Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Tra le innumerevoli versioni che ci sono state fornite sulla morte di Sergio Marchionne, una delle prime riguardava una malattia tumorale dovuta al suo abuso di sigarette. La versione è stata poi smentita, ma è certo che nella biografia di Marchionne le sigarette hanno avuto un ruolo centrale e non solo perché le fumava. Uno dei dettagli più importanti del curriculum di Marchionne, la sua appartenenza all’official board della Philip Morris, non è mai stato evidenziato dai media.
A sostituire Marchionne nel ruolo di executive nel consiglio di amministrazione della Ferrari è stato nominato Louis Camilleri, il boss dei boss della Philip Morris. Nel gennaio dello scorso anno il nome di Louis Camilleri però appariva già nell’official board della Ferrari. Il fatto che l’azienda madre di Marchionne mettesse un piede all’interno del gruppo FCA non costituiva un segnale di fiducia verso Marchionne.
Nei confronti di Marchionne il metodo del “promoveatur ut amoveatur” è stato applicato nel modo più drastico, promuovendolo direttamente alla gloria degli altari. C’era però un inconveniente, cioè il fatto che Marchionne fosse già stato santificato in vita dai media otto anni fa. Come tutti i veri santi anche Marchionne aveva già una storia familiare di martirio (le “foibe”) e nella sua biografia non mancano neppure le “visioni”. Negli ultimi anni il termine "visionario" è stato sempre più utilizzato in un’accezione apologetica. Appena un amico dei potenti, un teorico delle aggressioni contro i deboli o un nemico dei lavoratori si affacciano sulla scena vengono subito nobilitati con l'attributo di "visionario". Per la santificazione (anzi, per la divinizzazione) non si aspetta neppure che lascino questa valle di lacrime. Così è stato ad esempio per Steve Jobs, per Casaleggio e per Marchionne. Possibile sognare mondi ancor più schiavistici dell’attuale? No, in effetti le “visioni” si riducono alla riproposizione dei soliti schemi di sfruttamento, sempre quelli.
La santificazione assunse anche aspetti grotteschi, quando una Confindustria insultata, umiliata e delegittimata da Marchionne si distinse come uno dei soggetti più attivi nella celebrazione dell’eroe di turno. Marchionne ebbe dalla sua parte non solo il governo, ma anche l’opposizione, con un Partito Democratico che lo salutò come il possibile “papa straniero”. Per rimuovere questo dato di fatto occorreva l’apporto di un mentitore di professione, uno zelota della mistificazione: uno a caso, Pietro Ichino. La storia andava riscritta presentando Marchionne come una vittima ed un martire dell’incomprensione da parte dell’ingrato Paese che stava salvando. A fare le spese della falsa ricostruzione è stato il quotidiano “la Repubblica”, accusato da Ichino di non aver fatto autocritica circa le incomprensioni dimostrate verso Marchionne e la sua “epopea”.
È probabile che “la Repubblica” si presterà al gioco dato che rientra nel suo ruolo di disinformazione; ma, per senso di giustizia, occorre precisare che il quotidiano è innocente dall’accusa mossa da Ichino. Nel 2010 e negli anni successivi “la Repubblica” diede un certo spazio alle posizioni critiche del sociologo Luciano Gallino, ma al mero livello di ospitare anche un’opinione diversa per rifarsi una verginità. La linea editoriale del quotidiano e delle firme di punta della sua pagina economica, come Alberto Statera, furono invece di plauso incondizionato alle gesta di Marchionne. Statera sciolse addirittura un entusiastico inno di lode al Marchionne giustiziere che rimetteva ordine nella “fabbrica anarchica” di Pomigliano d’Arco.
La tecnica di Marchionne e dei media al suo seguito fu quella dell’aggiotaggio sociale, cioè presentare tendenziosamente un quadro degradato e disastrato per giustificare le aggressioni antioperaie e glorificare i presunti “risultati” dell’ennesimo salvatore dell’Italia. Più la situazione era rappresentata a toni cupi, più avrebbe potuto rifulgere l’opera salvifica del taumaturgo.
