Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Uno dei mantra dell’ottimismo antropologico è che la verità alla fine verrebbe sempre a galla. La verità non ha però nessun bisogno di venire a galla, dato che se ne stava lì sin dall’inizio, evidente quanto irrilevante; magari qualcuno ogni tanto la nota, la richiama pure, ma poi tutto procede come se niente fosse. Riguardo alla guerra in Ucraina, i media nostrani continuano a disinformare con assoluta disinvoltura, ma la stampa ucraina purtroppo ha a che fare con un’opinione pubblica che verifica i fatti sulla propria pelle, per cui, per quanto gestita dal governo, qualcosa deve riconoscere di quanto effettivamente accade.
Nel luglio scorso il “Kyiv Post” ha infatti dato la notizia sull’inefficacia dei sistemi di difesa “Patriot” e SAMP/T contro gli attacchi missilistici russi. Dall’articolo del “Kyiv Post” sembrerebbe però che i problemi del “Patriot” riguardino soltanto la minaccia da parte di missili di ultima generazione. La storia del “Patriot” è invece molto più lunga ed ancor meno gloriosa.
Il sistema SAMP/T è prodotto da un consorzio italo-francese, composto da Leonardo ed Airbus; tra progettazione e realizzazione, il sistema SAMP/T ha una ventina d’anni di storia, ma solo ora sta finalmente dando cattiva prova di sé. Il sistema statunitense “Patriot”, progettato in almeno otto versioni dalla Raytheon Technologies, ha invece un annoso curriculum di documentati fallimenti, a partire dal suo primo utilizzo nella Guerra del Golfo del 1991; tanto che può essere considerato un caso paradigmatico per comprendere come funziona il sistema. L’inefficacia del “Patriot” si era infatti manifestata nei confronti di una minaccia missilistica particolarmente “arretrata”, come gli “Scud” iracheni, cioè degli ordigni progettati dall’URSS sul modello delle V2 della seconda guerra mondiale, poi riadattati alla circostanza e ribattezzati “Al-Husayn”.
La deludente prova del “Patriot” suscitò una serie di ipotesi e di inchieste, ed anche di insabbiamenti, sia da parte dell’esercito statunitense, sia da parte del Congresso.
Il 26 marzo del 2018 si verificò addirittura
il “fattaccio” clamoroso nella capitale saudita Riad, quando, per reagire ad un attacco delle solite imitazioni V2 lanciate dai ribelli yemeniti, un missile antimissile “Patriot” causò una catastrofe, trasformandosi in un proiettile contro chi lo aveva lanciato. I tentativi di nascondere o minimizzare il fallimento furono vani e la notizia fu diffusa per un po’ di tempo da tutta la stampa internazionale; finché, ovviamente, le pressioni lobbistiche non l’hanno fatta cadere nel dimenticatoio.
Si può immaginare la soddisfazione del governo saudita, che aveva pagato a peso d’oro quel micidiale bidone. Ogni missilino “Patriot” costa infatti tra i tre ed i quattro milioni di dollari; basterebbe questo per capire che si tratta di una frode, persino se funzionasse. La stessa Raytheon, pur con i suoi prezzi gonfiati,
secondo l’agenzia ANSA vende i suoi missili BGM-109 Tomahawk a “soltanto” ottocentomila dollari l’uno, quindi basta insistere con gli attacchi per rendere insostenibili i costi del sistema di difesa. Insomma, nella guerra reale vince il “low cost”.
La barriera del “Patriot” infatti non è stata infranta per la prima volta dai lussuosi missili ipersonici, bensì da economiche V2 riadattate dagli iracheni nel 1991 e, negli anni recenti, dagli iraniani che rifornivano i ribelli yemeniti. In un video registrato all’epoca si può osservare la dinamica di questa sorta di
auto-bombardamento, di “fuoco amico”, causato dal “Patriot”. Non si sa come siano andate le cose quando è stata colpita la cattedrale di Odessa, ma i media mainstream hanno deliberatamente ignorato dei precedenti che potevano suggerire altre ipotesi oltre quella del bombardamento russo.
Pochi mesi prima, nel dicembre del 2017, il “New York Times” aveva dato notizia di
un’altra figuraccia del sistema “Patriot” installato in Arabia Saudita. Il quotidiano forniva anche dettagli sui tentativi del governo saudita e del presidente Trump di occultare quella penosa performance e di spacciarla addirittura per un successo. Nei mesi scorsi i media occidentali si sono impegnati in narrative su inesistenti vittorie del “Patriot” contro i missili ipersonici russi; ma occorre tenere presente che qui la questione non riguarda l’eventuale obsolescenza del “Patriot” a fronte delle nuove tecnologie ipersoniche (ammesso che siano davvero nuove), bensì la sua accertata incapacità ad opporsi ad attacchi missilistici operati con tecnologie di ottanta anni fa, quando i missili fabbricati dagli schiavi alle dipendenze di Wernher von Braun bersagliavano Londra. Proprio perché il “Patriot” non è mai stato una difesa credibile, risulta oggi prematuro anche parlare di grandi risultati della tecnologia ipersonica russa. Ogni guerra è una vetrina delle armi, e può anche capitare che lo spot di un venditore possa ritorcersi contro di lui e diventare lo spot a favore di un suo concorrente.
