Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
CialTrump si avvia ad insediarsi in quello stato di grazia per cui, qualunque fesseria egli faccia, può comunque trovare qualche commentatore pronto a scorgere nei suoi atti un qualche recondito progetto illuminato. È accaduto così anche per la scelta statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Risulta davvero puerile la giustificazione addotta a riguardo, cioè che tale riconoscimento metterebbe fine ad una “ipocrisia”. In realtà avere un riguardo per le altrui sensibilità e istanze non è ipocrisia, semmai lo è trattare gli altri da nullità e poi far finta che le reazioni siano dettate da suscettibilità o puntiglio. Quanto a cialtroneria, il premier israeliano Netanyahu ha dimostrato di non essere da meno del presidente USA, poiché, in
un finto “fuori onda”, ha accusato l’Unione Europea di indebolire l’unico Paese in grado di costituire per l’Europa un baluardo contro l’immigrazione. Quale ruolo possa svolgere Israele nel frenare l’immigrazione, non è chiaro; e non è chiaro perché un tale ruolo non esiste, visto che Israele ha contribuito invece a destabilizzare la Siria mettendo in fuga milioni di profughi.
Non sono mancati però coloro che vedono in questo atto sprezzante nei confronti di interlocutori e alleati il prodromo di un grande accordo di pace tra Israele e i Palestinesi. Gerusalemme capitale di Israele sarebbe il contentino necessario per indurre lo stesso Israele ad accettare uno Stato palestinese. Tutto è possibile, ma appare davvero strano avviare una trattativa concedendo preliminarmente l’eventuale merce di scambio.
Si ha l’impressione che le posizioni di CialTrump siano puramente propagandistiche e, per di più, di una propaganda all’insegna dei soliti schemi “Neocon”, cosa strana per un presidente che si era voluto spacciare per una novità. A questo punto tanto varrebbe affidare la politica estera USA a Giuliano Ferrara.
I soliti commentatori entusiasti vedono nell’elezione alla presidenza di CialTrump il segnale di un prossimo disimpegno degli USA da quell’area che gli Anglosassoni chiamano Medio Oriente e che per noi è Vicino Oriente. Tale disimpegno sarebbe motivato dal fatto che gli stessi USA si avviano a diventare autosufficienti sul piano energetico e non avrebbero più bisogno del petrolio arabo.
Ma “petrolio” non ha mai significato solo petrolio, bensì i soldi del petrolio. La questione principale infatti è sempre stata quella di riciclare nel circuito finanziario statunitense i proventi del petrolio, ed è questo il motivo dello stretto rapporto con il Paese finanziariamente più forte, ma politicamente più debole, dell’area: l’Arabia Saudita. La casa regnante saudita non è uno dei maggiori sottoscrittori del debito pubblico statunitense, ma è certamente il più grande investitore nel settore privato; e l’ultimo accordo con CialTrump per
un investimento saudita di duecento miliardi di dollari è giunto pochi mesi fa.
È assurdo che ancora si insista a sostenere che la causa dell’instabilità dell’area vicino-orientale sia il conflitto israelo-palestinese, quando è evidente che il vero problema è proprio quello delle petro-monarchie come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuwait. Si tratta di Stati senza una vera popolazione, quindi impossibilitati a reinvestire all’interno i proventi del petrolio. Questi proventi vanno quindi a finire nel circuito finanziario internazionale. L’Arabia Saudita e le altre petro-monarchie sono infatti state volute dalla lobby Rothschild, la stessa lobby che ha inventato lo Stato di Israele in funzione anti-egiziana, anti-siriana ed anti-irachena. Senza lo “scudo” israeliano le petro-monarchie sarebbero state fagocitate dagli Stati arabi dotati di una popolazione, i quali avrebbero reinvestito all’interno i proventi del petrolio, mettendo fine alla pacchia finanziaria del riciclaggio dei petro-dollari. Da qualche tempo i media parlano di un “asse” tra Arabia Saudita e Israele; in realtà questo “asse” era implicito già quando i due Stati sono stati fabbricati. A dire che Israele è un’invenzione Rothschild si rischia di passare da complottisti, ma quando lo dicono persino gli Israeliani è tutto normale, perché non fanno altro che celebrare un padre della patria.
