Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
A proposito del successo elettorale del sostenitore della “hard Brexit”, Boris Johnson, i media si sono ancora una volta sprecati in metafore gastrointestinali, analogamente al caso del cialtrone Trump, che pure aveva incassato due milioni di voti in meno rispetto alla sua rivale Clinton ed era stato eletto solo in base al sistema americano dei collegi elettorali di serie A e di serie B. La finzione mediatica impone di classificare gli spostamenti elettorali esclusivamente in base al voto di opinione, eppure nel caso inglese sarebbe molto più realistico pensare a passaggi di pacchetti di voto organizzato invece che a “movimenti di pancia” dell’elettorato. Il fatto che Jeremy Corbyn abbia perso anche in tradizionali feudi elettorali laburisti del nord, che pure avevano tenuto di fronte ai massacri liberisti di Tony Blair, confermerebbe l’ipotesi che nella vittoria di Boris Johnson sia intervenuta la manina soccorrevole dell’establishment, allo stesso modo in cui era avvenuto per il cialtrone Trump.
La mitologia sulla democrazia inglese rende difficile accettare che nella presunta “Patria della Libertà” funzionino meccanismi alla siciliana. Gli Inglesi però tra di loro certe cose se le dicono ed infatti l’Inghilterra può vantare il suo Leonardo Sciascia, cioè il suo narratore di mafia. Nella quadrilogia di romanzi “Red Riding Quartet” dello scrittore inglese David Peace (diventata una trilogia nella versione cinematografica), si parla esplicitamente del ruolo politico della mafia che domina il nord dell’Inghilterra, una mafia che controlla persino le forze di polizia locale. Dagli stessi romanzi si viene a sapere che quella mafia, almeno sino a qualche tempo fa, appoggiava elettoralmente esponenti del Partito Laburista.
Sarebbe molto più ovvio quindi supporre che sia l’oligarchia inglese, sia l’establishment che le sta attorno, restino convinti della validità della scelta della Brexit e siano determinati ad appoggiarla. Certe anglofilie dei “sovranisti” e certi loro inni alla democrazia britannica, sono perciò fuori luogo. Chi ha deciso di andarsene dall’Unione Europea non è genericamente il “popolo inglese”, bensì chi lo comanda. L’oligarchia inglese pensa da sempre in termini di potenza e quindi non può accettare che nell’Europa continentale si affermi una potenza egemone, che sia la Francia o che sia la Germania. È tutto da vedere se questo ragionare in termini di potenza imperiale abbia ancora un fondamento oggettivo, ma sta di fatto che soggettivamente per l’oligarchia inglese relazionarsi in questi termini, rappresenta un riflesso condizionato, un automatismo comportamentale. Bisognerebbe poi valutare quanto l’attuale egemonia tedesca rappresenti soltanto l’aspetto più esteriore e strumentale dell’edificio UE.
Per un’Unione Europea che si rappresenta come il migliore dei mondi possibili, la Brexit è un rospo difficile da digerire, perciò sino all’ultimo si è voluto credere ad una possibile marcia indietro e i media ci hanno propinato sino all’altro ieri la fiaba di un popolo inglese confuso e pentito. È chiaro comunque che l’Unione Europea non può fare a meno di mentire poiché, prima di rappresentare un’egemonia tedesca, è soprattutto un apparato di lobbying finanziario; ed il lobbismo comunica in termini esclusivamente pubblicitari.
Dal punto di vista del lobbying finanziario, l’Unione Europea è un pieno successo, poiché si è riusciti a subordinare molti Stati alla “disciplina dei Mercati”, cioè agli interessi di alcune multinazionali del credito. In questo senso gli insistenti paragoni tra l’Unione Europea e l’Unione Sovietica, paragoni rilanciati da esponenti della politica inglese, sono del tutto fuorvianti.
