Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
In certi film di fantascienza si narra della catastrofe incombente per l’arrivo di un gigantesco meteorite o di un asteroide in rotta di collisione con la Terra; ma (guarda la fortunata combinazione) è stato appena inventato un missile, o qualche altro congegno, in grado di scongiurare il disastro. Nella vicenda della pandemia di Covid il film si è un po’ ripetuto. Non sarebbe stato possibile infatti affrontare i lockdown, e continuare a proporli ancora adesso, senza lo “smart working”, senza le videoconferenze, senza la didattica a distanza e, soprattutto, senza la diffusione a tappeto dello smartphone, che data da appena una decina d’anni. Prima della digitalizzazione diffusa, sarebbe stato impossibile, e impensabile, tenere in quarantena intere nazioni.
Una domanda allora può sorgere spontanea, cioè se si possa invertire il rapporto causa-effetto, ovvero quanto abbia inciso la rivoluzione delle forze produttive innescata dalla digitalizzazione nella scelta dei modi di fronteggiare la pandemia. Epidemie e pandemie ci sono, ci sono state e ci saranno; la questione è come gestirle.
La scienza non forniva risposte univoche a riguardo: c’erano medici che proponevano una gestione ordinaria della pandemia Covid ed altri che invece premevano per una gestione straordinaria ed emergenziale. I secondi per la verità apparivano un po’ in contraddizione con il loro status di “scienziati”, poiché negavano i progressi della scienza medica e dell’igiene pubblica di questi ultimi secoli, per proporre invece una soluzione medievale come la quarantena. La digitalizzazione ha quindi sortito un effetto regressivo, riciclando forme di irrazionalismo che sembravano definitivamente alle nostre spalle. La narrativa sulla nascita della nuova pandemia si è colorata così di immagini apocalittiche ed anche di iconografie gotiche, come quella dei mercati rionali della Cina, caratterizzati dalla losca promiscuità di uomini e pipistrelli.
I media hanno dato ovviamente molto più spazio e credito ai medici emergenzialisti ed alle loro suggestioni irrazionali. In Italia anche la politica ben presto si è accodata alla cordata dell’emergenza: prima le Regioni del Nord che hanno trovato un mezzo per rafforzare le loro istanze autonomiste/separatiste; e poi persino una Regione del Sud con un presidente particolarmente affetto da protagonismo. Il governo Conte bis, dapprima recalcitrante a proclamare il lockdown, poi si è gettato nell’impresa con entusiasmo crescente, incurante del crollo del PIL e della prospettiva di milioni di nuovi disoccupati.
Inizialmente isolata nella scelta avventurosa del lockdown, la bistrattata Italietta si è vista poi imitare da altri Paesi. Il fatto è che la digitalizzazione ha creato le condizioni per produrre una nuova arma per la guerra ibrida e a bassa intensità, utile sia per la guerra imperialistica, sia per la guerra di classe: il lockdown, appunto. Il primo ad utilizzare la nuova arma è stato il governo cinese, che se ne è servito per sedare la rivolta di Hong Kong; poi sono arrivati i separatisti del Nord Italia e il presidente francese Macron, che ha potuto così stroncare le proteste dei gilet gialli.
Figure un po’sordide, come quella di Bill Gates, lobbista sia dei vaccini sia del denaro digitale, hanno alimentato il sospetto che la pandemia sia stata il risultato di una pianificazione a vantaggio delle multinazionali farmaceutiche e del digitale. L’attività di mestatore di Bill Gates però potrebbe essere a sua volta inquadrata non come causa, bensì come effetto di uno spostamento dei rapporti di forza interni al capitalismo in favore del digitale.
Una multinazionale del digitale come Amazon ha visto crescere a dismisura i suoi profitti nell’epoca della pandemia. Lo spostamento massiccio di capitali di Borsa verso Amazon datava però a prima della pandemia, causando una crescita esponenziale del valore delle sue azioni. Questa concentrazione dei movimenti di capitale verso le multinazionali del digitale ha determinato un interesse diffuso degli investitori ad accelerare la digitalizzazione, per cui le coscienze degli operatori dei media e dei politici si sono adeguate ai nuovi rapporti di forza interni al capitale; quindi una quarantena di massa è diventata un’opzione praticabile, accettabile e immediatamente applicabile in funzione dei conflitti imperialistici e di classe, in base alla complementarietà e sinergia di guerra e business.
