Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il tema dell'aborto arriva in campagna elettorale e già si
è allestita la solita rappresentazione di alternative astratte
da talk show: "sacralità della vita" da un lato e
"libertà di scelta" dall'altro. In realtà, l'unica
alternativa davvero concreta riguarda da una parte l'aborto
pubblicamente assistito - che consente anche di prevenire gli aborti e
ridurli - e, dall'altra parte, un aborto lasciato in preda
all'affarismo privato, il quale ha tutto l'interesse a tenere il numero
degli aborti il più alto possibile. Questo è il motivo
per cui anche molte persone sinceramente contrarie all'aborto,
difendono l'attuale legge 194, proprio perché temono l'invasione
dell'affarismo su questo versante.
Il problema è che oggi il business dell'aborto si presenta in
termini molto diversi rispetto a quarant'anni fa: non è
più un affare di "cucchiai d'oro" cattofascisti, o di cliniche
svizzere, o di pionieri "progressisti" del metodo Karman. Le nuove
biotecnologie hanno trasformato gli embrioni e i feti, da scarto
biologico che erano una volta, in una materia prima indispensabile per
le multinazionali farmaceutiche. Mettere le mani su questa materia
prima è da almeno vent'anni per le multinazionali farmaceutiche
un imperativo che spiega anche l'ingresso sulla scena dei cosiddetti
neoconservatori americani, che sono i pubblicitari del sistema
affaristico, incaricati di conferire un alone idealistico anche al
più criminale dei business.
In questa campagna propagandistica ovviamente non manca il consueto
appello ai facinorosi e sadici, a cui non interessa per niente la
salvezza del nascituro, ma solo che la donna che abortisce venga
umiliata il più possibile. Ma c'è anche qualcosa di
più sottile ed ammiccante e, proprio per questo, l'operazione
pubblicitaria è stata affidata al "neocon" Giuliano Ferrara, il
quale, con il suo tono un po' intimidatorio ed un po' ruffianesco,
lascia intendere che il suo obiettivo non sia di abolire la legge 194,
ma di fare esclusivamente una battaglia di principio con
finalità educative. Insomma, si cerca di far credere che si
tratterebbe di condannare l'aborto come "idea", ma di tollerarlo come
pratica, come in effetti già molti fanno.
Qui si annida l'aspetto più subdolo della questione,
poiché per eliminare l'assistenza pubblica all'aborto non
è affatto necessario abolire la legge 194, ma è
sufficiente sabotarla con una serie di circolari applicative, il che
è esattamente ciò che Ferrara afferma di voler fare se
diventasse ministro della Salute.
Se l'aborto pubblicamente assistito diventasse impraticabile a causa di
un iter eccessivamente inquisitorio e umiliante, ecco che si
creerebbero le condizioni per far apparire la privatizzazione
dell'aborto come una liberazione. Bisognerà quindi fare
attenzione al gioco di squadra che stanno mettendo su l'aspirante
ministro Giuliano Ferrara e la leader del partitino biotecnologico,
Emma Bonino.
La soluzione che si sta prospettando è di dar modo alle donne di
abortire anche presso strutture private che abbiano finalità di
ricerca scientifica. In questo modo le donne, oltre ad abortire in modo
più rapido e sicuro rispetto alla struttura pubblica, potrebbero
anche dare il loro contributo al progresso scientifico, alla sconfitta
delle malattie genetiche, eccetera, insomma tutta la storiella
propagandistica che le multinazionali farmaceutiche ci propinano ogni
volta.
Occorre ricordarsi che la privatizzazione dell'aborto è un
vecchio obiettivo del Partito Radicale, che richiese un referendum in
tal senso subito dopo l'approvazione della legge 194, contro la quale
aveva votato in Parlamento. Il referendum abrogativo radicale fu
presentato del tutto in parallelo a quello del cosiddetto "Movimento
per la Vita", di ispirazione cattofascista; del resto, la
proibizione dell'aborto e la sua privatizzazione hanno in comune gli
stessi sbocchi affaristici. Che si tratti della "Vita" o
del "Progresso Scientifico", l'affarismo ha comunque bisogno di
un Moloc al quale obbligare a sacrificarsi.
21 febbraio 2008
La notizia secondo cui Fidel Castro sarebbe uscito definitivamente di
scena per motivi di salute, ha determinato la prevedibile ondata di
commenti, in cui si è distinta la stampa ufficiale europea e
americana, tesa a dipingere il leader cubano come un tiranno ormai
fuori dal mondo, aggrappato sino alla fine alla sua ideologia. Questa
rappresentazione propagandistica aggira però la questione
essenziale, e cioè che la popolarità di Castro in America
Latina, in particolare tra le nuove generazioni, è iniziata dopo
la fine del socialismo reale e la dissoluzione dell'Unione Sovietica, e
molto dopo il definitivo tramonto del modello di socialismo cubano,
quando i limiti umani e politici dello stesso Castro erano ormai
evidenti.
Gli anni '90, e non gli anni '60, sono stati il periodo in cui il
prestigio personale di Castro ha cominciato a costituire un elemento di
inciampo per la politica latino-americana; tanto che il papa Karol
Woytila nel 1998 fu costretto ad organizzarsi una visita a Cuba per
rifarsi una verginità di fronte all'opinione pubblica
latino-americana, essendosi troppo esposto a favore del colonialismo
statunitense con le sue prese di posizione contro Ortega in Nicaragua e
a favore di Pinochet in Cile, mollando inoltre Noriega nel 1990 a
Panama quando questi, per sfuggire ai soldati statunitensi, aveva
chiesto asilo nella Nunziatura Apostolica, cosa che gli sarebbe stata
dovuta, secondo il Diritto internazionale.
