Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nei giorni scorsi l’autorevole agenzia ANSA ha prodotto una delle sue tante fake news attribuendo alla “guida spirituale dell’Iran”, l’ayatollah Khamenei, una dichiarazione in cui esprimeva il proposito di “distruggere Israele”. La “notizia” viene smentita già nel corpo dell’articolo, nel quale in realtà la dichiarazione di Khamenei si restringe all’osservazione che una distruzione di Israele non comporterebbe affatto una distruzione degli Ebrei. A questo punto c’è da dubitare anche della traduzione operata dall’ANSA o da chi per essa, andando a capire se effettivamente in quella dichiarazione Khamenei abbia mai pronunciato il corrispettivo persiano della parola “distruggere”.
Si è di fronte alla consueta infantilizzazione dell’opinione pubblica, allevata ad interpretare i contrasti internazionali in base alla contrapposizione tra buoni e cattivi. Se si ricorre ad una propaganda così rozza ed elementare risulta evidente l’intenzione di rafforzare la psicosi del “nemico”, addirittura di inventare i nemici. L’aspetto curioso è che l’Iran come potenza regionale è stato praticamente “inventato” dagli USA, quando nel 2003 decisero di eliminare il contrappeso regionale dell’Iran, cioè l’Iraq a dominanza sunnita di Saddam Hussein. In quel momento però la priorità per gli USA era quella di punire Saddam Hussein per i suoi propositi di sganciarsi dal dollaro e, soprattutto, per il fatto che reinvestiva in loco i proventi del petrolio invece di riciclarli nel circuito finanziario americano.
Dal canto suo Israele non è più un Paese davvero indipendente e ciò dal 1973, anno in cui fu salvato dalla sconfitta con l’Egitto dall’intervento statunitense, tanto che vi sono stati vari segnali di una presenza militare diretta degli USA ed anche di una presenza della CIA nello stesso Israele. Al di là dell’esigenza USA di tenere destabilizzata l’area del Vicino e Medio Oriente (oggi per gli USA c’è in ballo anche il lancio del business del suo petrolio di scisto), c’è però da rilevare che ben difficilmente Israele potrebbe permettersi una situazione di pace o di guerra non guerreggiata. La nascita di Israele si è basata su una contraddizione oggettiva. La grande minaccia per la sopravvivenza dello Stato sionista è infatti quella demografica, in quanto nel giro di una o due generazioni la popolazione israeliana si ritroverebbe molto più minoritaria di quanto già non lo sia ora. Solo uno stato di guerra permanente può consentire ai governi israeliani non solo di giustificare l’apartheid ma, soprattutto, di gestirlo materialmente. In tal modo risulta facile spiegarsi i ricorrenti quanto gratuiti attacchi a Gaza ed anche il bisogno di alimentare lo spauracchio della minaccia iraniana.
Esistono quindi contraddizioni oggettive che prescindono dalle volontà dei singoli e dei popoli. Anche la storica inconsistenza dell’europeismo sta proprio nella totale omissione delle vere questioni sul tappeto.
Oggi gli USA e la Germania si trovano in contrasto a causa della politica economica tedesca. Quando il presidente Clinton autorizzò Kohl ad attuare l’unificazione tedesca, sapeva che ciò avrebbe comportato una colonizzazione tedesca di tutta l’Europa dell’Est. Gli Usa proseguivano unilateralmente la guerra fredda per isolare maggiormente la Russia, quindi la dipendenza economica dell’Europa dell’Est dalla Germania avrebbe facilitato l’integrazione nella NATO dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia.
A “pagare” materialmente i costi del sub-imperialismo tedesco è stato chiamato in parte lo stesso popolo tedesco, che ha visto crollare i suoi redditi. La famigerata riforma Hartz non può essere considerata la causa della deflazione salariale tedesca, bensì un suo effetto. La vera causa è stata la concorrenza ai danni dei lavoratori tedeschi operata tramite le delocalizzazioni produttive nell’Europa dell’Est.
All’opinione pubblica tedesca si deve invece assolutamente far credere di star pagando per quei fannulloni del Sud Europa, altrimenti l’edificio coloniale all’Est potrebbe essere messo sotto accusa con tutti gli effetti negativi per l’equilibrio della NATO. Tutto il castello retorico dell’europeismo si rifiuta sistematicamente di confrontarsi con due dati di fatto: che l’unità europea è nata in funzione della NATO e che le esigenze della NATO tengono costantemente in fibrillazione l’artificioso edificio europeo.
