Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Salah, l’attentatore di Parigi, viene catturato praticamente a casa sua. I sagaci analisti notano la somiglianza con quanto accade con i boss mafiosi, che diventano primule rosse standosene tranquillamente a casa loro. Come i mafiosi, anche i terroristi preferirebbero rimanere in un territorio a loro familiare che li protegge; ed è così che diventerebbero imprendibili per la polizia. L’esempio mafioso forse non era dei più felici, visto lo storico scambio di favori tra mafiosi e inquirenti; ma gli analisti sono fiduciosi che il
generale Mori alla fine la farà franca per il peccatuccio di aver “omesso” la cattura del boss Provenzano.
Salah intanto ha deciso di collaborare. Il terrorista sanguinario, il pazzo fanatico, diventa una fonte di informazioni preziose. Ma l’informazione preziosa la dà in realtà la polizia, che ha comunicato immediatamente la cattura di Salah ai suoi complici. Per Salah solo due interrogatori di un’ora ciascuno. Si vede che non sapevano cosa chiedergli. Nasce anche un piccolo caso giornalistico sulle lacrime di Salah. Avrebbe pianto dopo un interrogatorio? Avrebbe pianto durante la fuga? Avrebbe pianto? Boh!
In alcuni commentatori sorgono dubbi sulla professionalità della polizia belga e sulle capacità della sua “intelligence”. Non per giustificare i poliziotti belgi, ma anche loro, probabilmente, come già il generale Mori, hanno solo obbedito ad ordini superiori.
In altri commentatori sorgono dubbi addirittura sullo Stato belga: non sarà mica uno “Stato fallito”, un “failed State”, secondo il lessico neocolonialista? Il Belgio infatti non si sarebbe dimostrato capace di integrare gli immigrati islamici.
Non mancano però i commentatori pronti a correre in soccorso del Belgio. No, il Belgio non è un “failed State” perché ha saputo integrare gli immigrati. Anzi, li ha integrati troppo, perché pare che gli attentatori fossero tutti figli di papà, che ad una vita borghese hanno preferito l’ascesi islamico-terroristica, al punto di diventare kamikaze. Non ci si spiega perché poi adottare la tecnica kamikaze, visto che i bersagli degli attentati erano inermi. Ma tant’è.
Compaiono sulla CNN le foto di Salah che se la spassa in discoteca insieme con il fratello. Si affacciano dubbi sul rigorismo islamico di Salah; ma forse stava solo recitando la parte dell’islamico “moderato”. Intanto si celebra l’ennesimo anniversario dell’avvio dell’annosa ed appassionante diatriba: esiste un Islam moderato? La domanda potrebbe anche essere rovesciata: esistono dei giornalisti che non siano dei facinorosi?
I media ci mostrano le foto di un ragazzo che, da un campo profughi, innalza un cartello: “Sorry for Bruxelles”. Falsa o autentica che sia la foto, il messaggio è chiaro: in mezzo alla pioggia ed al fango, i profughi devono discolparsi ancor prima di mettere piede in Europa. Ma non ci sono solo i profughi. I media tornano alla carica mettendoci in guardia: il nemico è interno, ed i terroristi sono nelle nostre periferie. E non solo nelle periferie. Come ci viene ricordato da qualche anno, c’è anche
il “terrorista della porta accanto”.
Qualche analista particolarmente ardito e spregiudicato arriva a rinfacciare ai Paesi islamico-sunniti le loro “ambiguità” nei confronti dell’ISIS/Daesh. Ci si riferisce forse alla pioggia di finanziamenti che provengono all’ISIS da Arabia Saudita, Qatar e Turchia? Certo, rimarrebbe da spiegare perché mai l’ISIS ce l’avrebbe tanto con il cosiddetto “Occidente”? Dove sarebbe mai l’ISIS senza il soccorso “occidentale”? Non è stato proprio l’Occidente a far fuori i principali nemici del fondamentalismo islamico, cioè i leader arabi laici come Saddam Hussein e Gheddafi? E non è ancora l’Occidente quello che si ostina a far mancare il terreno sotto i piedi all’altro super-nemico di ISIS, cioè Assad? Sino a prova contraria è stata la Russia a rimettere in carreggiata Assad e ad aver bombardato l’ISIS.
Finché i bombardamenti in Siria li facevano solo gli USA e Israele, l’ISIS e la sua omologa Al-Nusra guadagnavano terreno. Chissà perché, direbbe Vasco Rossi.
Altri analisti si lanciano nei consueti sillogismi. I terroristi attentano alle nostre libertà, perciò per combatterli saremo costretti a rinunciare a un po’ delle nostre libertà.
Altri ancora alzano il tiro. Il vero bersaglio dei terroristi non era il Belgio ma l’Unione Europea, dato che a Bruxelles c’è la sede dell’UE. Se è per questo, a Bruxelles c’è anche la sede della NATO, anzi quella nuova
sede/scandalo, i cui costi sono lievitati oltre il miliardo di euro, come se fosse un Expo qualsiasi, tutto ciò per la gioia dei Travaglio nord-europei.
La NATO ci tiene a far sapere che tra i suoi compiti istituzionali c’è proprio la lotta al terrorismo, perciò nel 2001 Bush ottenne l’appoggio della NATO per invadere l’Afghanistan.
Anche la NATO avrà
la sua “intelligence”. Come mai non si era accorta di nulla? Anzi, come mai i terroristi non si sono accorti che a Bruxelles c’è la NATO? O non sarà mica il quartier generale della NATO, quel quartiere in cui i terroristi si sentono così tanto a casa loro? Il terrorista della base NATO accanto.
