Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L'inserimento dell'obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione dimostra che oggi i veri bersagli del dominio imperial-coloniale non sono tanto Keynes, e neppure Marx, bensì Locke e Montesquieu. La modifica costituzionale prospetta infatti l'abolizione della separazione dei poteri e la restaurazione dell'Assolutismo, in quanto si proclama di fatto la sovranità assoluta della finanza internazionale, proprietaria della maggior parte del debito degli Stati, che ora dovrebbero essere impossibilitati a districarsi con il tradizionale espediente del deficit di bilancio.
Ma in questo progetto di restaurazione assolutistica non mancano gli aspetti confusi. Da un lato c'è un'arroganza persino puerile in questa proclamazione di sovranità assoluta delle banche, ma, dall'altro lato, si nota una dissimulazione piuttosto goffa di tutta l'operazione, fatta passare come "virtuosa": la virtù nei conti. I provvedimenti di finanziarizzazione dell'economia vengono infatti camuffati con slogan rubati alla tradizione politica più radicale: la "Virtù" di Robespierre, le "riforme strutturali" di Togliatti, la lotta all'evasione fiscale, ecc.
La finanza non ha apologeti o difensori d'ufficio dichiarati; in compenso ha innumerevoli e insospettabili lobbisti occulti, a cui spetta il compito di far passare gli affari delle banche come "bene comune", come "interesse delle giovani generazioni", o come punizione dei "privilegi delle corporazioni". Strano però che il denominatore comune di tutte queste misure efficientistiche, moralistiche e salvifiche alla fine sia sempre quello di dotare tutti di carta di credito obbligatoria.
Alla dissimulazione dei veri obiettivi si è aggiunto l'oscuramento, dato che i media hanno fatto in modo che un evento che dovrebbe essere considerato importantissimo, come una modifica costituzionale, sia stato invece avvolto nel silenzio, tanto che la gran parte dell'opinione pubblica non ne è neppure a conoscenza. Se l'obiettivo della modifica costituzionale aveva un carattere simbolico, allora in questo agire alla chetichella c'è un po' di incongruenza.
C'è anche da rilevare che la modifica costituzionale non può davvero impedire il deficit di bilancio, e il Fondo Monetario Internazionale si è affrettato a far sapere che in Italia l'obiettivo del pareggio non sarebbe possibile prima del 2017. Si profilerebbero quindi cinque anni di incostituzionalità?
Da un punto di vista tecnico-costituzionale l'introduzione di questa nuova norma non renderebbe incostituzionale il deficit in sé, ma solo il fatto di perseguirlo esplicitamente. In teoria, a qualsiasi governo o parlamento basterebbe proclamare, anno per anno, l'obiettivo del pareggio, salvo poi infischiarsene. Neppure la politica keynesiana diventerebbe di per sé incostituzionale, poiché sarebbe sufficiente affermare di voler conciliare le tecniche keynesiane con il pareggio di bilancio. Probabilmente molti parlamentari hanno accondisceso alla forca caudina del voto alla modifica costituzionale con una riserva mentale di questo genere: rendiamo pure il pareggio di bilancio un obbligo costituzionale, tanto chi l'ha rispettata mai la Costituzione? Figuriamoci poi i politici che si lasciano spaventare da un ossimoro in più o in meno, dopo che per tre anni un Tremonti ha dimostrato di eccellere nell'arte del contraddirsi.
Proprio Tremonti ha di recente rinnovato i suoi anatemi contro le banche, pronunciandosi contro il dominio della finanza. Ma anche Monti aveva fatto altrettanto, sebbene con dichiarazioni meno fiere, limitandosi a sostenere la necessità di ridimensionare il ruolo della finanza. Angelino Alfano non ha voluto mancare al coro, e qualche settimana fa ha lanciato un monito alle banche: se saranno contro il popolo, avranno contro il PdL. Per i banchieri roba da non dormirci la notte.
