Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il fatto apparentemente nuovo nella crisi libica è l’ingresso plateale della Turchia di Erdogan nel ruolo di salvatore del governo Sarraj minacciato dalle milizie del generale Haftar. È improbabile che Erdogan non fosse già coinvolto da tempo nella vicenda del caos libico; ora però il dato assume il tono di una rivalsa storica, poiché la Tripolitania e la Cirenaica, prima di diventare colonie italiane nel 1911 col nome romano di Libia, erano province dell’impero turco Ottomano.
In Italia uno dei mestieri più futili e frustranti è quello di ministro degli Esteri e, non a caso, l’incarico è stato affidato ad un personaggio come Luigi di Maio, che ha la vocazione del parafulmine, del colpevole di professione. Adesso che avrebbe il compito di preservare gli interessi dell’ENI in Libia dall’offensiva turca, Di Maio si trova esposto ai mordaci commenti degli analisti di politica estera che si divertono a prenderlo per i fondelli. Prima gli si consiglia di agire di concerto con la mitica Europa, poi lo si ridicolizza dicendo che ha perso il suo tempo, visto che l’Europa non conta nulla; gli si contesta di puntare su un cavallo sbagliato come Sarraj e dopo gli si rimprovera di far
politiche dei “due forni” prendendo contatti con Haftar; e via di questo passo, a furia di consigli e sfottò.
Ciò che manca nei commenti mediatici è un minimo di valutazione realistica sui moventi dei principali attori. Se dopo otto anni dalla caduta di Gheddafi, la destabilizzazione in Libia non vede pause, c’è da sospettare che il caos faccia comodo a qualcuno.
I colossali investimenti statunitensi nel costosissimo petrolio ricavato dalla frantumazione delle rocce di scisto, potevano apparire del tutto antieconomici; ed in effetti, in condizioni di mercato stabili, lo sarebbero stati. La destabilizzazione delle tradizionali aree petrolifere come il Vicino-Medio Oriente e il Venezuela, con la conseguente incertezza cronica delle forniture, ha invece spalancato la strada al business statunitense del petrolio di scisto. Quest’anno per la prima volta dopo molti decenni, gli USA sono diventati
esportatori netti di petrolio. Si tratta del primo vero segnale positivo per la bilancia commerciale USA, il cui gigantesco passivo non era stato scalfito dalla pioggia di dazi del cialtrone Trump. Ovviamente i media ci raccontano che, essendo diventati energeticamente indipendenti, gli USA non sono più tanto interessati al Vicino e Medio Oriente. La realtà è l’opposto: gli USA hanno uno specifico interesse commerciale a destabilizzare tutte le aree petrolifere tradizionali.
C’è persino da avanzare qualche dubbio sulla sincerità delle preoccupazioni dei media italiani per le sorti dell’ENI in Libia. Nel 2011 i media nostrani furono compatti nel sostenere la destabilizzazione del regime di Gheddafi. Con la modesta eccezione di Vittorio Feltri (che pure negli anni precedenti aveva condotto una campagna di odio contro il “beduino” Gheddafi), l’appoggio alla guerra umanitaria in Libia fu unanime. Per mettere a tacere le “sinistre” e i “pacifisti” di ogni sfumatura fu sufficiente allestire un “dibattito” su MicroMega (se c’è stato il “dibattito”, allora si può digerire tutto). La neonata creatura di Corradino Mineo, Rainews24, si distinse per zelo nella propaganda anti-Gheddafi. Per aver espresso un’opinione dissonante, il povero Oliviero Beha si trovò ad essere ostracizzato dagli schermi Rai per tutti gli anni che gli restavano da vivere. In quel contesto di disinformazione anti-Gheddafi, ogni accenno agli interessi dell’ENI evocava semmai un passato di osceni e colpevoli compromessi col tiranno.