Lo scorso anno il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi ha rischiato seriamente la santificazione.
Molti commentatori, da Eugenio Scalfari a Toni Negri, hanno contribuito a questo tentativo di elevazione alla gloria degli altari, sciogliendo laudi ai “quantitative easing”, cioè agli acquisti di titoli di Stato e di titoli bancari da parte della BCE. Ciononostante il mito di Draghi continua a perdere colpi. Anche se i supporter di Draghi incalzano gli scettici mettendoli in guardia contro i nefasti demoni del nazionalismo e del “sovranismo”, si fa strada l’idea che nazionalismo e “sovranismo” non c’entrino proprio nulla e che si tratti semplicemente di buonsenso.
Il sospetto che Draghi ci stia prendendo per i fondelli è infatti basato sulla constatazione delle sue contraddizioni. Da un lato Draghi rivendica di aver fatto la propria parte per evitare la stagnazione dell’economia e dei prezzi, dall’altro lato egli persiste ad “invitare” i governi europei a
fare le “riforme”, cioè provvedimenti che vanno inevitabilmente proprio nel senso della stagnazione e della deflazione. Ma le riforme non sono già state fatte? Sì, ma erano quelle riforme lì, ed invece bisogna ancora fare quelle riforme là. Le riforme non finiscono mai.
Negli ultimi tempi le critiche nei confronti del sistema euro hanno acquistato in lucidità, ed alcuni dei commentatori più incisivi non considerano più il problema euro in termini europei ma “atlantici”. Che l’euro si regga ormai esclusivamente per volere della NATO, cioè degli USA, è un’evidenza che comincia a fare proseliti. La conseguenza è che i critici dell’euro sperano che le alte sfere del potere USA prendano a considerare l’ipotesi che i costi per loro del sistema euro rischino di diventare troppo alti, e quindi si consenta uno svincolo non traumatico dalla disciplina monetaria europea.
In realtà, visto che l’euro viene fatto sopravvivere per compattare in funzione anti-russa quei Paesi europei che avrebbero il maggiore interesse ad un organico partenariato commerciale con la Russia, è proprio al fronte russo che occorre guardare per capire le prospettive.
Se la stagnazione economica causata dall’euro dovesse far cadere ulteriormente i prezzi del petrolio, il potere di corruzione di Gazprom sarebbe ulteriormente ridimensionato, quindi si farebbe concreta l’ipotesi di un colpo di Stato da parte di quei militari russi ormai stanchi delle mezze misure di Putin (sì, mando le truppe in Siria, ma ora le ritiro, ecc.).
Se la minaccia di un colpo di Stato militare in Russia prendesse corpo, forse allora, e solo allora, si vedrebbe qualche cedimento anche nell’oligarchia USA, poiché la Russia non può essere sconfitta attraverso uno scontro militare diretto ma solo con l’erosione e l’accerchiamento. Sino ad allora non c’è da aspettarsi sussulti di compassione da parte statunitense; semmai il contrario.
Forse è prematuro stabilire correlazioni tra la cronica stagnazione europea e gli attentati di Parigi e, da ultimo, di Bruxelles di martedì scorso. Sta di fatto che sarebbe impossibile gestire una lunga stagnazione e la manomissione dei conti correnti dei risparmiatori senza una militarizzazione del territorio e senza una criminalizzazione preventiva degli oppositori dell’Unione Europea, dato che, secondo la fiaba ufficiale, solo il processo di unificazione europea potrebbe contrastare il terrorismo.
L’islamofobia ed il razzismo costituiscono inoltre degli efficaci “richiami della foresta” in grado di rimettere in riga quelle formazioni di destra, come la Lega Nord, che in questi mesi si erano impegnate in una informazione economica piuttosto puntuale sulle truffe del “bail in” e del “quantitative easing”. Anche la spina nel fianco dell’informazione anti-ufficiale su internet potrà essere rimossa grazie all’altra fiaba oggi in voga, quella sugli adolescenti che si convertono all’Islam in versione ISIS/Daesh sul web.
A conferma che il terrorismo a qualcosa serve, e servirà, negli USA da tre anni si è affermata la dottrina di un ex segretario al Tesoro USA, Larry Summers, che vede all’orizzonte addirittura una “stagnazione secolare”. Parlare di Larry Summers significa fare diretto riferimento alla recente storia russa, poiché egli è l’uomo che, prima da dirigente della Banca Mondiale poi da segretario al Tesoro dell’amministrazione Clinton, gestì insieme con il presidente russo Eltsin la transizione dal socialismo reale al capitalismo.
Le misure “economiche” di Summers assunsero i connotati del genocidio, causando in Russia il crollo della vita media e della natalità. Milioni di russi sono morti precocemente, o non sono nati affatto, a causa di Summers. Quando Summers parla di stagnazioni secolari si vede che se ne intende, poiché ha dimostrato sul campo di essere bravo a produrre miseria; tanto più che egli è il tipico uomo-ovunque: Harvard, Goldman Sachs, Banca Mondiale, segretario al Tesoro, oggi a capo del National Economic Council nell’amministrazione Obama.
L’ipotesi della stagnazione secolare, anche se non celebrata esplicitamente a causa dei suoi esiti spaventosi, viene però presentata in termini così vivaci da farla sembrare proprio un desiderio più che un timore da parte dell’oligarchia USA.
La stagnazione sta infatti indebolendo sempre più il lavoro, sta rallentando l’economia cinese e degli altri “BRICS”, e sta accelerando i processi di concentrazione della ricchezza nelle mani delle multinazionali occidentali.
Forse la “crisi” non è poi così male per tutti, e perciò si spiega l’intenzione di farla proseguire il più possibile.