Non solo i capitali si muovono verso il digitale, ma anche i movimenti di capitale sono stati digitalizzati. I primi sistemi automatizzati di Borsa sono stati installati negli anni ’80. Nei decenni successivi i sistemi sono diventati sempre più rapidi e sofisticati. Attualmente gli investimenti azionari sono diretti e indirizzati da algoritmi che riproducono e anticipano le normali reazioni degli operatori di Borsa. Gli algoritmi vengono elaborati in base a criteri di psicologia comportamentale, prevedendo che gli investitori non agiscano razionalmente, bensì di riflesso, come i cani degli esperimenti di Ivan Pavlov. È davvero rassicurante constatare che la digitalizzazione abbia incorporato l’irrazionalità umana.
Nel medioevo l’invenzione della lettera di cambio consentì un’accelerazione dei movimenti di capitale, ponendo le basi della nascita e dell’affermazione della finanza moderna. Una lettera di cambio però viaggiava pur sempre alla velocità di un essere umano, mentre oggi la velocità di pensiero e di azione di un essere umano è surclassata di milioni di volte dalla velocità dei movimenti di capitale digitalizzati.
Mentre il primo lockdown è stato un rito collettivo di sottomissione, la prospettiva di un secondo lockdown sta già provocando una conflittualità sociale che coinvolge i soggetti condannati all’emarginazione ed alla disperazione. Viene da chiedersi se anche la repressione verrà digitalizzata.
I media mainstream si sono premurati di farci sapere che l’emergenza Covid è stata, ed è, una vera pacchia per le multinazionali del web. Ad esempio, la multinazionale della distribuzione Amazon si è avvantaggiata della messa fuori gioco del commercio tradizionale accumulando venticinque miliardi di dollari di profitti in più, un incremento che supera il PIL di tanti piccoli Stati. Come sempre, questo tipo di notizie sui ricchi che diventano sempre più ricchi, mentre i poveri sprofondano, viene fornito con un’evidente ambiguità.
Siamo in una fase storica in cui il senso critico nei confronti del potere è quasi scomparso, isolato in alcune “nicchie” screditate che i media usano per additarle al ludibrio dell’opinione pubblica come esempi di irrazionalità da cui tenersi alla larga. La ridicolizzazione del dissenso è solo il preliminare minaccioso della sua criminalizzazione, perciò il dissenso viene etichettato come negazionismo, complottismo e quindi, per proprietà transitiva, come antisemitismo e nazismo. Il dissenso è accettato finché finge di essere tale, si attiene a obiezioni marginali e non mette in questione la narrazione ufficiale. Le critiche più bene accette sono quelle sull’inefficienza e sull’inettitudine, basta che non si parli dei veri interessi in gioco. Mezzo secolo fa un episodio come la strage di Piazza Fontana suscitò invece dubbi e sospetti e fu percepito da gran parte dell’opinione pubblica come un attacco alle classi subalterne nel quale avevano agito sia soggetti interni che forze imperialistiche.
D’altra parte il clima anti-establishment del quinquennio 1968-1972 rappresentò appunto un’eccezione. Già nel 1973 passarono senza difficoltà due finte emergenze, cioè il “colera” di Napoli e le fake news sul blocco delle forniture di petrolio da parte dei Paesi arabi. Questa seconda “emergenza” giustificò il primo grande esperimento sociale di grave limitazione alla libera circolazione delle persone, in base alla solita retorica moralistica dei “sacrifici dolorosi ma necessari”.
Il vittimismo padronale accredita la fiaba di un capitalismo perennemente assediato da masse ribelli, avide e insaziabili, mentre la realtà è che l’opposizione politica e sociale è quasi sempre rimasta allo stadio episodico e transitorio. Anche i dati più stridenti possono essere assorbiti nella narrazione ufficiale, perciò arrivano le notizie sulle fortune delle multinazionali del digitale in epoca di Covid, senza che ciò susciti dubbi sulla natura di quest’emergenza e senza che quasi nessuno faccia due più due. Anzi, tutto ciò può diventare persino il veicolo di un latente messaggio “educativo” sull’ineluttabile, darwiniana, giustizia naturale: nei periodi difficili, i deboli devono soccombere mentre i forti si rafforzano.