La deflazione tedesca ed il surplus commerciale tedesco, che opprimono la sottomessa Europa del Sud, sono la diretta conseguenza del mandato americano nei confronti della Germania: colonizzare economicamente l’Europa dell’Est. Oggi gli USA contestano alla Germania di aver obbedito alle sue direttive o, quantomeno, contestano alla Germania gli inevitabili effetti di quelle direttive. Il ruolo crescente di potenza regionale della Germania preoccupa gli USA, che scorgono nel controllo continentale da parte della Germania il possibile embrione di una partnership con la Russia. Per non parlare poi dei massicci attivi commerciali della Germania nei confronti degli Stati Uniti.
Bisogna poi vedere quanto la Germania sia effettivamente in grado di adeguarsi ai nuovi desiderata statunitensi. La lobby della deflazione, ovvero la lobby dei grandi “investitori istituzionali”, supera di gran lunga i confini tedeschi; anzi è in gran parte identificabile nei fondi di investimento statunitensi. Questa lobby si è saldata col militarismo della NATO e questo intreccio militar-finanziario di guerra e carestia non può certo essere smosso da questa o quella azione della Germania. In una tale condizione di incertezza il governo tedesco si attiene agli ultimi ordini che è riuscito a comprendere e quindi accelera nella colonizzazione dell’Est e nell’inasprimento della deflazione, anche con l’istituzione del Fondo Monetario Europeo, che rappresenterebbe un vero e proprio tempio del culto deflazionistico.
L’apparente schizofrenia statunitense si spiega col fatto che l’imperialismo procede soltanto per schemi elementari di risposta agli stimoli e non per strategie dotate di un’ampia prospettiva. L’esigenza di isolare e destabilizzare il principale avversario di turno, determina la nascita di nuovi soggetti potenzialmente pericolosi per il dominio imperialistico. La Cina è stata “gonfiata” economicamente in funzione anti-russa proprio dagli USA attraverso l’imposizione della cosiddetta “globalizzazione”. La Cina, super-integrata economicamente con gli USA, viene però percepita adesso dagli stessi USA come una minaccia. Sta capitando la stessa cosa anche all’obbediente Germania. L’aspetto paradossale è che mentre la Cina aspira effettivamente ad un suo ruolo autonomo ed egemone, per lo meno in Asia ed in Africa, invece la Germania probabilmente non ci pensa affatto.
Che l’economia reale non possa basarsi sul “mercato”, dovrebbe risultare evidente. Da decenni il settore dell’acciaio è afflitto da una crisi di sovrapproduzione che lo rende non remunerativo, quindi un Paese che non voglia dipendere esclusivamente dall’incertezza delle importazioni, non potrebbe evitare la soluzione della nazionalizzazione, che consentirebbe di preservare le strutture produttive nella prospettiva del loro pieno utilizzo quando si rendesse di nuovo necessario.
Nel 2017 sembrò che la nazionalizzazione tornasse a rappresentare un’opzione praticabile nell’Unione Europea, quando il governo francese, per evitare che la propria industria cantieristica STX venisse acquisita dall’italiana Fincantieri, ne annunciò la nazionalizzazione. Si è scoperto poi che non era così: le trattative con Fincantieri sono continuate, sino ad un’apparente soluzione nell’ottobre scorso. Sennonché, pare per richiesta dello stesso governo francese, la Commissione Europea ha avviato un’indagine a carico di Fincantieri in nome delle regole anti-trust. Insomma, un vero pasticcio.
I Trattati dell’Unione Europea funzionano come quei dispositivi di traffico disseminati di divieti di accesso e sensi unici che riconducono sempre al punto di partenza. Chi è che si giova di questa situazione di paralisi e confusione?
Il caso Ilva presenta anch’esso dei paradossi abbastanza plateali e forse istruttivi. All’inizio dell’anno in corso la stampa annunciava che la multinazionale Arcelor Mittal, che aveva acquisito l’Ilva con uno strano contratto di fitto/promessa d’acquisto, stava incrementando gli utili e addirittura metteva da parte quattrocento milioni di euro da investire nell’Ilva.
Si viene a sapere invece adesso che Arcelor Mittal è in difficoltà ed una delle principali agenzie di rating condiziona la valutazione dei titoli azionari della multinazionale alla chiusura del capitolo Ilva. O ti liberi di Ilva o il rating crolla. Il valore azionario di Arcelor Mittal era aumentato per aver acquisito l’Ilva, ora ci dicono che il valore potrà aumentare di nuovo quando si sarà definitivamente disfatta dell’Ilva. Qualcosa non torna.