C’era di che essere un po’ perplessi sull’acquisto del “Patriot”, una volta verificato che si trattava di un costoso sistema per auto-bombardarsi. Nel 2018 invece, in un accesso di masochismo,
il governo polacco concluse un accordo con il governo USA e con Raytheon per la fornitura del “Patriot”, con una spesa di quattro miliardi e mezzo di dollari. Questa vendita di armi alla Polonia la dice lunga sui veri motivi per cui è stata mantenuta ed allargata la NATO dopo la fine dell’URSS; e spiega anche perché Madeleine Albright e la sua cosca di neocon abbiano fatto di tutto per fomentare il revanscismo degli ex sudditi dell’impero sovietico.
Il potere si quantifica in capacità di spesa. La spesa militare però non si traduce più in potenza militare, in effettiva potenza di fuoco, bensì in potere di corruzione. La spesa militare ha superato una soglia critica che ha determinato un’implosione del militarismo tradizionale, riconvertitosi in affarismo fine a se stesso. Nonostante il fatto che proprio in queste settimane la stampa ucraina abbia dato notizia degli insuccessi del “Patriot”,
il governo polacco ha stretto accordi per nuove forniture, per un valore di quindici miliardi di dollari. Il “Patriot” protegge dagli attacchi missilistici esattamente quanto il siero Pfizer immunizza dal Covid. Magari questi campioni della tecnologia occidentale si limitassero soltanto ad essere inefficaci, purtroppo fanno anche danni, “auto-bombardano”; in compenso, con l’uno e con l’altro si fanno un sacco di soldi.
L’aspetto paradossale di questa vicenda è che si è tenuta in piedi la NATO per vendere sistemi d’arma costosissimi quanto improbabili nel funzionamento; sistemi che non hanno nulla a che fare con la guerra reale. Intanto però le guerre si fanno lo stesso, ovviamente per procura; e nella guerra in Ucraina il grosso del massacro viene perpetrato con i mezzi “poveri” del militarismo tradizionale, cioè artiglierie e mine. Ci sono quindi due militarismi: quello degli affari, che crea le condizioni per lo scoppio delle guerre, senza però essere in grado di condurre realmente lo sforzo bellico; e poi c’è il militarismo della tecnica tradizionale di macelleria di massa, quello che porta avanti le guerre sul campo. In questo sistema a più risvolti criminali, l’Italietta non è affatto la povera vittima dell’ingerenza NATO.
Leonardo, l’ex Finmeccanica, coopera alla produzione del sistema concorrente del “Patriot”, cioè il SAMP/T. In realtà questa posizione di concorrenza dell’industria europea degli armamenti è soltanto apparente. L’ex Finmeccanica fa parte a tutti gli effetti del cosiddetto “complesso militare-industriale” statunitense; anzi, questa locuzione resa popolare dal presidente USA Eisenhower risulta ampiamente incompleta, dato che si è di fronte ad un sistema nel quale l’industria delle armi ed i militari si integrano con i media e la grande finanza. L’ex Finmeccanica infatti vanta affari in comune non solo con Boeing e Lockheed Martin, ma anche con Raytheon.
Il capitalismo militare tende a fare cartello, ad agire come un sistema di lobbying sovranazionale, in grado di regolare le carriere politiche e militari ed il prelievo sul denaro pubblico.
Ci sono, evidentemente, solo buoni motivi per cui gli Stati Uniti, dopo la loro precipitosa partenza da Kabul dell’agosto 2021,
hanno trattenuto i fondi della Banca Centrale dell’Afghanistan. Lo stesso fanno alcune banche europee, e con le stesse lodevoli intenzioni. Gli Stati Uniti hanno “congelato” la cifretta di 7 miliardi di dollari, mentre le banche europee solo 3. Cifre irrisorie per i banchieri occidentali, ma importanti per un paese povero come l’Afghanistan. Ma vediamo alcune delle motivazioni più convincenti:
Gli Afgani devono pagare per gli attentati dell’11 settembre 2001.