Contrariamente a quanto si vuol far credere all'opinione pubblica
europea, la popolarità di Castro in America Latina non è
dovuta ad un'attrazione ideologica del castrismo, anzi di castrismo non
si parla nemmeno più. Le giovani generazioni latino-americane
che vedono in Castro un punto di riferimento, non sanno nulla dello
"Hombre Nuevo" e di tutte le altre palle al piede di carattere
ideologico che si produssero a Cuba quaranta anni fa.
Negli anni '60 e '70 era dato per scontato che chi si opponeva
all'aggressione colonialistica, avesse come minimo il dovere di creare
il paradiso in terra, cosa che ha determinato da parte del regime
cubano una serie di stupidaggini ed efferatezze che avrebbe potuto
tranquillamente risparmiarsi.
Quel che rimane oggi di Cuba è solo l'immagine di un Paese
che ha dimostrato di poter reggere per mezzo secolo all'aggressione
militare, economica e terroristica da parte di una superpotenza
coloniale, perciò Cuba, per il resto dell'America Latina, non
costituisce un modello, bensì l'esempio della possibilità
di resistenza allo strapotere del colonialismo degli USA e delle
multinazionali.
Questa concretezza dei Latino Americani è ciò che oggi
manca ai commentatori "occidentali", i quali vorrebbero farci credere
che il ritiro di Castro dalla scena politica ponga le condizioni per
libere elezioni a Cuba e quindi per un superamento del contrasto con
gli USA. In realtà, qualunque regime vi fosse a Cuba, rimarrebbe
quanto già scritto da Thomas Jefferson più di due secoli
fa, e cioè che Cuba costituisce geopoliticamente una tappa
essenziale della espansione coloniale degli Stati Uniti verso l'America
Latina.
Sino alla rivoluzione del 1959, Cuba aveva svolto, a causa della sua
posizione a ridosso della penisola della Florida, il ruolo di ponte
dell'economia illegale statunitense. Le multinazionali sono organizzate
su un livello legale ed un altro illegale, ed è l'intreccio tra
questi due livelli a creare il maggior numero di occasioni
affaristiche. Ad esempio, il petrolio iracheno, acquistato sul mercato
illegale a meno di venti dollari, può esser rivenduto sul
mercato legale al prezzo ufficiale di cento dollari. A sua volta, il
livello illegale delle multinazionali è agganciato alle
classiche organizzazioni malavitose che svolgono una funzione di
manovalanza e di copertura.
Il Proibizionismo dell'alcol negli Stati Uniti fu imposto nel 1919
con motivazioni moralistiche da organizzazioni create dal businessman
Pierpont Morgan, ritenuto allora l'uomo più ricco del mondo; la
maggiore entità del traffico era svolta da un altro businessman
di chiara fama, Joseph Kennedy - padre del futuro presidente John
Kennedy -, anche se alla fine erano personaggi come il gangster Al
Capone a risultare evidenti all'opinione pubblica. Allo stesso modo, in
Campania è oggi la camorra a risultare in primo piano, anche se
questo "sistema" camorristico non è certamente all'altezza degli
affari che gli vengono attribuiti, come lo smaltimento dei rifiuti
tossici prodotti dalle multinazionali statunitensi, che passano
attraverso i porti militari della basi americane.
Nel momento in cui tornasse nella sfera d'influenza statunitense,
anche Cuba riprenderebbe perciò quel ruolo di Stato fantoccio
dell'affarismo criminale che già svolgeva negli anni '50.
Il mito della democrazia americana è servito da sempre a
mettere in ombra il vero problema, e cioè che monstrum
costituiscano gli Stati Uniti dal punto di vista geopolitico: un Paese
che, per posizione geografica, è in grado di minacciare,
aggredire e destabilizzare tutto e tutti, pur di realizzare i propri
scopi affaristici camuffati di idealismo, senza avere però
altrettanto da temere, grazie al suo isolamento continentale.
È l'Europa oggi a trovarsi minacciata e destabilizzata
dall'indipendenza del Kosovo, imposta da Clinton ancora prima che da
Bush. È l'Europa inoltre ad essere costretta a dover mantenere
un altro staterello fantoccio dell'affarismo criminale, un Paese privo
di vera autosufficienza economica, ma che già possiede quasi
più banche che abitanti, e che è stato definito
giornalisticamente una "Mafialand", anche se, tecnicamente, è
più una "N.AT.O.land".
È infatti la presenza delle truppe NATO a garantire in Kosovo
la zona franca per le organizzazioni criminali, e non accorgersene
costituisce lo stesso tipo di svista per cui in Campania si nota il
potere della camorra e non le tredici basi americane, come se
queste fossero una componente del paesaggio. Il Kosovo è oggi
uno specchio in cui l'Italia può intravedere molti dei suoi
stessi lineamenti.
L'imprinting dei gruppi dirigenti europei è la loro
incapacità di opporsi agli Stati Uniti, perciò essi
devono sperare che qualcun altro lo faccia per loro, riservandosi
peraltro di condannarlo ufficialmente per tanta arroganza. La
situazione paradossale è che oggi pare che siano proprio i
gruppi dirigenti europei a dolersi maggiormente del fatto che le
minacce di intervento militare in Kosovo da parte del presidente russo
Putin abbiano uno scopo puramente rituale. È molto difficile
infatti che Putin si lasci davvero distrarre dai suoi obiettivi
affaristici in un momento in cui i prezzi del suo petrolio e del suo
gas sono alle stelle, così in Europa non vi sarà nessuno
a contrastare l'ennesima offensiva colonialistica statunitense.
28 febbraio 2008