Il problema è che sebbene l’ENI, con i suoi oltre settanta miliardi di fatturato, sia la prima azienda italiana, è comunque per dimensioni di tre volte inferiore alla multinazionale francese Total. Rispetto alla britannica BP, l’Eni è addirittura più piccolo di cinque volte. Ciò spiega la mancanza di “soft power” dell’ENI, dato che è il potere dei soldi ad affascinare i media ed a condizionarne i giudizi, senza neppure bisogno che arrivino ordini dall’alto. Il concetto di “legge del più forte” è di solito frainteso nel senso che il più forte si imponga di forza, mentre invece il fattore da considerare è il conformismo. Ogni posizione di forza comporta una rendita di posizione, che consiste nel riscuotere gli spontanei consensi di chi ritiene suo interesse o suo dovere morale adeguarsi al volere dei potenti di turno.
Si è detto giustamente che è sempre stato l’ENI a dettare la politica estera italiana sulle questioni energetiche e, in effetti, gli accordi con la Russia e con la Libia furono condotti sia dai governi di Prodi che dai governi del Buffone di Arcore. Il punto è che davanti ad una pressione internazionale, l’ENI non è assolutamente in grado di allineare la politica, le burocrazie, la magistratura, le forze armate e i servizi segreti ai propri interessi. Dove la prepotenza ed il bullismo dell’Eni possono invece esercitarsi senza ostacoli è all’interno, come nel caso della povera Basilicata, depredata del suo petrolio senza nemmeno potersi avvantaggiare delle briciole. C’è da dubitare perciò che la vera priorità degli ultimi governi italiani sia stata davvero quella di tutelare gli interessi dell’ENI e non sia sempre quella di barcamenarsi tra le pressioni divergenti dei vari “alleati”. Anche nel 2011 tra le giustificazioni della partecipazione diretta dell’Italia all’aggressione contro la Libia, una delle giustificazioni fu la necessità di sedersi al tavolo dei vincitori per salvare gli impianti ENI; ma è molto più probabile che il vero movente di Napolitano e del Buffone fosse di non contraddire la NATO e gli USA. Il barcamenarsi tra spinte coloniali diverse può dare a volte la falsa impressione di scelte autonome da parte dei governi italiani; ma comunque si tratta di ingerenze esterne.
Si parla molto della competizione tra ENI e Total per la Libia; si parla meno invece del ruolo della BP. Sta di fatto che la presenza di truppe speciali britanniche delle SAS era stata segnalata in Libia ai primi di marzo del 2011. La vicenda fu minimizzata dai media per la buffa circostanza che gli uomini delle SAS erano stati
catturati da miliziani di Bengasi che li sospettavano di essere al servizio di Gheddafi; ma, al di là del piccolo incidente, questa presenza di truppe britanniche anticipava ciò che sarebbe avvenuto pochi giorni dopo, cioè l’avvio delle operazioni militari di Regno Unito e Francia contro Gheddafi.
A questo punto non ci si stupirà di scoprire che la BP è una delle multinazionali più addentro al business del petrolio di scisto negli USA. Dopo l’acquisizione dell’azienda petrolifera statunitense Amoco nel 1998, la BP è largamente presente nella produzione americana. Quest’anno la BP deve il suo
incremento nei profitti proprio al petrolio di scisto.
Stavolta anche il mainstream non ha potuto fare a meno di notare la coincidenza tra l’inchiesta giudiziaria nei confronti dell’ex ministro degli Interni Matteo Salvini per
il caso della nave Gregoretti e l’imminenza delle elezioni in Emilia Romagna, probabilmente decisive per le sorti dell’attuale governo. Per un Salvini in lento ma costante calo dei consensi nei sondaggi, è una manna dal cielo la prospettiva di occupare per i prossimi due mesi i giornali ed i talk-show nella parte della vittima che si fa accusatore, accreditandosi nuovamente come difensore dei Sacri Confini nei confronti di una pubblica opinione che invece già sospettava di essere stata da lui presa per i fondelli.