Probabilmente agli stessi banchieri la farsa della loro incoronazione in parlamento attraverso quella modifica costituzionale, non ha suscitato particolare pathos, ed è con ben altri mezzi che essi contano di tenere al guinzaglio il ceto politico. Chissà perché, ma il discredito morale che circonda il mondo bancario non si risolve per esso nella benché minima perdita di legittimità; allo stesso modo in cui la crisi finanziaria non comporta, per le banche stesse, alcun calo dei profitti. [1]
Non avviene altrettanto per il ceto politico. L'opinione pubblica italiana viene rigorosamente addestrata a credere che i problemi di corruzione politica siano un problema strettamente interno all'Italia. I nostri opinionisti preferiti non fanno che propinarci esempi di rigore provenienti dal mondo anglosassone, dove integerrimi ministri si dimettono per aver comprato un gelato al nipotino con fondi pubblici. Questo stile e questa eleganza british fanno da contrasto con l'orrido Belsito, il ripugnante Lusi e la sciamannata Rosi Mauro. Nel mese di marzo scorso la stampa britannica riferiva invece di qualche episodio di corruzione che ha portato alle dimissioni del tesoriere (sic!) del Partito Conservatore, Peter Cruddas, il quale era solito organizzare cenette private con inviti che venivano ceduti per la modica cifra di 250.000 sterline l'uno, con l'ovvia promessa che le giuste istanze dei finanziatori sarebbero state ascoltate con particolare comprensione dal governo. Cruddas si è dimesso, ma potrà consolarsi con un patrimonio personale di 750 milioni di sterline, frutto di una vita di rinunce e sacrifici.[2]
La cosa curiosa è che non solo le vicende di corruzione, ma persino i commenti dei politici e degli opinionisti britannici ricalcano il copione già visto in Italia, con la consueta rassegna di banalità. Anche in Gran Bretagna tutti i commentatori si guardano bene dall'osservare che se la corruzione è uno strumento per controllare e "lobbistizzare" il ceto politico, d'altro canto anche questi scandali non portano ad alcuna catarsi, anzi si configurano solo come un ulteriore elemento di ricatto sulla politica.
I media ci hanno abituati a credere che anche il problema della "casta" dei politici sia un problema essenzialmente italiano; invece, secondo i commentatori dell'Atlantic Council - l'organo supremo della NATO - si tratterebbe nientemeno che di un'emergenza a carattere europeo, che non risparmia neppure la tanto celebrata Gran Bretagna. [3]
La delegittimazione del ceto politico riguarda l'intera Unione Europea, ed ha i suoi principali teorici all'interno della NATO. Ed allora è forse proprio la NATO a tenere l'Europa sotto tutela ed a far pesare sul ceto politico la spada di Damocle della delegittimazione morale. A questo punto non può essere che una pura coincidenza il fatto che nella NATO i banchieri abbiano trovato da tempo il loro asilo più confortevole e sicuro; come dimostrano l'elenco degli sponsor del Consiglio Atlantico, e l'elenco dei componenti del Business and Economics Advisors Group dello stesso Consiglio Atlantico. I soliti noti ci sono tutti: JP Morgan, Rockefeller, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Barclays, BNP Paribas.[4]
Del Business and Economics Advisors Group del Consiglio Atlantico, sino a qualche settimana fa era membro anche Mario Monti. [5]
[1] http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-03-18/manovra-40re-mercati-142622.shtml?uuid=AbQJVBAF
[2] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.guardian.co.uk/uk/2012/mar/25/peter-cruddas-east-end-monaco&ei=zZyXT_rkK8js-gbUjsHuBg&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=2&ved=0CEUQ7gEwAQ&prev=/search%3Fq%3Dcruddas%26hl%3Dit%26prmd%3Dimvnsl
http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.bbc.co.uk/news/uk-politics-17503116&ei=-p2XT8_vKYmf-QbZyvXnBg&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=3&ved=0CE0Q7gEwAg&prev=/search%3Fq%3Dcruddas%26hl%3Dit%26prmd%3Dimvnsl
[3] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.acus.org/new_atlanticist/bradford-coming-crisis-european-democracy&ei=IwKUT9nHCfCL4gT_rdWWCA&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=3&ved=0CDEQ7gEwAg&prev=/search%3Fq%3Dcaste%2Batlantic%2Bcouncil%26hl%3Dit%26prmd%3Dimvnsb
[4] http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.acus.org/about/sponsors&ei=-viXT6HuN8e3-wbu9Z33Bg&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=1&ved=0CCsQ7gEwAA&prev=/search%3Fq%3Dsponsor%2Batlantic%2Bcouncil%26hl%3Dit%26prmd%3Dimvns
http://www.acus.org/people/beag
[5] http://www.acus.org/users/mario-monti
L'atteggiamento tenuto dalla Russia in queste ultime settimane sembra, per il momento, aver allontanato la prospettiva di un attacco della NATO contro la Siria. La risoluzione appena approvata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU per l'invio di una commissione d'inchiesta in Siria, può infatti essere considerata un successo dell'azione diplomatica russa. Si tratta di un successo specialmente se si considera che lo scorso anno il governo della Libia aveva richiesto inutilmente la presenza di osservatori ONU sul terreno, così che a far testo furono i servizi dell'emittente Al Jazeera, che ha sede in Qatar, cioè in un Paese legato ad un accordo di collaborazione con la NATO. La risoluzione attuale riconosce invece che esistono in Siria due parti armate in conflitto, e quindi si offre una sponda a quegli osservatori che non siano disposti ad avallare semplicemente la fiaba occidentale, che descrive il dittatore mentre reprime la sua inerme popolazione assetata di democrazia.