Il nemico numero uno dell’Arabia Saudita però oggi è l’Iran e, manco a dirlo, è stato Bush figlio a far arrivare l’Iran a ridosso dell’Arabia Saudita consegnando l’Iraq alla maggioranza sciita e filo-iraniana; e, manco a dirlo, è stato proprio CialTrump a liberare nuovamente le mani all’Iran ed a restituirgli dignità di leadership mondiale. Questo bel risultato CialTrump lo ha ottenuto denunciando l’accordo con l’Iran firmato da Obama e Kerry. Quell’accordo era stato l’unico successo della politica estera di Obama ed alcuni commentatori lo avevano attribuito ad una sagace strategia di accerchiamento nei confronti dello stesso Iran. In realtà Obama e Kerry avevano “trovato” quel risultato solo per il desiderio dell’ala clepto-clericale e affaristica del regime iraniano di riallacciare i rapporti con gli USA. Oggi in Iran gli affaristi si trovano nuovamente messi all’angolo e per l’Arabia Saudita la situazione si fa sempre più oscura, specialmente dopo il disastro militare nella guerra contro lo Yemen. Ancora una volta le motivazioni di CialTrump nel rompere l’accordo con l’Iran, sono state propagandistiche, in base allo schema Neocon di considerare “pacifista” ogni atto delle amministrazioni democratiche.
Come sempre la politica estera USA si riconferma erratica, priva di saldi punti di riferimento; ma, se è erratica la politica estera, quella interna non lo è da meno. È stata infatti approvata
la “riforma” fiscale di CialTrump, questo nuovo manifesto dell’assistenzialismo per ricchi.
La “narrazione” sugli sgravi fiscali ai ricchi cerca di far credere che meno tasse per le imprese significhi per esse più possibilità di investire. A questo mondo c’è di tutto, quindi ci saranno anche imprenditori disposti a investire i risparmi fiscali nella produzione, ma la maggioranza delle imprese, come sempre, investirà nella finanza.
Il punto vero è che, per finanziare la “riforma”, sarà necessario aumentare il debito pubblico statunitense, quindi aumentare i tassi di interesse e, di conseguenza, rivalutare il dollaro. Per la finanza è un affare, ma significa anche che è in arrivo un’altra bella mazzata per le esportazioni e per la bilancia commerciale statunitense. E questo era il presidente che voleva rilanciare l’industria nazionale.
È chiaro che ciò aprirà nuovi conflitti commerciali con l’Europa. Le iniezioni di liquidità della BCE erano state sì efficaci, ma non perché avessero rilanciato investimenti produttivi e consumi, ciò a riprova del fatto che maggiore liquidità a disposizione delle imprese non significa più produzione ma più speculazione. I “quantitative easing” funzionavano soltanto perché determinavano una svalutazione dell’euro. Non a caso la ripresa europea, compresa quella italiana, è limitata ai settori legati alle esportazioni. La svalutazione del dollaro aveva riacceso le preoccupazioni in Europa, ma adesso è lo stesso CialTrump a porre le condizioni per restaurare il dollaro forte.
La gestione irresponsabile della politica USA, a colpi di teste di Trump, però non sembra compromettere il dominio statunitense, perché sono soltanto le pulsioni affaristiche ed il desiderio di complicità di “avversari” e alleati a puntellare l’imperialismo USA.
