Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Salutata con accenti di gioia barbarica dai media "occidentali", la crisi economica russa non ha commosso neppure il Consiglio Europeo della scorsa settimana, che, sotto le direttive della cancelliera Merkel (cioè della NATO e del FMI), ha riconfermato le sanzioni contro la Russia. In realtà è tutto da dimostrare che le sanzioni "occidentali" abbiano qualcosa a che vedere con l'attuale crisi russa, per cui le sanzioni probabilmente rientrano nel capitolo dell'ingerenza imperialistica degli Usa in Europa in vista del suo inglobamento nel TTIP. Nella crisi russa risulta sicuramente molto più determinante la caduta del prezzo del petrolio innescata dall'Arabia Saudita. Quel che appare certissimo, è che le sanzioni europee stiano danneggiando seriamente l'export europeo; prova ne sia l'atteggiamento tiepido, seppure allineato, del presidente francese Hollande; ed anche i piagnistei di Renzi, il quale, pur riconfermando l'adesione italiana alle attuali sanzioni, ha pietito che almeno non se ne decidano altre.
Altrettanto da dimostrare è che un'eventuale dissoluzione del regime Gazprom-putiniano a seguito della caduta del prezzo del petrolio, abbia come sbocco l'instaurazione di un regime più filo-"occidentale" a Mosca. In Russia vi sono solo due poteri che contano: Gazprom, che è in gran parte espressione dell'ex KGB, e le forze armate. Sinora colui che i media occidentali hanno presentato come uno "zar" o come un "dittatore", cioè Putin, ha svolto in effetti un ruolo di mediazione tra questi due poteri, sebbene in modo sempre sbilanciato a favore degli affari di Gazprom. Date queste premesse, lo scenario più realistico a seguito di una caduta di Putin, dovrebbe consistere nell'emergere dell'altro potere che conta in Russia, quindi un regime militare. In quel caso la Russia uscirebbe dall'attuale atteggiamento meramente difensivo, ed allora davvero si potrebbe parlare di nuova guerra fredda. L'atteggiamento aggressivo del dipartimento di Stato Usa apparirebbe perciò piuttosto avventuristico; ma potrebbero esserci altre variabili in gioco.
La forza dell'imperialismo USA infatti non è mai consistita nella sua sagacia, e neppure nella sua intrinseca potenza. Non si comprende nulla dell'imperialismo, se non si tiene conto del fatto che esso funziona soprattutto per l'attrazione che esercita su tutti i gruppi affaristico-criminali in loco, che scorgono nell'aggressore imperiale un potenziale alleato per le loro losche operazioni. L'affarismo criminale determina sempre delle condizioni di guerra civile latente, ed è proprio questa guerra civile la vera risorsa dell'imperialismo. L'invasione NATO dell'Afghanistan nel 2001 fu possibile solo grazie al sostegno sul terreno da parte della cosiddetta "alleanza del Nord", cioè le milizie dei trafficanti di oppio, desiderosi di sbarazzarsi dei Talebani.
L'imperialismo USA è solo in parte un'espressione dell'oligarchia statunitense, e per molti versi è invece un prodotto delle oligarchie del resto del mondo. L'imperialismo non è solo americano, ma anche "filoamericano". Le mitiche "borghesie nazionali" non sono mai esistite; esistono invece gruppi affaristici, più o meno criminali, che agiscono a livello locale; gruppi che trovano la loro identità e la loro coscienza di classe nel collaborazionismo con l'ingerenza imperialistica. Persino dal punto di vista ideologico, l'americanismo ha trovato fuori degli USA apologeti e cantori spesso molto più efficaci - e subdoli - di quelli americani DOC; basti pensare all'austriaco Joseph Schumpeter.
Nel 1991 la prima Guerra del Golfo si risolse in un mezzo disastro per la coalizione guidata dagli USA. Gli Iracheni poterono concludere in modo ordinato il ritiro delle truppe dal Kuwait; un ritiro che avevano già cominciato prima della guerra, che era quindi priva di qualsiasi legittimità in base al diritto internazionale. Inoltre l'invasione del suolo iracheno fu bloccata in battaglie di carri che dimostrarono l'incapacità statunitense di superare avversari tecnologicamente meno attrezzati. I tecnici balistici russi che assistevano Saddam Hussein, riuscirono a colpire con i loro missili Scud (in pratica dei V2 della seconda guerra mondiale) sia Israele che l'Arabia Saudita. Nell'ultimo giorno di guerra un missile si abbatté su una caserma americana di fronte all'albergo dei giornalisti "occidentali", che, almeno per quella volta, non poterono fare a meno di riferirlo.
Eppure l'impennata dei prezzi del petrolio dovuta alla guerra risultò mortale per l'Unione Sovietica, poiché la neonata Gazprom, grazie agli introiti ed alle prospettive di nuovi affari, riuscì a disfarsi di Gorbaciov.
Le politiche attuali dell'imperialismo USA si basano dunque sulla speranza che oggi in Russia il partito degli affari, pur di salvare gli affari, sia disposto a liquidare la stessa Russia come Paese unitario, per spezzettarlo in tante "Arabie Saudite" gestite da cleptocrazie locali. Il regolamento di conti tra Gazprom e le forze armate non sarebbe così scontato, e potrebbe assumere i contorni di una guerra civile.