L’Unione Sovietica infatti mentiva in quanto costretta sulla difensiva, poiché percepiva il proprio fallimento; alla fine l’URSS è crollata per l’incapacità del Partito Comunista e dell’Armata Rossa di contenere l’assalto del lobbying commerciale all’interno. Un lobbying interno che nel luglio del 1989 riuscì a compattarsi e rafforzarsi al punto da imporre a Gorbaciov l’istituzione della multinazionale Gazprom. La coincidenza della data della fondazione di Gazprom con la caduta pochi mesi dopo del Muro di Berlino, non può essere casuale.
L’improbabile paragone con l’URSS, indica che l’Unione Europea riesce ancora a dissimulare moto bene i suoi veri scopi e, di conseguenza, i suoi successi camuffati da “errori”. Il sistema del lobbying pseudo-europeista stende la sua rete di menzogne e diversivi, costringendo i suoi più o meno improvvisati avversari a rimanervi impigliati.
Per anni la polemica politica si è accentrata sull’irrilevante questione del 3% di deficit di bilancio o sugli “zero virgola” del deficit e del debito, con relative procedure di infrazione/distrazione, mentre si preparava intanto un piattino come la “riforma” del MES. La stessa questione del MES non sfugge ai diversivi ed alle minimizzazioni, come se il tutto si riducesse all’esigenza tedesca di salvare Deutsche Bank. Si perde così di vista la funzione principalmente deflazionistica di questo nuovo “Fondo Monetario Europeo”.
Il dibattito politico e mediatico si appunta sull’eufemismo della “austerità”, che nasconde l’interesse della grande finanza al permanere della condizione di stagnazione economica. Da decenni ci si racconta dei vantaggi della moneta unica che avrebbe preservato dall’inflazione i salari ed assicurato per anni a Paesi come l’Italia dei bassi tassi di interesse. In realtà quei bassi tassi di interesse hanno favorito l’indebitamento, mentre la mancanza di inflazione ha preservato soprattutto il valore dei crediti delle multinazionali finanziarie nei confronti di Stati e di individui sempre più indebitati. Intanto i salari crollavano per vie diverse dall’inflazione, poiché la disoccupazione e le delocalizzazioni azzeravano il potere contrattuale dei lavoratori. La micidiale combinazione di bassi tassi di interesse e di bassa inflazione è il grande segreto che si cela sotto il manto della menzogna europea.
La ricorrenza dei cinquanta anni dalla strage di Piazza Fontana è stata l’occasione per la riproposizione dei temi ormai consueti, gli stessi temi a cui siamo stati abituati in mezzo secolo di confronto con quell’evento. La costante di quasi tutti i commenti è stata infatti la riduzione dell’analisi politica all’analisi giudiziaria. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha rilanciato il proposito di desegretare tutti gli atti relativi alla strage; lo stesso provvedimento già annunciato da Matteo Renzi nel 2014. Si è visto con quali risultati.
Eppure dovrebbe risultare evidente che l’esser riusciti a modificare il quadro giudiziario rispetto alla strage, l’aver ammesso che i colpevoli non erano i “rossi”, bensì dei “neri” in complicità con settori dei servizi segreti, non ha sortito assolutamente l’effetto di cambiare lo schema politico imposto immediatamente dalla strage stessa. Si trattava di quello schema emergenziale tramite il quale si costringeva il movimento operaio, cioè la forza di opposizione per eccellenza, a farsi carico, in nome del ”senso di responsabilità”, della difesa delle “istituzioni democratiche”.
Nel 1969 non c‘era ancora stata la caduta del Muro di Berlino, non c’era ancora il Trattato di Maastricht, ciononostante la politica si rivelava già una categoria subalterna rispetto ad altre. Vi erano già tutte le condizioni per il predominio non solo istituzionale ma anche ideologico della magistratura. La stessa magistratura che ha largamente contribuito a depistare le indagini sulla strage (sia con incriminazioni assurde, sia col trasferimento dei processi in lidi lontani), non ha mai perduto il ruolo preminente e riconosciuto di depositaria della missione di stabilire la “verità”. La verità giudiziaria è diventata abusivamente la verità politica, facendo perdere di vista che lo schema emergenziale imposto dalla strage è sopravvissuto ad ogni nuova ricostruzione dei fatti e ha consentito dapprima l’istituzionalizzazione e poi la neutralizzazione del movimento operaio.