La storia reale del capitalismo dice però il contrario. L’accumulazione e la concentrazione del capitale sono avvenute tramite processi di pauperizzazione forzata di gran parte della popolazione, in modo da eliminare la concorrenza e procurarsi forza-lavoro a bassissimo costo. A dispetto della retorica darwiniana, senza il sostegno della mano pubblica, quei processi di pauperizzazione delle masse e di concentrazione del capitale non avrebbero mai potuto realizzarsi, quindi la competizione di mercato non c’entra nulla. Adam Smith si era inventato la “mano invisibile del mercato” per distrarre dalla mano visibilissima dei poteri pubblici che derubano i poveri per assistere i ricchi. Sino al XVIII secolo molti “economisti” ammettevano tranquillamente che la povertà è assolutamente necessaria allo sviluppo del capitale; infatti nella storia del capitalismo i periodi di stagnazione e deflazione (le cosiddette “crisi”) prevalgono sulle fasi di sviluppo.
Il concetto di economia può rappresentare un’utile astrazione in funzione dell’analisi, ma rimane comunque un’astrazione. I veri soggetti in campo sono le lobby con i loro business. Il lobbying spesso non ha neppure bisogno di concertare nulla poiché sono gli stessi interessi affaristici a fare da punto di aggregazione. In questa fase infatti non si riscontra neppure una particolare conflittualità o concorrenza tra le multinazionali occidentali del digitale e le loro omologhe orientali, dato che sono tutte impegnate ad espandersi a spese degli operatori buttati forzosamente fuori dal mercato tramite i lockdown e tutte le altre pretestuose limitazioni alla mobilità delle persone che li hanno seguiti.
La criminalizzazione del dissenso, il vittimismo padronale, il binomio emergenzialismo-sacrifici, la deflazione, la pauperizzazione dei lavoratori e del ceto medio, l’assistenzialismo statale per i ricchi, sono tutti schemi comportamentali ricorrenti che rappresentano la normalità del capitalismo, anche se la narrativa ufficiale riesce a spacciare le poche eccezioni contrarie come se fossero la regola.
Alla normalità e quotidianità del capitalismo appartengono anche fenomeni come la commistione di interessi pubblici e privati (ipocritamente chiamata “conflitto di interessi”) e la cosiddetta “porta girevole” tra incarichi pubblici e incarichi nel privato. Il lobbying è il “movimento reale” (per dirla alla Marx) che supera non solo l’astrazione dell’economia ma anche quella dello Stato. Le lobby sono infatti trasversali al pubblico e al privato. Spesso l’indignazione e la denuncia per i casi di “porta girevole” tra pubblico e privato, come nel recentissimo caso di Pier Carlo Padoan, rappresentano anch’esse un modo ambiguo per far apparire come scandalo o anomalia ciò che invece è perfettamente consono alla logica del capitalismo, cioè la simbiosi tra apparati pubblici e interessi privati. C’è persino chi invoca nuove leggi contro la “porta girevole”, come se queste leggi non esistessero già, solo che non vengono applicate. Negli USA lobbying e porta girevole sono stati legalizzati, in Europa invece non ancora.
Il punto è che il lobbying non fagocita solo il potere politico ma anche la magistratura, altrimenti nel caso di Padoan ci si sarebbe già accorti che il Codice Penale, all’articolo 324, prevede il reato di interesse privato in atti di ufficio. Padoan, da ministro dell’Economia ha elargito miliardi pubblici per il salvataggio di Monte dei Paschi di Siena, ed ora l’ex ministro è approdato al consiglio di amministrazione di Unicredit, cioè la stessa banca a cui è stato offerto di rilevare MPS. Qui siamo ben oltre il semplice conflitto di interessi, ma per il momento a Padoan non è pervenuto neanche un avviso di garanzia.
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