Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La Commissaria UE alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, nello scorso anno ha inflitto alla multinazionale Apple una multa di tredici miliardi per elusioni fiscali in Irlanda. L’inflessibile virago nordica si è però già piegata accordando alla Apple una dilazione nel pagamento, il tempo necessario alla multinazionale per giungere all’esito del suo ricorso senza sborsare un soldo. Al ricorso della Apple si è accodato infatti il governo irlandese, che ha accusato la Commissione Europea di ingerenza nella propria sovranità. Il governo irlandese rivendica il diritto di scegliere liberamente da chi farsi truffare, offrendo così una personale versione del “sovranismo”. La “Tigre Celtica” può infatti vantare stratosferici incrementi del PIL con il trucco della registrazione in Irlanda dei brevetti delle multinazionali. A questa finta crescita corrisponde una stagnazione dei redditi dei cittadini.
Meno male che Donald c’è. Alla presidenza USA è arrivato il nuovo idolo dei “sovranisti”, CialTrump, l’uomo dei dazi, il castigamatti delle multinazionali che delocalizzano la produzione nei Paesi a costo del lavoro più basso e la sede sociale nel Paese con le tasse più basse. Nello scorso novembre CialTrump ha addirittura “minacciato” la Apple e le altre multinazionali di offrire loro sgravi fiscali (sic!) nel caso tornassero a fare investimenti negli USA.
Impaurita, o commossa, da tanta generosità, la Apple ha promesso di investire sette miliardi negli USA. Poca cosa se si considerano i profitti della multinazionale, la quale, in base ai dati ufficiali, avrebbe accumulato una ricchezza, al netto dei debiti, di oltre duecento miliardi di dollari. Ci si chiede come faccia la presunta creatura di Steve Jobs a produrre tanti profitti. Il segreto sta nel trovarsi sempre al posto giusto ed al momento giusto quando si tratta di riscuotere denaro pubblico. Nel 2015 la Apple, con altre multinazionali, ha ottenuto finanziamenti dal Pentagono per l’elettronica “flessibile”. A CialTrump sarebbe bastato minacciare la Apple di chiuderle il rubinetto di questi finanziamenti per ottenere molti più risultati; ma si sarebbe trattato di una misura anti-establishment e CialTrump fa parte dell’establishment.
Si è tanto favoleggiato sul garage di Steve Jobs, sta di fatto però che questi accordi col Pentagono consentono ad Apple di ottenere non solo soldi freschi dal governo, ma anche di conseguire i know how di elettronica di origine militare che le consentono di aggiornarsi tecnologicamente. E si tratta di tecnologie che sono state elaborate a spese dei contribuenti che sostengono il Pentagono. In altre parole, il denaro pubblico serve a finanziare una lobby insediata a cavallo tra il pubblico ed il privato, una lobby che occupa entrambe le posizioni con il meccanismo delle porte girevoli tra carriere nell’amministrazione pubblica e nelle multinazionali. A questo punto c’è persino da dubitare che la Apple sborsi davvero i sette miliardi per i promessi investimenti e non se li faccia invece dare dal governo.
L’equità fiscale come arma per ridimensionare le multinazionali appare quindi poco incisiva e molto fuorviante. Non a caso di questa illusione di moralizzazione fiscale dell’economia globale si è fatta carico quella centrale di intossicazione ideologica che è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), una emanazione del Fondo Monetario Internazionale. La via fiscale si è poi rivelata costosa e non remunerativa sul piano pratico. Il fisco italiano nel 2015 ha chiamato in giudizio la Apple per un’evasione di quasi un miliardo, salvo accordarsi per appena un terzo della cifra, ovviamente lasciando ai media il compito di presentare il tutto come una vittoria. I privilegi fiscali delle multinazionali sono in realtà solo la conseguenza del privilegio principale, cioè la corsia preferenziale per accedere al denaro pubblico.
A proposito di estorsioni di pubblico denaro, nello scorso anno ci si era illusi su una pioggia di posti di lavoro in Campania per un accordo renziano su presunti investimenti della Apple. I media si erano scatenati a rappresentare un futuro roseo di una Silicon Valley campana, sennonché si è scoperto che non si trattava di posti di lavoro, bensì di corsi di formazione, ovviamente finanziati con fondi universitari e regionali.
