Fini.
Coloro che già rimpiangono preventivamente Berlusconi, possono consolarsi pensando che comunque questi potrebbe in futuro essere ancora una volta riciclato, non appena il lavoro difficile - cioè le mega-privatizzazioni - sia stato effettuato. Quando si è trattato di entrare nell’Euro, Berlusconi ha lasciato il campo per quattro anni a Prodi, e ha dovuto concedergliene altri due allorché è stato necessario sistemare il bilancio dello Stato. Ma, una volta che il difficile sia stato fatto, uno come Berlusconi risulterebbe insostituibile nella sua missione di demoralizzare il popolo italiano, dato che il personaggio costituisce per il colonialismo USA una perfetta arma di Psycho-war.
C’è comunque da registrare come un successo della guerra psicologica, il fatto che la questione delle privatizzazioni - che costituisce oggi il perno di ogni scenario affaristico -, non solo non sia al centro dell’attenzione dei media (il che è ovvio), ma neppure dei gruppi di opposizione sociale, cosa invece molto più preoccupante. Nella recente vicenda della fallita “rivoluzione colorata” in Iran, anche il fatto che la privatizzazione del petrolio e del gas costituisse l’obiettivo dichiarato di Mousavi, è rimasto fuori dell’interesse dei tanti che in Occidente hanno solidarizzato con i presunti rivoltosi.
La guerra psicologica è riuscita quindi a trasformare la “libertà” in uno slogan reazionario, un fatto che sarebbe stato incredibile anche solo trenta anni fa, quando ancora la tradizione di un secolo e mezzo di movimento operaio rendeva chiaro che la prima schiavitù è quella della miseria.
Il Dipartimento di Stato USA nelle settimane scorse è stato molto impegnato per tentare di organizzare in Iran uno di quei colpi di Stato denominati “rivoluzioni colorate”; un tentativo operato in combutta con l’ala clepto-clericale del regime iraniano, capitanata da Mousavi e dall’ayatollah Rafsanjani, i due alfieri della privatizzazione del petrolio e del gas.
I media ci hanno proposto negli ultimi giorni lo scenario di una rivolta giovanile e femminile in Iran, contro l’oppressione oscurantistica del clero sciita; solo che gli stessi media hanno dimenticato di spiegarci come mai i punti di riferimento di questa presunta rivolta anticlericale fossero esponenti del clero in servizio permanente effettivo, come appunto Mousavi, Rafsanjani, ed anche la figlia di quest’ultimo. Lo stesso Ahmadinejad deve la sua popolarità tra le masse non alla fama di uomo tutto d’un pezzo - che non ha saputo ancora conquistarsi -, ma al semplice fatto di non essere prete, in una scena politica in cui lo sono quasi tutti; dato che “prete”, nel senso comune iraniano, è diventato sinonimo di corrotto.
Fallita, almeno per il momento, la “rivoluzione colorata” in Iran, gli USA hanno però avuto modo immediatamente di dimostrare di possedere altre frecce al proprio arco. Le rivoluzioni colorate costituiscono uno degli ultimi ritrovati della scienza colonialistica, ma non hanno sostituito del tutto i vecchi arnesi del manuale del colonialismo. In Honduras il Dipartimento di Stato USA ha cercato infatti di far cadere un regime inviso alle multinazionali ricorrendo al caro vecchio colpo di Stato militare, in perfetto accordo con lo schema tradizionale degli interventi statunitensi in America Latina.
Nel gergo politico statunitense, il termine “Honduras” non si riferisce soltanto al Paese in oggetto, ma indica anche una sorta di colonia-modello, in cui è possibile applicare alla lettera il vangelo del Fondo Monetario Internazionale senza suscitare proteste. In questa colonia ideale, eppure reale, le multinazionali possiedono quasi tutto, ma non pagano tasse: un privilegio concesso anche alla Chiesa Cattolica, che ha anch’essa il suo bel patrimonio immobiliare, che ne fa il secondo proprietario del Paese. I salari in Honduras sono inoltre sotto la soglia di sopravvivenza, la vita media è bassissima, la mortalità infantile elevatissima. Insomma, il paradiso della democrazia e del capitalismo.
Dopo la breve guerra tra Russia e Georgia dell’agosto 2008, che dimostrò l’eccessivo ottimismo del piano statunitense di accerchiare e umiliare la Russia, negli Stati Uniti furono mosse alcune critiche al modo in cui l’amministrazione Clinton negli anni ’90 aveva condotto i rapporti con la stessa Russia, pretendendo di trattarla come se fosse l’Honduras (queste critiche furono riportate e commentate nelle Newscomidad del 14/8/2008: “La Russia, l’Ossezia e il modello Honduras”).
Questi richiami sprezzanti all’Honduras devono aver portato sfortuna, poiché, valutando le reazioni suscitate dal colpo di Stato contro il presidente Manuel Zelaya, si può oggi riscontrare che neppure all’Honduras è più possibile applicare tout-court il modello Honduras.
Per capire quanto le cose siano cambiate in America Latina, basta paragonare la reazione attuale della Organizzazione degli Stati Americani, con l’atteggiamento tenuto dalla stessa organizzazione in occasione dell’invasione statunitense dell’isoletta di Grenada del 1983.