La lucidità di Luciano Gallino consistette nel capire che il modello Marchionne non era soltanto iniquo socialmente ma che, dal punto di vista industriale, non portava da nessuna parte. È vero che il valore di Borsa della FCA è salito a dismisura, ma l’aumento di valore finanziario non corrisponde a valori industriali. E chi lo dice? Lo diceva qualche mese fa quell’acerrimo nemico di Marchionne e del capitalismo che è il quotidiano confindustriale “Il Sole-24 Ore”. Parlando dell’eventualità di una vendita della FCA a case automobilistiche sud-coreane, il quotidiano osservava che queste non avrebbero avuto nulla da guadagnare dal matrimonio quanto ad acquisizioni industriali e tecnologiche. Il vantaggio si riduceva all’acquisizione di marchi che hanno una popolarità ed un prestigio storici, cosa che avrebbe facilitato ai Sud-Coreani l’ingresso nel mercato europeo. L’appetibilità industriale di FCA si riduce quindi a ben poco.
I valori finanziari di FCA si sono dunque gonfiati per operazioni puramente finanziarie. Qualche malevolo potrebbe ipotizzare che FCA sia usata da Philip Morris per riciclare il denaro proveniente dalle sue attività inconfessabili. Attività di contrabbando che l’avevano collocata nel mirino dell’Unione Europea all’inizio degli anni 2000, prima che il lobbying della stessa Philip Morris facesse finire tutto a tarallucci e vino, con una multa ridicola.
Il dibattito sull’attualità o meno dell’antifascismo ha avuto un grande slancio dall’inizio di quest’anno. Seppur rappresentate in modo tendenzioso dai media, le posizioni a riguardo di due punti di riferimento mondiali del dibattito anti-establishment, Slavoj Zizek e Noam Chomsky, risultano particolarmente interessanti. Riassumendo in modo approssimativo le loro tesi, si ricava l’indicazione secondo cui il fascismo sarebbe un fenomeno storicamente tramontato e che la paura del fascismo viene utilizzata come spauracchio dall’establishment per rappresentarsi come un male necessario per evitarne di peggiori.
Chomsky sottolinea anche come l’antifascismo militante delle manifestazioni costituisca un’occasione per l’apparato repressivo per colpire il dissenso. In Italia ne abbiamo avuto recentemente una dimostrazione, allorché si è colta l’occasione di un episodio avvenuto durante una manifestazione antifascista per licenziare una maestra. Il caso della maestra Cassaro però va già oltre la sfera della semplice repressione e configura un quadro molto più problematico, che non è stato colto anche da quelli che la difendono.
Il dibattito è continuato sulla rivista “Micromega”, dove l’economista Emiliano Brancaccio ha messo in evidenza il rapporto causale tra politiche deflattive e sviluppo di movimenti di destra. Pur partendo da premesse molto diverse, Zizek, Chomsky e Brancaccio concordano però su una posizione: non appoggiare candidati e posizioni di establishment in nome del far fronte contro il pericolo fascista.
Prima ancora di finire su “Micromega”, la tesi secondo cui le politiche deflattive favorirebbero una rinascita del fascismo, era da tempo oggetto di discussione sulla rete. La tesi ha sicuramente un fondamento se la si applica al caso del nazismo negli anni ‘30, dato che Hitler salì al potere in Germania nel pieno di una situazione di deflazione/recessione con milioni di disoccupati.
La tesi è molto meno applicabile al caso del fascismo italiano, poiché fu proprio il governo Mussolini tra il 1924 ed il 1926 ad avviare una politica iper-liberista e deflattiva che culminò con la rivalutazione della lira, la famosa quota ’90. Il fascismo quindi è compatibilissimo con politiche deflattive e, per questo motivo, negli anni ’20 Mussolini fu santificato dalla stampa internazionale. Solo all’inizio degli anni ’30 Mussolini cambiò politica economica, servendosi di personale formatosi nella cerchia dell’ex Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti.