Per i 5 Stelle la situazione si configura invece difficilmente sostenibile. Per il suo rigorismo giudiziario sfoggiato nella circostanza, Luigi di Maio è stato accusato di voler sfogare i propri rancori personali contro Salvini, ma è un dato di fatto che Di Maio si trova nella scomoda posizione di chi sbaglia qualunque cosa faccia. Se Di Maio avesse coperto Salvini, sarebbe stato accusato di aver a sua volta qualcosa da nascondere nella vicenda Gregoretti; se avesse invece messo in evidenza che l’eccessiva tempestività dell’azione della magistratura è uno sfacciato regalo elettorale a Salvini, si sarebbe trovato in contraddizione con quel feticismo giudiziario che rappresenta uno dei tratti distintivi della linea politica dei 5 Stelle. Ai loro esordi i 5 Stelle furono bollati come “antipolitica”, quando invece si trattava di analfabetismo politico. Non era necessaria neanche una lettura ma una sbirciatina agli scritti di Montesquieu per rendersi conto che il giudiziario è potere politico a tutti gli effetti. Dove la legislazione non osa arrivare, ci pensa la giurisprudenza; non a caso sono state le sentenze e non le leggi a riconoscere, negli USA, alle multinazionali diritti analoghi e persino superiori a quelli delle persone fisiche. Pensare che la magistratura sia immune dalle pressioni delle lobby, è quindi peggio che un’illusione: è pura stupidità.
Grazie alle “persecuzioni” giudiziarie Salvini può persino permettersi di continuare impunemente a condurre
la messinscena della Lega camuffata come partito “nazionale”. Una sorta di fasullo “doppio” del partito costituito in mera funzione elettorale, che non tocca minimamente gli equilibri politici ed organizzativi della vecchia Lega Nord che, con il suo gruppo dirigente tradizionale, continua indisturbata a condurre la sua linea separatistica.
I finti nemici di Salvini persistono nel presentarlo come un “populista” (ma che vuol dire?) ed uno degli organi più addentro ai meccanismi della mistificazione, il quotidiano “il Foglio”, lo spaccia addirittura per
un avversario del liberismo.
La tecnica retorica utilizzata per sostenere la mistificazione è quella di mantenere i concetti di populismo e liberismo nella più totale indeterminatezza. L’articolista del “Foglio” arriva a dire che per molti “liberismo” significa genericamente ciò che non gli piace, senza però precisare cosa sia effettivamente il liberismo o, come si preferisce dire oggi con l’aggiunta di un inutile prefisso, “neoliberismo”.
Ognuno può avere la sua personale definizione di populismo oppure può fare tranquillamente a meno del concetto; ma per il liberismo non è così. A differenza dell’indistinto contenitore del “populismo”, il liberismo è invece un concetto preciso e consiste nell’illimitata circolazione internazionale dei capitali, che possono entrare e uscire liberamente da un Paese, con la possibilità di delocalizzare qualsiasi produzione. Uno si aspetterebbe che i capitali rompessero gli argini e i confini dilagando ovunque grazie soltanto alla loro incontenibile potenza. Ci si accorge invece che i capitali esteri vengono invitati, vezzeggiati dai governi con agevolazioni fiscali, protetti con leggi ad hoc, rimpolpati con sussidi in denaro pubblico, in base al consueto repertorio dell’assistenzialismo per ricchi. L’edificio teorico e propagandistico del liberismo si risolve praticamente in assistenzialismo per multinazionali. Anche l’Italia ovviamente ha il suo
ente assistenziale per multinazionali: l’agenzia governativa Invitalia.
Tutto questo apparato per poi accorgersi ogni volta che le multinazionali scappano col bottino lasciandosi dietro il deserto industriale. E allora quale forza politica sarebbe oggi pronta a sostenere che invece alla mobilità dei capitali occorrerebbe porre dei limiti?
Quale formazione politica o quale movimento di piazza o quale sindacato, oggi sarebbe disposto ad affermare che un afflusso di capitali esteri è per un Paese addirittura più insidioso e distruttivo di una fuga dei capitali interni?
Anche mettendo da parte i casi estremi e ridicoli dei sindacalisti innamorati delle multinazionali come Marco Bentivogli della FIM-CISL, la realtà è che nell’attuale sistema politico il liberismo non incontra nessun avversario e che la resa all’imperialismo delle multinazionali è totale. L’antiliberismo è solo una posizione di nicchia ed il liberismo si inventa falsi avversari in base al solito vittimismo dei potenti, che serve a giustificare con inesistenti resistenze i disastri provocati dalla mobilità dei capitali. Non c’è migliore alibi per il dominio che quello di spacciarsi come opposizione.