Dopo anni in cui i media ci hanno dato la croce addosso perché l’Italia non cresceva, vi è stata una breve pausa autocelebrativa in cui ci si è fatto sapere che si era ricominciato a crescere. Ma la celebrazione è durata poco, cioè finché si è potuto attribuire il merito della crescita alle “riforme strutturali”. Adesso che risulta chiaro che c’è stato un aggancio italiano alla crescita europea favorita dalle iniezioni di liquidità della BCE, le trombe mediatiche del “colpanostrismo” hanno ripreso a suonare per lamentare che in Europa la crescita è “robusta”, ma che l’Italia cresce “meno” degli altri partner europei. Ecco dunque una nuova colpa da espiare e nuove palingenesi da indicare, con annessi i soliti salvataggi” e relativi sacrifici.
Nell’ottobre scorso giungeva trionfalmente la notizia che
il PIL della Germania, su base trimestrale, segnava una crescita del 2,8%. Tale aumento portava le stime su base annuale nientemeno che al 2,2%. Roba da scialare. Se si va però a vedere meglio, si tratterebbe di un mezzo punto percentuale rispetto alle stime di crescita attribuite all’Italia. È vero che siamo il fanalino di coda, ma il distacco non è poi così marcato.
Solerti economisti da talk-show lamentano che l’Italia è in ritardo perché spreca risorse in sussidi a pioggia. A parte il fatto che un capitalismo senza sussidi statali si è visto solo in qualche fiaba liberista e mai nella realtà,
le statistiche ufficiali europee indicano che, nel campo dei sussidi a pioggia (al netto degli aiuti alle banche), tra i Paesi sviluppati il campione è ancora una volta la Germania, che spende a riguardo quasi quattro volte in più di quanto spende l’Italia. La Germania dunque elargisce tutti questi aiuti alle imprese per ottenere solo uno 0,5% di crescita in più rispetto all’Italia. C’è qualcosa che non va.
Sarebbe tutto più semplice se si ammettesse che, nonostante le iniezioni di liquidità, la stagnazione economica continua. Del resto i
dati recenti sull’inflazione europea confermano che non vi è alcuna ripresa della domanda, semmai un calo.
Ancora più semplice sarebbe ammettere che questa situazione di stagnazione persistente non dispiace a tutti, anzi, risulta piuttosto gratificante per le Borse. Quest’anno infatti Wall Street e Francoforte hanno segnato nuovi massimi storici. La liquidità con cui la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea hanno inondato i “Mercati” non va nella produzione ma in bolle speculative. Quindi
la stagnazione economica è funzionale alla finanziarizzazione.
Tutto è cominciato alla fine degli anni ’70, quando l’establishment è riuscito a bloccare la crescita dei salari. La caduta della domanda di beni rendeva sempre meno remunerativi gli investimenti nella produzione, perciò i capitali si spostavano verso la speculazione finanziaria. In più avveniva che, per poter accedere ai consumi nonostante il salario insufficiente, i lavoratori erano costretti ad indebitarsi, ad integrare i salari con i prestiti. Era un’altra porta spalancata per la finanza: la massiccia finanziarizzazione dei consumi. Dai bassi salari deriva la stagnazione, dalla stagnazione deriva il potere della finanza.
Sarebbe più semplice ammettere tutto questo, ma non lo si farà, in base alla regola sociale secondo cui ogni rendita di posizione viene strenuamente mantenuta finché non sia definitivamente consunta. È vero che qua e là sulla stampa di establishment comincia ad uscire qualche voce che riconosce il fatto che i bassi salari non sono solo la conseguenza ma soprattutto la causa della bassa produttività, ed un intervento in tal senso è giunto persino dal
settimanale londinese “The Economist”. Ma sono rondini che non fanno primavera.
Finché sarà possibile si continuerà a sostenere lo story telling mediatico della ripresa e dell’uscita dalla “crisi” e, per supportare ideologicamente la finanziarizzazione, si continuerà a ricorrere al discorso morale: “austerità”, “risanamento” delle finanze,
“sacrifici”. La mistificazione continuerà a reggersi sulla colpevolizzazione dei popoli, sulla criminalizzazione mediatica del costo del lavoro, delle pensioni e del welfare.