Tra gli anni ‘20 e ‘30 i fascismi si avvalsero sia dell’appoggio dell’establishment internazionale in funzione anticomunista, sia dell’esistenza di un apparato dello Stato già militarizzato per le esigenze della guerra di massa. Si era già fatto trenta ed i fascismi hanno fatto trentuno. Con la fine degli eserciti di massa sarebbe dubbio che un nuovo fascismo possa ripresentare le stesse identiche caratteristiche di militarizzazione sociale.
Ci si potrebbe domandare se il pericolo di un nuovo fascismo non sia un modo per non considerare il fascismo che già c’è, cioè il fascismo che è stato inglobato ed introiettato dall’attuale sistema di potere che lo ha trasformato in senso comune. In altre parole, i movimenti di destra sono oggi i soli ad avere un’agibilità politica poiché ogni altra prospettiva è stata preventivamente delegittimata e criminalizzata. Questo monopolio ideologico consente al fascismo di recitare tutte le parti in commedia, di stare sia dentro l’establishment che contro di esso. Il fascismo non ha neppure dovuto aspettare la deflazione e la recessione economica per tornare a fare il bello ed il cattivo tempo ed il veicolo di questo riciclaggio in grande stile è stato la NATO.
Dalla fine degli anni ’80 la “sinistra” ha voluto chiudere gli occhi: non ha voluto vedere il ruolo svolto dalle destre estreme nella caduta del Muro di Berlino e dei vari regimi dell’Europa dell’Est; ha lasciato santificare un personaggio come Vaclav Havel, formatosi negli ambienti dell’ex collaborazionismo nazista in Cecoslovacchia; ha plaudito al “risveglio etnico” in Jugoslavia sorvolando sul ruolo che in questo “risveglio” svolgeva il fascismo Ustascia. Molto prima di organizzare il colpo di Stato nazista in Ucraina, la NATO aveva già utilizzato i fascisti in tutte le occasioni possibili, a cominciare dalla rivolta d’Ungheria del 1956.
Non ci si è accorti inoltre che il Trattato di Maastricht del 1992 è totalitario, in quanto impone la deflazione come unica politica economica, fissando l’obbiettivo della stabilità dei prezzi, quindi niente aumenti salariali e nessuna espansione del welfare. La sinistra è stata messa in pratica fuori legge. È bastato infatti un provvedimento del tutto simbolico come il Decreto “Dignità” per far guadagnare al ministro Di Maio l’epiteto di “comunista”. L’accusa di comunismo oggi è tautologica, cioè delegittima esimendo del tutto dal dimostrare; e non c’è da sorprendersene dato che le varie campagne mediatiche sul “sangue dei vinti” e sulle foibe hanno trasformato l’anticomunismo in un valore prioritario rispetto all’antifascismo. Il caso del licenziamento della maestra Cassaro indica che esiste già un fascismo istituzionalizzato ed in atto, che implica un modello totalitario dei rapporti sociali: licenziata perché comunista.
La perpetuazione dell’ ideologia fascista in epoca post-fascista ed “antifascista” fu già messa in evidenza da Benedetto Croce durante i lavori della Costituente. Croce denunciava che, come nel fascismo, si continuava nel dopoguerra a considerare gli Italiani un popolo inferiore da avviare sulla via della redenzione. Parole profetiche, visto che l’Unione Europea non c’era ancora.
Ma questa continuità ideologica presenta anche degli esempi istituzionali abbastanza significativi come l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). Di recente il massimo esponente di questo istituto in una trasmissione televisiva si è esibito in un esercizio di tautologia affermando che non c’è bisogno di prove per considerare il presidente siriano Assad un criminale. È un criminale perché è un criminale.
Fondato nell’ambito fascista nel 1934, l’ISPI doveva costituire un laboratorio teorico dell’imperialismo italiano . Notevoli erano le affinità e le relazioni dell’Istituto con gli ambienti del regime in cui si elaborava la mistica fascista.
Il decalogo della mistica fascista
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