Dal 2007 infatti Gazprom è una vera forza militare. Nel 2010 questo esercito privato era già pervenuto a dimensioni e ad un livello di armamenti considerevoli. La notizia della militarizzazione di Gazprom è pressoché assente nei media occidentali, forse perchè il fatto implica una conflittualità latente tra la stessa Gazprom e la ex Armata Rossa; una circostanza che contrasterebbe con l'immagine fasulla del Putin "zar" plenipotenziario che i media "occidentali vorrebbero imporre. I dati sull'evoluzione di Gazprom in esercito privato sono invece reperibili su siti di centri specializzati in studi militari.
Ma cosa ci fanno tutti questi detenuti a poltrire nelle patrie galere, alloggiati e nutriti a spese del contribuente?
Il programma "Report" ha posto la spinosa questione offrendo, come al solito, soluzioni che sembrano retoricamente improntate ad un sano buon senso organizzativo; ma dietro una facciata persino "progressista", vengono proposte strategie che, quando realizzate, fanno la gioia delle cosche d'affari più criminali.
Il capitale finanziario ha scoperto, ad esempio, che le carte di credito, i sistemi di pagamento elettronico, i bancomat sono eccellenti metodi per lucrare su qualsiasi pagamento o transazione, oltre che strumenti per indurre quell’indebitamento che consegna chi ne fa uso alle cosche del recupero crediti e lo dispone alla mentalità schiavile di vendersi a qualsiasi prezzo.
"Report" giunge allora tempestivamente a spiegarci che i pagamenti elettronici evitano i furti di contante ai pensionati all’uscita della posta, costringono lo scapestrato venditore di caldarroste a lasciare finalmente traccia delle sue transazioni, e l’evasione fiscale scompare come d’incanto. E all’estero tutto questo è già realtà; mentre da noi…in Italia…
Nel libro dei sogni (sempre più reali) del capitalista non c’è solo quello di individui indebitati a vita, costretti a lavorare a salari da fame; c’è anche quello di operai che lavorino gratis, che debbano essere contenti di farlo, che non scioperino, che non possano protestare e che, all’occorrenza, possano essere adeguatamente puniti.
E allora che succede? Un’inchiesta "rigorosa" di "Report" ci spiega che solo in Italia i detenuti stanno lì a girarsi i pollici e - a parte qualche lodevole progetto pilota -, costano al contribuente ben quattromila euro al mese; poi, quando escono, se escono, visto che hanno poltrito, non sono proprio degli aspiranti a qualche cattedra universitaria. L’inchiesta poi ci porta all’estero per spiegarci - con lo stucchevole autorazzismo che contraddistingue "Report" - che invece lì (in Austria, e soprattutto nei mitici USA) i detenuti sono felici di poter lavorare, ristrutturano e abbelliscono sapientemente le loro prigioni, imparano mestieri e acquistano competenze che saranno utili per il loro reinserimento sociale, non sono a carico del contribuente, e semmai restituiscono qualcosa "alla società"; i loro prodotti sono così apprezzati che, quando escono, le aziende fanno a gara per assumerli. Una situazione idilliaca. *
Forse Milena Gabanelli dovrebbe chiedersi come mai in Italia le carceri ospitano all’incirca una persona su mille (percentuale che già mette i brividi), mentre negli USA i detenuti sono quasi l’un per cento della popolazione, visto che la cosiddetta "popolazione carceraria" ha raggiunto di recente la spaventosa cifra di due milioni e trecentomila individui. Altro che Gulag! E altro che reinserimento sociale.
In realtà il meccanismo delle prigioni USA - perverso come ogni meccanismo detentivo, ma più perverso di tutti - è fondato sulla privatizzazione della maggioranza degli istituti di pena; il detenuto viene incentivato (in una prigione vuol dire "costretto") a lavorare per ottenere sconti di pena (davvero irrisori) ed un salario (fino a poco tempo fa si trattava di ventitré centesimi l’ora) calcolato dopo aver sottratto le spese per la detenzione, eventualmente quelle del processo, e il profitto per l’azienda esterna. Appare evidente che le aziende esterne sgomitino per avere la possibilità di sfruttare operai così docili e così a buon mercato; ma è chiaro anche che da parte della gestione privata della prigione, così come da parte delle aziende "collaboratrici", non vi è nessun interesse a "reinserire nel sociale" il detenuto; anzi, più ne arrivano, meglio è, con gli ovvi risultati di progressivo aumento della popolazione carceraria. La volontarietà, in un simile contesto, è assolutamente immaginaria; un noto magistrato intervistato da "Report" diceva che chi non lavora in prigione è chiaramente contro lo Stato; insomma il lavoro forzato potrebbe diventare presto una realtà "legalmente" estorta con il terrorismo psicologico, e speriamo solo con quello.
Anche l’ultima inchiesta di "Report" si sforza di rendere credibile uno dei miti più classici del capitalismo USA, cioè il capitalismo diffuso e popolare; oggi consisterebbe nella possibilità di fare soldi a palate avendo solo una buona idea che in rete troverebbe i finanziamenti necessari; e via con le fiabe sugli start app, crowdfunding, crowdsourcing, ecc.; tutte cose che naturalmente nella pigra Italia stentano a decollare, mentre all’estero…
Già molto tempo fa, Groucho Marx aveva ironizzato sul capitalismo popolare e sulla possibilità di fare soldi per il comune cittadino semplicemente investendo in borsa. Un certo giornalismo lobbistico è ancora addetto a raccontarci queste fiabe: le inchieste di Milena Gabba Merli, ad esempio.
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