Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il mistero della candidatura di Antonio Ingroia, a distanza di qualche settimana dalle elezioni, si è in parte risolto, ora che è stata definitivamente formalizzata la sua rinuncia all'incarico ONU in Guatemala. Che questo incarico costituisse un bidone particolarmente insidioso, tale da spiegare la scelta di sottrarvisi accettando un'assurda candidatura, è stato ulteriormente confermato dalla recente
dichiarazione di un funzionario governativo dello Stato messicano del Chihuahua, un tale Guillermo Terrazas Villanueva. Questi ha accusato la CIA di non combattere affatto il traffico di droga in Centro-America, bensì di esserne addirittura il manager.
Certo, si tratta di una scoperta dell'acqua calda, e inoltre Villanueva ha edulcorato le sue dichiarazioni attribuendo alla CIA semplicemente l'obiettivo di voler evitare di stroncare il traffico per non perdere potere e finanziamenti; ma il tutto risulta comunque utile a far capire in che guai si sarebbe andato a cacciare Ingroia, una volta assunto il "prestigioso incarico internazionale". Tanto più che le organizzazioni internazionali, così celeri e solenni nell'affidare missioni salvifiche, si dimostrano poi prontissime ad abbandonare al loro destino i malcapitati che si siano lasciati irretire.
Viene spontaneo il paragone con quanto avvenuto ai due marò italiani, in missione "anti-pirateria" nell'Oceano Indiano per conto della NATO. Il quotidiano "il Foglio", noto per essere condotto da giornalisti col doppio passaporto - americano ed israeliano -, ha
sgridato il governo per non aver immediatamente coinvolto la NATO nella vicenda dei marò.
In realtà la NATO è sempre stata coinvolta, sin dall'inizio, se si considera che il ministro della Difesa ancora in carica, Di Paola, è un funzionario della stessa NATO. Anche dal punto di vista del diritto internazionale, la NATO avrebbe dovuto essere il primo interlocutore ufficiale dell'India nella questione dei pescatori uccisi. Inoltre, a tutt'oggi i marò italiani costituiscono la truppa da sbarco che si assume il maggiore onere nella missione NATO nell'Oceano Indiano. Ce lo fa sapere il sito della stessa NATO, nell'ambito di una
comunicazione su manovre congiunte nell'Oceano Indiano con la Marina militare russa (per la serie: continuiamo a farci illusioni sull'anti-imperialismo di Putin).
In astratto ciò avrebbe potuto significare che il nostro governo deteneva un potere contrattuale nei confronti della NATO, da far valere per riscuotere sostegno nella vicenda dei due marò. In concreto significa l'esatto opposto, e cioè che i nostri obbediscono e basta.
Infatti i due marò sono stati restituiti al governo indiano non appena la NATO ha avuto le garanzie che al loro processo non potrà uscire nulla che sveli le vere magagne che stanno dietro alla missione nell'Oceano Indiano. Tanto è vero che i due militari italiani saranno giudicati da un tribunale speciale. Anche la Marina indiana collabora con la NATO per le sedicenti missioni anti-pirateria, e questo suo potere contrattuale il governo indiano l'ha fatto valere. Gli USA hanno accondisceso all'accordo, poiché a pagarne il prezzo per intero era uno Stato-zerbino come l'Italia.
La stampa che ha criticato il governo e reclamato le dimissioni del ministro Terzi per il suo disastro diplomatico, però non ha fatto nulla per informarci sui veri termini della questione. La storia del semi-sequestro dell'ambasciatore da parte delle autorità indiane non sta in piedi, perché, se così fosse stato, il governo italiano avrebbe avuto un'occasione d'oro per fare la parte della vittima accusando l'India di una plateale violazione del diritto internazionale.
Che Ingroia non abbia voluto andare anche lui allo sbaraglio, ed abbia pensato soprattutto a salvare se stesso dalla trappola internazionale in cui era stato cacciato, può essere anche oggetto di comprensione, dato che è troppo comodo predicare l'eroismo sulla pelle degli altri. C'è anche da considerare che Ingroia si sarebbe trovato alle spalle una stampa italiana ostile, che si sarebbe affrettata a far passare qualsiasi problema che lui avesse incontrato come un mero effetto del suo protagonismo. Un Ingroia caduto sul campo non avrebbe avuto perciò nemmeno l'alone dell'eroe; anzi, si sarebbe detto che se l'era cercata.