A cinquanta anni dalla strage non si può infatti aggirare l’evidenza di un movimento operaio sconfitto perché costretto a farsi carico prima della difesa delle istituzioni democratiche, poi della crisi finanziaria e della difesa della lira tra il ’76 e il ‘78, poi ancora della difesa della democrazia di fronte alla nuova minaccia rappresentata dal brigatismo rosso.
L’emergenzialismo fu sperimentato in grande stile su scala europea nel 1973, con l’imposizione della “austerity” in base alle fake news sul blocco delle forniture di petrolio da parte dei Paesi arabi. Anche la Germania aveva sperimentato lo schema emergenziale negli anni precedenti, enfatizzando le imprese della RAF; ed anche in quel caso si assistette all’allineamento della socialdemocrazia e dei sindacati alle esigenze della difesa della “democrazia”. Le analisi sul regime tedesco del leader della RAF, Andreas Baader, erano in effetti molto lucide e puntuali, individuando quel regime come una sintesi di nazismo ed imperialismo USA. Le conseguenze che Baader trasse da queste premesse, furono però più religiose che politiche: un sacrificio di esponenti della giovane generazione per riscattare la vergogna dei padri; come se i “padri” non fossero prontissimi ad approfittare vergognosamente di quella ansia di riscatto per trasformarla nel suo esatto contrario in base allo schema emergenziale.
L’emergenzialismo non richiede particolare visione strategica da parte di chi lo adotta, bensì rappresenta l’automatica reazione delle oligarchie quando sentono minacciati, anche solo in parte i propri privilegi; perciò si fa saltare il banco per costringere tutti gli oppositori a farsi carico del caos che ne consegue.
Per effetto dello schema emergenziale il ruolo storico di opposizione della classe operaia, cioè fare da sponda e da referente per la redistribuzione sociale del reddito, è stato non solo perduto ma persino vilipeso e oltraggiato per poter adottare in alternativa la “concertazione”, anch’essa poi mandata in soffitta quando la classe operaia era ormai talmente indebolita da non aver più bisogno dei sindacati per controllarla.
La rivendicazione salariale veniva così subordinata ad un presunto “interesse generale”, alla cui ombra si potevano innescare i processi di deindustrializzazione e finanziarizzazione. Il debito pubblico diventava un’arma in mano agli industriali, i quali potevano disinvestire dalla produzione per investire in titoli di Stato. È la dinamica in base alla quale si spiega la sconfitta operaia del 1980 alla FIAT. Con la famigerata “Marcia dei Quarantamila” si strappava alla classe operaia anche quella che era considerata una sua prerogativa ed una sua roccaforte: la piazza. Giorgio Gaber cantava “c’è solo la strada su cui puoi contare”. Oggi anche la strada può invece diventare un luogo di menzogna sociale.
La caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica hanno impresso un’energica accelerazione ai processi di finanziarizzazione; ed anche la fine dei regimi del “socialismo reale” vide la piazza trasformarsi in un’arma della reazione, con i primi esperimenti di “rivoluzioni colorate”. C’era però un precedente ancora più antico di “rivoluzione colorata”: lo sciopero delle pentole in Cile di cinquantamila casalinghe contro il governo Allende nel 1971; un segnale che il colpo di Stato poi attuato del settembre del ’73 era già in preparazione da tempo.
Oggi in America Latina tutti i tentativi politici di mediazione socialdemocratica vengono attaccati attraverso la messinscena della rivolta dal basso. C’è certamente in queste operazioni un ruolo preminente del Dipartimento di Stato USA e delle sue ONG, ma occorre considerare che il caos è la naturale arma di reazione delle oligarchie.
Le sinistre europee si sono così integrate nello schema emergenziale da non aver più bisogno nemmeno della minaccia del caos per allinearsi. Sono sufficienti infatti emergenze del tutto fittizie e fasulle, tanto che basta lanciare sulla scena qualche personaggio assolutamente improbabile per riuscire a far gridare immediatamente all’emergenza democratica ed alla minaccia del fascismo o della sua versione mediatica corrente, cioè il populismo.
|