Già dal dicembre scorso vi erano stati segnali che indicavano che le forze armate russe stavano facendo pressione sul proprio governo per indurlo a non replicare il copione di passiva complicità tenuto in occasione dell'aggressione alla Libia. La Siria non confina con la Russia, ma vi è pericolosamente vicina, quindi l'integrità della Russia è direttamente minacciata dalla NATO. Purtroppo Putin ci ha abituati a clamorosi cedimenti sin dal 1999, quando, appena chiamato a capo del governo dal presidente Eltsin, abbandonò al suo destino la Serbia, ritirando quella presenza militare russa che, per quanto esigua, costituiva un argine all'occupazione del territorio serbo da parte della NATO. A causa di quell'atteggiamento di Putin, la NATO fu in grado di impadronirsi della Serbia, e di sbarazzarsi di Milosevic, senza aver mai conseguito una vittoria militare sul terreno.
La posizione russa non dà quindi al momento alcuna garanzia di linearità e continuità, perciò la guerra costituisce una minaccia ancora incombente. D'altra parte in quest'ultimo anno non sono mancati altri clamorosi sbandamenti nella politica di vari Paesi. All'inizio dell'aggressione NATO contro la Libia, era sembrato che il governo turco intendesse defilarsi o addirittura assumere un atteggiamento contrario. Ancora un anno fa la Turchia appariva come l'unico Stato della regione intenzionato a fronteggiare l'aggressività di Israele; mentre oggi la Turchia aggredisce la Siria per conto degli Stati Uniti ed in collaborazione con Israele. La Turchia risulta infatti come il principale aggressore nei confronti della Siria, poiché è dal territorio turco che si infiltrano le truppe dell'Esercito Libero Siriano, cioè mercenari del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti (altro Paese coordinato con la NATO), finanziati anche dall'Arabia Saudita. Da anni circolano notizie sulla presenza negli Emirati Arabi Uniti di contractor dell'agenzia XeServices (ex Blackwater).[1]
La linea del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha segnato un aumento dell'aggressività e dell'espansionismo coloniale statunitense. Haiti, Libia e Sudan del Sud sono stati già annessi all'impero coloniale statunitense, ed ora si trovano sotto tiro la già massacrata Somalia, il resto del Sudan, la Siria e l'Iran. Va notato che ciò è stato ottenuto dalla Clinton mettendo da parte la linea del cosiddetto unilateralismo di Bush. La Clinton ha seguito invece la tattica del lasciar fare ai filoamericani.
In Libia l'iniziativa dell'aggressione è stata addirittura presa da Sarkozy, che oggi vede la multinazionale francese Total sotto inchiesta da parte di un'agenzia federale statunitense - la SEC -, per aver collaborato col regime di Gheddafi. La Total è sotto inchiesta insieme con l'ENI, che si è trovato sloggiato dal suo ruolo preminente in Libia anche per opera delle forze armate italiane, che hanno collaborato all'aggressione contro la Libia. Il fatto che la SEC non abbia nessun titolo legale per compiere inchieste del genere sembra un dettaglio irrilevante, infatti il nuovo vertice dell'ENI si è dichiarato pronto a collaborare con le indagini che lo riguardano. [2]
La repentina messa in soffitta degli slogan del "pericolo islamico" e dello "scontro di civiltà" ha determinato per gli USA dei vantaggi immediati sia in campo strettamente militare che sul piano politico generale. Il risultato militare più evidente è stato quello di sdoganare e riciclare la galassia delle milizie pseudo-islamiche. Negli Emirati Arabi stazionano da più di trenta anni una serie di campi di addestramento per "miliziani islamici", che erano stati usati dagli Stati Uniti per contrastare l'invasione russa dell'Afghanistan. Si tratta di miliziani "reclutati" (o prelevati) presso le loro famiglie in giovanissima età e sottoposti ad un addestramento militare, ma anche ideologico, che li abitua a considerare come nemico non gli USA, ma i regimi arabi laici. Questi regimi vengono fatti odiare non perché sono corrotti e dispotici, ma per la loro unica caratteristica positiva, cioè di rappresentare una prospettiva diversa rispetto al legame tribale.