Certo, qualcuno potrebbe far notare che, anche secondo la narrazione mainstream, gli afgani non c’entrano un bel niente con quegli attentati; che con decenni di guerre e bombardamenti subiti, il paese avrebbe scontato ben altre colpe; che l’afgano medio di oggi nel 2001 non era neppure nato. Ma sono forzature polemiche.
La metà dei soldi afgani serviranno per un fine nobilissimo: risarcire le famiglie delle vittime dell’11 settembre.
Qualcuno potrebbe obiettare, pretestuosamente, che i parenti delle vittime hanno già ricevuto oltre 7 miliardi e altri 10 sono in via di consegna; che alcuni famigliari hanno opposto un rifiuto affermando che gli afgani non c’entrano niente e che sarebbe un furto accettare quel risarcimento. Ma questo è solo un evidente segno di ingratitudine verso il governo che fa tanto per loro.
I più astiosi sottolineano che, a fronte dei 3,5 miliardi degli afgani, previsti per i parenti delle vittime dell’11 settembre, nei rarissimi casi in cui gli USA hanno deciso di risarcire le vittime afgane della loro politica criminale, i risarcimenti sono stato talmente irrisori da far sembrare la tessera “Dedicata a te” della Meloni una vera manna.
Congelare i soldi della banca dell’Afghanistan ha anche il nobile fine di fare pressione sui Talebani perché non comprimano i diritti delle donne afgane e i diritti umani in generale.
Ci sarà magari qualcuno che vorrà argomentare, in malafede, che in un paese che viene fuori da 40 anni di guerre, con una popolazione stremata e ridotta alla fame più nera, dove per molti il pasto si limita a un po’ di pane e una tazza di tè, e dove la pratica sempre più diffusa da parte di molti genitori, è vendere i propri organi per sfamare figli; in un paese così, il diritto di non morire di fame dovrebbe avere un certo peso. Ma sono gli argomenti di chi non ha argomenti.
Si è deciso che l’altra metà dei soldi congelati dovrà servire per aiuti umanitari all’Afghanistan. Un grande gesto di generosità da parte USA, che foraggeranno così le organizzazioni umanitarie occidentali per aiutare gli afgani con i loro stessi soldi. Vero è che finora non hanno sganciato un centesimo, ma la voglia di farlo è forte.
Rimangono comunque alcuni inquietanti interrogativi intorno a questo paese dell’oriente misterioso. I commentatori occidentali sono perplessi. Dopo anni di bombardamenti e stragi di civili e soprattutto bambini (47mila morti fra i civili), di occupazione da parte di truppe straniere, dopo una totale devastazione del territorio (quello coltivabile dedicato al papavero da oppio), dopo l’instabilità dei governi filo-americani che provocava intorno ai 300 morti al mese [oggi gli attentati sono quasi del tutto assenti], non si capisce come mai la popolazione civile non si ribelli contro i Talebani che impongono il burqa alle donne. Eppure avevano assaporato il profumo della libertà fatta di bombe e di oppio.
Non è neppure chiaro il perché dell’abbandono del territorio afgano da parte dei suoi benefattori. Lavorando sulle competenze, introducendo nuove tecniche di coltivazione, favorendo gli scambi commerciali, gli USA erano riusciti a fare dell’Afghanistan il primo produttore mondiale di oppio e stavano fornendo il know how per la produzione diretta di eroina (nel 2017 si erano raggiunte le 9000 tonnellate di oppio). Essendo
gli USA il primo consumatore al mondo di droga e di oppiacei in particolare, si capisce quali benefici ne traeva tutto l’indotto.
C’è da dire che anche la beneficenza ha un costo. I costi della guerra in Aghanistan si aggirano oggi sugli 8 mila miliardi di dollari. C’è chi insinua che una spesa come questa abbia rappresentato un colossale affare per le lobby delle armi e per quelle militari. D’altro canto, visto che c’era la possibilità di raggranellare qualche soldino col traffico della droga, perché non farlo? In questo modo, le spese non devono gravare tutte sul povero contribuente americano.
A ben guardare però, oggi la situazione è cambiata. La maggior parte della droga che entra negli USA proviene dal Messico. Questo paese è oggetto da tempo delle amorevoli attenzioni statunitensi prima dedicate all’Afghanistan. Anche qui si sta instaurando quel clima operoso e di libero scambio fra servizi USA, criminalità specializzata, cartelli locali e mafie americane, che provoca migliaia di morti, e quella proficua instabilità in cui possono agire i trafficanti più o meno istituzionali. Il tutto con la supervisione delle lobby militari. In ogni caso, la droga afgana non è rimasta del tutto senza mercato. Grazie a qualche talebano con spirito imprenditoriale e a qualcuno dei “signori della droga” tanto cari agli occidentali, la droga afgana rifornisce oggi soprattutto il mercato europeo, con i benefici che si possono immaginare.