Rimane però da chiarire l'altra parte del mistero, e cioè perché i due partiti comunisti abbiano deciso di gettarsi nell'avventura suicida della lista "arancione", accettando per di più che a capeggiare la lista fosse un candidato così chiaramente abulico e demotivato. Nel gennaio scorso, il segretario dei Comunisti Italiani, Diliberto, ha rilasciato
un'intervista in cui tuonava: "Basta con la sinistra che si vergogna di se stessa".
Ma, se i due partiti comunisti non si vergognavano di se stessi, perché non presentarsi con una lista comunista? Perché Diliberto e Ferrero non hanno ritenuto affidarsi a quella frazione di elettorato di opinione ancora desiderosa di poter votare "falce e martello"? In una fase in cui il capitalismo ha gettato tutte le sue maschere, non avrebbe avuto più senso cercare un rapporto con quei settori sindacali che vorrebbero una copertura politica più convinta?
In questo momento l'euforia per l'elezione di De Magistris a Napoli si è del tutto spenta, e non solo a causa della sua gestione pedissequa e burocratica del Comune, ma anche per le sue continue esibizioni di servilismo nei confronti della NATO. In occasione del trasferimento in Gran Bretagna del comando NATO di Nisida, il sindaco
De Magistris si è affrettato a rassicurare la popolazione circa il fatto che ciò non comporterà assolutamente un abbandono di Napoli da parte della NATO. Ma chi si era mai illuso?
Con l'offuscamento del suo uomo simbolo, il movimento "arancione" poteva considerarsi un capitolo chiuso, perciò la presentazione di una lista comunista avrebbe dovuto considerarsi scontata; e forse avrebbe creato a Bersani timori tali da indurlo persino ad allargare la coalizione di centrosinistra a Diliberto e Ferrero. Abbiamo quindi, ancora una volta, il caso clamoroso di un elettoralismo che smentisce se stesso, che getta improbabili ponti con la "società civile" (ma cos'è?), e rinuncia a galvanizzare i propri potenziali elettori. Sarebbe il caso di dire che i brogli elettorali cominciano addirittura prima delle elezioni, quando si preparano liste, candidature e simboli.
Il tradimento non ha nulla di strano; anzi, in politica come in ogni altra relazione umana, rientra tra gli eventi a più alto tasso di probabilità. Ciò che invece risulta strano, è che il "tradito" si adoperi per fornire alibi e giustificazioni ai traditori. Già in campagna elettorale, Beppe Grillo aveva affermato di mettere in conto un 10-15% di defezioni fra gli eletti del Movimento 5 Stelle. Si trattava di una dichiarazione realistica, che gli avrebbe fatto onore, se oggi non si dovessero riscontrare a riguardo le ambiguità dello stesso Grillo.
Le critiche nei confronti di Grillo si sono sinora centrate soprattutto sulle carenze di democrazia interna del M5S, sulla sua gestione dispotica, "leninista", e sul soffocamento dei dissensi. Ma un movimento che nasca su base carismatica, e che abbia un uomo-immagine che si ponga come garante nei confronti della pubblica opinione, non può certo basarsi su quel sistema di guerra per bande che va sotto il nome di "democrazia interna", e che caratterizza partiti come il PD. Ciò che invece a suo tempo rese incongruente e ridicola la sortita del Buffone di Arcore contro Gianfranco Fini, consistette nel fatto che non si appuntava contro un seguace qualsiasi, bensì contro colui che era assurto a cofondatore del nuovo partito PdL, smentendo così tutta l'operazione politica e propagandistica che era stata costruita in precedenza.