Il fantoccio presidenziale USA di allora, Ronald Reagan, giustificò l’invasione di un Paese inerme ed il rovesciamento di un governo democraticamente eletto, con una serie di presunti pericoli per la sicurezza nazionale. Ai giornalisti americani ed europei fu ovviamente impedito di verificare i fatti in base allo stesso pretesto - sicurezza nazionale -, e i giornalisti furono felici, allora come adesso, di collaborare al bene comune. Collaborò soprattutto l’Organizzazione degli Stati Americani, che addirittura offrì una partecipazione formale ed una copertura legale a quell’aggressione.
Mentre oggi i giornalisti euro-americani sono rimasti coerenti con l’atteggiamento servile di allora, l’OSA stavolta si è rifiutata di avallare persino un banale colpo di Stato, che poteva essere benissimo liquidato come una questione interna all’Honduras. Questa era la linea che il segretario di Stato USA, Clinton, aveva adottato all’inizio della vicenda, ma poi la povera Hillary ed il povero Barack sono stati costretti ad adottare un atteggiamento ancora più ipocrita e viscido del loro solito, poiché nessun governo latino-americano era disposto a seguirli sulla versione del golpe come questione interna all’Honduras.
All’ONU le cose sono andate anche peggio per gli Stati Uniti, poiché l’Assemblea Generale, sulla linea dell’OSA, ha negato qualsiasi copertura legale ai militari golpisti, che pure potevano esibire una specie di mandato della Corte Suprema dell’Honduras e, soprattutto, una benedizione ufficiale da parte del clepto-clero cattolico. È vero che un voto dell’Assemblea Generale dell’ONU non conta nulla, ma per gli Stati Uniti rimane comunque da registrare un insuccesso della loro propaganda, che ha trovato credito solo nella credula e servile Europa, dove l’accusa di antiamericanismo suscita più che timore, terrore, anche nella cosiddetta “sinistra radicale”.
L’espediente propagandistico dell’avallo ai golpisti da parte della Corte Suprema e dei vescovi dell’Honduras, non poteva affascinare i Latino-Americani, poiché questi sanno benissimo che il colonialismo non implica soltanto un’aggressione dall’esterno, ma anche una guerra civile all’interno: non esiste colonialismo duraturo senza collaborazionismo. Le eccezioni del vescovo Romero, e dei tanti missionari cattolici uccisi in America Latina, hanno permesso ai media di costruire un mito sul ruolo progressista della Chiesa Cattolica in quel continente.
In realtà, negli anni ’80, la Chiesa Cattolica attaccò senza scrupoli il governo democraticamente eletto dei Sandinisti in Nicaragua, schierandosi con i sanguinari Contras al soldo degli USA; mentre in Argentina la Chiesa offrì complicità ai militari nella vicenda dei desaparecidos. Il papa Woytila corse persino in Cile a sostenere Pinochet, e solo dopo decise di rifarsi una verginità incontrando Castro. Insomma, i Latino-Americani sanno benissimo da che parte stia realmente la Chiesa Cattolica, cioè con i propri interessi finanziari.
Il fatto che anche molti governi latino-americani abbiano dimostrato la stessa lucidità, è stato senza dubbio aiutato dal denaro derivante dal petrolio venezuelano, che il presidente Chavez distribuisce per allargare i suoi consensi politici e diplomatici nel continente. Anche Zelaya, un politico dal passato di filo-americano, si era lasciato affascinare dalla prospettiva che finalmente il potere dei soldi non stesse sempre e solo dalla solita parte.
Non si può ancora stabilire se Chavez sia un vero nazionalista latino-americano, oppure uno spregiudicato avventuriero che si fa forte dell’appoggio della multinazionale cinese Petrochina, ma sta di fatto che egli è divenuto una bestia nera per le multinazionali anglo-americane. La Exxon lo ha persino citato in giudizio davanti alle corti internazionali, per averle sottratto il petrolio venezuelano.
Solo un incallito dietrologo e seguace delle teorie del complotto potrebbe sospettare che dietro i tentativi di colpi di Stato contro Chavez, e dietro le continue accuse che questi riceve dai media e dalle ONG per i diritti umani, ci siano gli interessi affaristici delle multinazionali come la Exxon; dato che è a tutti evidente che gli affari non hanno alcuna parte in queste vicende, e che la Storia non è altro che la cronaca dello scontro tra gli ideali luminosi della democrazia da una parte, e il cieco fanatismo dall’altra.
Quali siano i sinceri intendimenti della Exxon, ce lo ha raccontato un epico film americano del 1969, “Hellfighters”(titolo italiano:”Uomini d’amianto contro l’inferno”), in cui John Wayne aiutava i Venezuelani ad estrarre il petrolio, dato che, poverini, non ce la facevano da soli. Nella sua opera meritoria, John Wayne era insidiato da perfidi guerriglieri comunisti, mossi soltanto da invidia sociale.
Per questo soccorso disinteressato al Venezuela, la Exxon tratteneva appena un modesto rimborso spese, un compenso puramente simbolico, che ammontava al 99% dei profitti sul petrolio estratto. Per la sua opera pia, Petrochina si trattiene invece solo il 50%; segno che si sente la coscienza molto più sporca rispetto agli immacolati Anglo-Americani.
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