Il centro Apple di Portici è stato attrezzato coi soldi dell’Università Federico II, le apparecchiature elettroniche le ha fornite la Apple, le procedure e i software anche; gli studenti e i ricercatori sono italiani e lavorano gratis, con la speranza di trovare lavoro grazie alle referenze. Le nuove app che vengono prodotte (il malloppo) sono della Apple, che poi le registrerà come brevetti propri dove più le aggrada. Qualche giorno fa, al TG3, il rettore della Federico II ha dichiarato tutto soddisfatto che erano già state sviluppate numerose nuove app.
Quando si tratta di riscuotere soldi pubblici, alla Apple va bene non solo il danaroso Pentagono ma anche le povere Regione Campania e Federico II.
Il lobbismo interno a favore delle multinazionali usa la cosiddetta “formazione” come collettore di denaro pubblico ma, al tempo stesso impone l’ideologia della “formazione” per sviluppare nelle giovani menti un atteggiamento prono, una acritica e colonialistica aspettativa di salvezza da parte di soccorritori esterni, apportatori di presunte “competenze”. In tal modo si rendono i ragazzi disponibili a lavorare gratis in cambio di competenze che evidentemente essi già hanno, altrimenti il loro lavoro sarebbe inutile. Per invogliare ulteriormente i ragazzi ad accettare il rapporto schiavistico, ci si serve anche di campagne di disinformazione, basate su fonti anonime, incontrollate ed incontrollabili, a proposito di mitici guadagni degli stagisti nella Silicon Valley.
La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i Paesi del nord ed un’altra per i Paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea.
In realtà i Tedeschi sono scontenti dell’UE perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti PIIGS. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei Paesi UE più in difficoltà ed il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
Ma ciò non accadrà, poiché l’UE non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie. Gli USA sono stati determinanti nella nascita dell’euro e nella sua conservazione, poiché l’euro consente di compattare in funzione anti-russa Paesi che, come l’Italia, rischiavano di farsi risucchiare economicamente nell’orbita della Russia. Sino a qualche anno fa gli USA erano disposti a pagare il prezzo salato che l’euro comportava in termini di depressione dell’economia mondiale. Pare che non siano più disposti oggi, dato che le merci tedesche hanno invaso il mercato statunitense a causa della sottovalutazione dell’euro rispetto all’effettivo potenziale dell’economia della Germania.
D'altro canto il presunto "disimpegno" americano in Europa potrebbe davvero cambiare qualcosa? E' vero che gli USA non sono riusciti a mettere Putin all'angolo, che i costi dei loro impegni militari sono mostruosi, ma sembra esserci la necessità di una riorganizzazione della gerarchia internazionale senza la quale il "protezionismo coloniale" avrebbe qualche difficoltà. Senza una ostentazione di forza militare da parte degli USA, altri paesi potrebbero rispondere a loro volta col protezionismo. Certo è che l’UE e l’euro sarebbero travolti non tanto dai dazi ma da una svalutazione del dollaro che, per ora, non è arrivata.
Non sarebbe comunque la prima volta che gli USA distruggono ciò che essi stessi hanno creato perché non gli fa più comodo. Nel 1919 il presidente USA, Woodrow Wilson, impose la nascita della Jugoslavia per impedire all’Italia il controllo del Mare Adriatico. Per sostenere la sua posizione Wilson non esitò ad accusare l’Italia di imperialismo (per la serie del bue che dice cornuto all’asino). La stessa Jugoslavia negli anni ‘90 è stata poi distrutta dagli USA in concerto con la Germania e, grazie ad una notevole manipolazione mediatica, anche le “sinistre radicali” furono indotte a plaudire al “risveglio etnico” che dissolveva Stati che erano apparsi prima inamovibili.
Pur collocata dagli USA sul maggiore scranno della UE, la Germania non ha mai mostrato di credere realmente in questa costruzione. Nel 2003 tramontava l’illusione del governo francese di poter usare l’euro per acquistare direttamente materie prime sui mercati internazionali, poiché l’invasione USA dell’Iraq servì appunto a punire Saddam Hussein per il fatto che vendeva petrolio in cambio di euro invece che di dollari. Nello stesso 2003 il governo tedesco lanciò il piano Hartz per ridurre i salari in Germania. Il governo tedesco non si accontentava quindi del vantaggio che l’euro consentiva alle merci tedesche, ma apriva addirittura una corsa a comprimere il costo del lavoro in modo da accumulare il maggior surplus commerciale possibile.