A rendere inattendibile l'irrigidimento di Grillo nei confronti di Bersani, è stata invece la pretesa di far passare una sorta di identità antropologica tra il PD ed il PdL, come se si trattasse di fenomeni del tutto assimilabili. Ma non si può mettere un padre di famiglia e procuratore d'affari della Lega delle Cooperative sullo stesso piano di un Sardanapalo che ha costruito le sue fortune sul riciclaggio del denaro mafioso. Non era proponibile e non era credibile; e sembrava fatto apposta per dare fiato a quell'atteggiamento "menopeggista" che alla fine è uscito fuori nel M5S durante l'elezione del presidente del Senato. Tanto più che il rifiuto di incontrare Bersani si accompagna oggi alla decisione dei 5 Stelle di accettare l'invito ad incontrare l'attuale ambasciatore USA, David Thorne; la cui minacciosa blandizie avrebbe meritato, quanto meno, una presa di distanze.
Grillo avrebbe avuto invece facile gioco a demolire l'immagine di un Bersani come "meno peggio", se lo avesse sfidato ad una trattativa sui temi concreti, a cominciare dal buco nella montagna (e nella spesa pubblica) che si sta allestendo in Val di Susa; proseguendo magari sul mega-radar super-inquinante e super-aggressivo che gli USA stanno costruendo a Sigonella. Invece Grillo lo ha sfidato sulla questione dei costi della politica, rispetto ai quali Bersani non ha avuto eccessiva difficoltà a venirgli incontro.
Il dimissionario governo Monti ha aumentato le tasse, tagliato la spesa pubblica, ma, nel contempo, ha portato il debito pubblico ad un livello record. In tal modo Monti ha smentito se stesso e tutta la politica basata sull'emergenza-debito. Perché allora non chiedere a Bersani un'inchiesta parlamentare sull'operato del governo Monti?
Ancora sino a qualche mese fa Grillo si lanciava in
elogi nei confronti della presidente argentina Kirchner per la sua politica anti-FMI. Ma ancora nel gennaio scorso gli ispettori del Fondo Monetario Internazionale sono arrivati in Italia non soltanto a stilare pagelle e voti nei confronti del nostro Paese, ma anche a dettare
l'agenda a cui il prossimo governo, quale che esso sia, si dovrà attenere.
Negli anni '80 è diventato di moda lo slogan della "complessità"- tuttora in voga -, che costituisce un espediente retorico di provata efficacia confusionale, poiché non vi corrisponde alcun allargamento dei dati da considerare, bensì soltanto un rifiuto aprioristico di confrontarsi con i fatti più evidenti. Nella vicenda imperialistica degli ultimi sessanta anni, il FMI rappresenta una di quelle costanti di più scandalosa evidenza, come si è potuto riscontrare ad ogni passo anche nell'attuale crisi europea, compreso il recentissimo caso della crisi finanziaria di Cipro.
L'anno scorso era stata diffusa la fiaba di un FMI pentito a proposito delle politiche di austerità, e il tutto si era basato su qualche generica dichiarazione di Christine Lagarde. A leggere i punti che oggi il FMI ripropone, in Italia come a Cipro, ci si rende conto che la strada maestra indicata per la crescita del famoso PIL rimane sempre quella di tagliare-privatizzare-impoverire. Un'altra formula magica che poi viene nuovamente spacciata dal FMI come "misura per la crescita", è la "liberalizzazione delle professioni". Confindustria ha fatto immediatamente propri i punti programmatici del FMI; ma da tempo Confindustria agisce più come una lobby della finanza che come un'associazione industriale.
Perché allora Grillo non ha chiesto a Bersani di imitare la Kirchner e di cacciare il FMI dall'Italia? Al contrario, Grillo si è lanciato in dichiarazioni che riecheggiano quelle del FMI, scagliandosi di recente contro il parassitismo della pletora degli avvocati; ma ciò appare come scegliersi bersagli un po' troppo facili, dato che a tutti è capitato di prendere bidoni dagli avvocati. D'altra parte urta contro il buon senso voler far credere che il parassitismo delle categorie professionali costituisca oggi uno dei principali ostacoli all'economia. Sembra più il pretesto per sostituire alcuni parassiti con altri più voraci.
A proposito, da quanto tempo Grillo non nomina più il FMI? Forse da quando è iniziato il suo feeling con la stampa estera.
Si ha l'impressione che il Grillo attuale abbia ormai poco a che vedere con quello di dieci anni fa; e che non persegua propri obiettivi, ma si barcameni in un circuito occulto di lusinghe, pressioni e ricatti.