Per capirci qualcosa in più è sufficiente andare a vedere chi sono gli azionisti “istituzionali” di Arcelor Mittal. C’è anche la solita Goldman Sachs, ma il grosso è nelle mani di grandi fondi di investimento, apparentemente specializzati in finanziamenti all’economia reale, come lo statunitense Luminus Management.
La finanziarizzazione trasforma le imprese in titoli azionari ed in frodi borsistiche, in giochi al rialzo ed al ribasso ed il governo italiano ha offerto l’Ilva in pasto alla speculazione in nome della “soluzione di mercato”.
Certo, il caso Ilva presenta complessità particolari: c’è stato un intervento della magistratura e c’è anche una contiguità dello stabilimento con strutture militari della NATO, desiderose di espandersi a scapito dello stesso stabilimento. Ciò non toglie che i governi di ogni colore, al di là degli scatti retorici a vuoto, abbiano trasformato la crisi dell’Ilva in un’occasione di assistenzialismo per le multinazionali e per i loro azionisti “istituzionali”.
Dopo la prima guerra mondiale, Giovanni Giolitti pronunciò un discorso rimasto famoso sull’ingerenza dei Trattati internazionali, lamentando che all’epoca un governo non avrebbe potuto compiere i più semplici atti amministrativi senza l’avallo del parlamento, ma che lo stesso governo aveva potuto trascinare il Paese in guerra contro il volere del parlamento, semplicemente in base alla firma di un Trattato internazionale. L’Italia usciva “vincitrice” dalla guerra con le ossa rotte e con un indebitamento mostruoso con l’estero; un indebitamento che avrebbe determinato il perdurare dell’ingerenza straniera con la dipendenza dai prestiti esteri.
Dai tempi di Giolitti le cose si sono aggravate: i parlamenti ratificano i Trattati internazionali senza neppure leggerli e gli Stati sono diventati altrettanti Laocoonti nelle spire dei Trattati. Ma forse anche ai tempi di Giolitti ciò che appariva come “Stato” era solo capacità di spesa. Lo Stato è un’astrazione etico-giuridica che prende corpo solo attraverso la capacità di spendere. Ora si è tolta agli Stati la capacità di spesa perché “non ci sono i soldi” ed il risultato si è visto. A causa della perdita dell’autonomia monetaria e della caduta delle entrate fiscali dovuta alla deflazione, lo “Stato” dipende dagli “investitori”, quindi si è ridotto al nulla, non è rimasto neppure il simulacro giuridico. Anzi, ci si racconta che il ruolo dello “Stato” è diventato quello di sapersi rendere “attraente” per gli investimenti esteri. Dalla concezione hegeliana dello Stato come “ingresso di Dio nel mondo”, siamo passati alla concezione dello Stato escort. Ma forse persino il modello escort rappresenta un ideale irraggiungibile per lo Stato odierno, troppo impegnato ad autodenigrarsi ed autodelegittimarsi per potersi rendere attraente. Verrebbe quasi voglia di indirizzarlo ad un corso di autostima del dott. Raffaele Morelli.
Se non si idealizza il passato, ci si accorge però che anche ai tempi di Giolitti lo “Stato” si legava le mani da solo in ossequio ai feticci del pareggio di bilancio e del “gold standard”; ed anche ai tempi di Giolitti il ministro degli Esteri Sonnino e il Presidente del Consiglio Salandra, firmando il Patto di Londra, potevano trascinare l’Italia in una guerra al di sopra dei suoi mezzi finanziari, se non grazie ai provvidi capitali esteri, ai prestiti dei grandi “investitori” internazionali. Per ascendere al consesso delle grandi nazioni, l’Italia anche allora si indebitava con i mitici “Mercati”.
La Storia può essere analizzata sia in base alle continuità che in base alle discontinuità. In questo caso sono le continuità ad essere più interessanti. Anche nel 1979 l’Italia non poteva permettersi l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo, cioè in un regime di cambi fissi. L’unico modo per mantenere stabile il valore della lira era infatti quello di offrire alti tassi di interesse per i titoli del debito pubblico per aumentare la domanda di lire da parte dei “Mercati”. L’esplosione del debito pubblico degli anni ’80 ci è stata spacciata come un effetto del bengodi nazionale, invece rappresentava il costo dell’ascesa dell’Italia al paradiso europeo.
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