Ciò indica che i governi tedeschi non hanno mai creduto alla sopravvivenza dell’UE e dell’euro; e che l’UE e l’euro, nati come armi da guerra contro la Russia, venivano usati dalla Germania anche per deindustrializzare il suo principale concorrente commerciale, cioè l’Italia, non a caso bersaglio preferito della Commissione Europea. La Germania non deve neanche affannarsi più di tanto per raggiungere il suo scopo, poiché ci pensa la lobby dello spread. La moneta “unica” è infatti un inganno. La moneta è composta di banconote e di debito pubblico, cioè di titoli del Tesoro: nel caso dell’euro le banconote sono controllate dalla Banca Centrale Europea, mentre i titoli del Tesoro sono ancora emessi dagli Stati, che però pagano interessi diversi. In questa tenaglia è stata stritolata la Grecia e si può stritolare l’Italia.
Risulta quindi fuori luogo la sorpresa suscitata dalla minaccia della Commissione Europea di mettere l’Italia in procedura d’infrazione per il famoso “zero virgola due”. La Brexit e CialTrump non hanno per niente indotto Juncker e colleghi a maggiore prudenza e buonsenso poiché la Commissione Europea, e l’apparato che la supporta, non si pongono affatto problemi di sopravvivenza dell’UE, ma ragionano esclusivamente in base agli interessi della lobby dello spread, cioè la lobby di finanzieri internazionali che esige alti interessi sul debito pubblico da Paesi che sono ancora in grado di pagarli, come l’Italia.
L’Unione Europea è un allevamento di lobbisti e costituisce il paradiso delle porte girevoli tra cariche pubbliche e carriere nel privato, ed il tutto è rigorosamente documentato da tempo, con dovizia di dettagli. La porta girevole che ha portato l’ex presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, alla dirigenza di Goldman Sachs dovrebbe costituire una preoccupazione urgente per tutti gli “europeisti”, i quali insistono invece a distrarci con voli pindarici. Ma gli europeisti non esistono, i lobbisti invece esistono, eccome. La delegittimazione delle istituzioni europee è tale che oggi la vera domanda che tutti si pongono è in quali multinazionali finanziarie concluderanno felicemente la loro carriera gli autori della lettera dello “zero virgola due”, Juncker e Moscovici.
A proposito di lobbisti mascherati, ci si è chiesti da più parti come si collochi l’ultima sortita del Super-Buffone di Francoforte in questo contesto di sfaldamento dell’UE. Mario Draghi farnetica di trecentoquaranta miliardi di euro di tangente da versare per permettere all’Italia di uscire dall’euro, quando ormai sarebbe evidente che è l’euro che sta uscendo dall’Europa.
La farneticazione del presidente della BCE contiene comunque un messaggio recondito, e cioè che la vita dell’euro dovrà perpetuarsi oltre la sua morte, con una scia di ulteriori sacrifici da imporre a lavoratori e risparmiatori.
La risposta immediata a Draghi dovrebbe essere quella di sottrarre il debito pubblico ai cosiddetti “mercati” (cioè la lobby dello spread) per usare i titoli del Tesoro solo all’interno, per effettuare i pagamenti della Pubblica Amministrazione e per mettere al sicuro il risparmio delle famiglie. Si tratta di una vecchia proposta, ripresa qualche giorno fa - non si sa quanto seriamente - anche dalla Lega. A rendere improbabile una tale misura di autonomia finanziaria non sono soltanto gli enormi rischi personali di chi dovrebbe adottarla, ma anche il fatto che lo spread e l’austerità si avvalgono di una lobby interna, tutta italiana, che lucra sugli alti interessi del debito pubblico, sul credito al consumo (e sul relativo recupero crediti), sul caporalato istituzionalizzato, sulle privatizzazioni e sull’intermediazione per la svendita all’estero dei patrimoni immobiliari.
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