Si tratta di quell'area di milizie pseudo-islamiche che viene etichettata sotto la sigla di comodo di "Al Qaeda", e che negli anni di Bush era stata pretestuosamente spacciata come la nuova minaccia per l'Occidente che avrebbe sostituito quella sovietica. In Libia, in Sudan ed in Siria queste milizie stanno svolgendo un ruolo decisivo per la colonizzazione USA, in quanto fanno da battistrada e da copertura per le milizie mercenarie vere e proprie, assicurando una copertura ideologica ed un alibi missionario a tutta l'operazione.
In effetti il confine tra la milizia "islamica" e la truppa mercenaria non è poi così netto come si potrebbe pensare. L'integralismo islamico, confezionato nei decenni scorsi dalla psicoguerra della CIA, non consiste infatti in un mitico "fanatismo", e neppure in un richiamo identitario ad una presunta tradizione. Si tratta semplicemente del discredito gettato su ogni forma di cittadinanza o di socialità evoluta, perciò alla fine non rimane altro che la fedeltà al denaro dei reclutatori, in questo caso gli emiri e la famiglia reale saudita. Proprio l'esperienza storica statunitense dimostra che il fondamentalismo religioso si risolve praticamente in religione del denaro.
Le milizie "islamiche" non sono altro che gang, ed il loro integralismo religioso non è altro che autorazzismo. Come ogni forma di razzismo, anche il filoamericanismo non è un "pregiudizio", ma rappresenta la falsa coscienza di forme di gangsterismo; ed il razzismo è sempre una strada a due sensi, perciò per i colonizzati diventa la persuasione della propria irrimediabile inferiorità.
Attorno all'immaginaria minaccia islamica paventata dalla presidenza Bush, l'apparato ideologico "Neocon" aveva confezionato altri slogan come la "esportazione della democrazia", la "guerra preventiva", ecc., che non potevano evitare di causare delle frizioni con l'area del filoamericanismo ambiguo, spesso connotato di un alone di "sinistra" o, addirittura, di pacifismo. Era accaduto così che il filoamericanismo ambiguo venisse etichettato dai "Neocon" come antiamericanismo; e nel periodo della presidenza Bush ciò ha creato l'illusione di un esplodere dell'antiamericanismo, che in realtà non si è mai verificato.
Nel momento in cui il filoamericanismo era rappresentato da un Magdi Allam o da un Giuliano Ferrara, era inevitabile che il filoamericanismo stesso ne venisse gravemente screditato; ma questo discredito non c'entrava nulla con l'antiamericanismo, che, come soggetto politico, non esiste. Lo scontro ideologico non è tra filoamericanismo ed antiamericanismo, ma tra le varie sfumature del filoamericanismo.
Oggi il Dipartimento di Stato USA ha sostituito l'esportazione forzata della democrazia con una fiaba più suggestiva, cioè con l'immagine mediatica di una serie di spontanee rivolte per la democrazia represse ferocemente dai dittatori. Se l'unilateralismo di Bush toglieva spazio di manovra ai filoamericani, l'approccio multilaterale della Clinton lascia invece campo libero al protagonismo ed allo zelo dei filoamericani. Al Jazeera ha svolto un ruolo davvero creativo in questo campo, ed il Qatar è diventato l'avanguardia militare ed ideologica del colonialismo statunitense. Il suo nuovo protagonismo ha suscitato invidie ed emulazioni, tanto che persino il presidente turco Erdogan - sino a due anni fa enfant terrible all'interno della NATO - si è messo ora ad imitare l'emiro del Qatar.
La disinvoltura con cui l'area del filoamericanismo di "sinistra" ha sposato le fiabe mediatiche confezionate dall'emiro del Qatar, indica appunto che l'espansionismo statunitense ha bisogno di "multilateralismo", cioè di far leva sulle infinite risorse degli zeloti del filoamericanismo. Si può sostenere nei fatti una guerra coloniale anche dichiarandosi contrari alla guerra. Se si avalla la fiaba ufficiale del dittatore che sta sterminando il proprio popolo, allora ogni dichiarazione contraria alla guerra diventa pura enunciazione retorica, un alibi utile ad alimentare un finto dibattito attorno a delle aggressioni militari che l'opinione pubblica viene indotta a considerare non solo inevitabili, ma anche giuste.
[1] http://www.repubblica.it/ultimora/esteri/eau-nyt-800-mercenari-di-blackwater-contro-dissidenti/news-dettaglio/3969601
[2] http://borsaitaliana.it/borsa/notizie/mf-dow-jones/italia-dettaglio.html?newsId=977743&lang=it
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