Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Mai fidarsi di quegli esseri orribili che sono i “putiniani”, infatti te li ritrovi sempre a sostenere la NATO e le sue guerre; come è successo alla principessa e decana dei putiniani europei, la “sovranista” Marine Le Pen. La putiniana non solo si è astenuta in parlamento per non ostacolare l’ennesimo invio di armi di Macron a Kiev, ma ha persino avallato la fiaba/spot sull’eroico popolo ucraino che avrebbe fermato la Russia. In realtà le tre linee difensive le ha costruite la Russia e non l’Ucraina, ed è Kiev, insieme con la NATO e l’UE, a dichiarare che l’obbiettivo non è “fermare Putin”, bensì riconquistare i territori perduti; territori peraltro popolati da civili russofoni che vengono bombardati dall’esercito ucraino.
Qualcuno potrebbe pensare che Marine Le Pen si sia “melonizzata”, mentre invece le sue prese per i fondelli sono sempre state evidenti; come quando proponeva di far uscire la Francia non dalla NATO ma solo dal suo comando, per segnalare così la propria indipendenza. Oltre a produrre queste barzellette, Marine Le Pen è sempre stata una sostenitrice acritica delle spese militari, senza mai fare domande sul modello di difesa per cui sarebbero dovute servire; perciò si lasciava campo libero agli affari delle lobby delle armi.
Anche in Italia i media “progressisti”, come “il Post”, cercano di propinarci la narrativa pubblicitaria secondo cui più spese militari si tradurrebbero automaticamente in maggiore capacità militare, quindi il problema starebbe nei pacifisti che si oppongono all’acquisto di armi. Questa formula è funzionale soltanto alla cleptocrazia militare, cioè alla produzione ed all’acquisto di armi da vetrina, inutili per le vere guerre, come i caccia F-35; cioè armi non solo costosissime, ma anche talmente fragili da aver bisogno di continue e dispendiose manutenzioni. Le “minacce” di Trump agli europei di non difenderli se non spendono di più per le armi sono quindi musica per la cleptocrazia nostrana, che peraltro aveva già deciso di aumentare la spesa militare.
Secondo i media il principe dei putiniani d’Occidente sarebbe proprio Donald Trump. Come spiegare allora che Trump nel 2017 ha cominciato a inviare armi all’Ucraina per attaccare il Donbass? La narrativa mainstream ci svela l’arcano: Trump è un putiniano talmente subdolo da cercare di allontanare i sospetti da sé inviando armi ai nemici della Russia. Sempre nel 2017 Trump non ha mai posto il veto ai pacchetti di sanzioni contro la Russia approvati dal Congresso; e ci narrano che non poteva fare altro, visto che doveva fabbricarsi un alibi contro le accuse di aver vinto le elezioni grazie a Putin. Il trucco retorico dei media è banale ma efficace; consiste nell’allestire pretestuosi processi alle intenzioni per distrarre dai dati di fatto. In tal modo si è creato un Trump mitico eroe da fumetti ad uso del pubblico suggestionabile di entrambe le sponde politiche: per i politicorretti Trump sarebbe una specie di pericoloso demonio annidato nel cuore dell’Occidente; mentre per i sovranisti è diventato una speranza di riscatto dal globalismo militar-finanziario.
Secondo osservatori realisti della situazione americana, le tante montature giudiziarie di cui è bersaglio Trump non sono dovute al fatto che egli rappresenti davvero un’alternativa di linea politica, bensì solo ai timori personali dei Clinton e dei Biden, che sono famiglie di gangster con all’attivo una sfilza di frodi fiscali e di ruberie, perciò sono preoccupatissime di finire in carcere se perdessero il potere. Grazie ai suoi consulenti di Goldman Sachs, nel 2017 Trump aveva già adottato la strategia vincente per contrastare tutta quella corruzione. Come? Legalizzandola, cioè tagliando le ultime tasse alle corporation ed abolendo i residui controlli sulla finanza.
La propaganda dei giornali Neocon come “il Foglio” però fa di tutto per alimentare e perpetuare il mito del Trump antisistema, per cui ci si racconta che Trump nel suo animo sarebbe addirittura un antisionista, subdolo ovviamente. Talmente perfido che, appena arrivato alla presidenza grazie agli undici milioni di voti dei sionisti evangelici, Trump ha fatto esattamente ciò che voleva la lobby sionista, cioè ha annullato l’accordo sul nucleare firmato da Obama con l’Iran.
L’odio di Trump per Israele è stato ancora più palese quando ha voluto umiliare il Mossad. Visto che in tanti anni gli agenti segreti israeliani non erano mai riusciti ad eliminare il generale Soleimani, e neppure ad avvicinarcisi, allora ci ha pensato Trump ad assassinarlo nel 2020, ingannando il governo iracheno e fregandosene delle garanzie diplomatiche che il generale iraniano aveva per la sua visita ufficiale a Bagdad. Ma la perfidia antisionista di Trump è andata persino oltre. Ha avuto infatti la faccia tosta di presentare un piano di soluzione del conflitto israelo-palestinese tutto a favore di Israele, e che prevedeva il passaggio dell’intera città di Gerusalemme, compresa la spianata delle moschee, sotto la sovranità israeliana, ed inoltre il mantenimento di tutti gli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania. Come contentino ai palestinesi, Trump gli prometteva nientemeno che un treno ad alta velocità per collegare i loro territori (quali territori?); ed anche trenta miliardi, ovviamente non stanziati dal governo degli Stati Uniti, ma da racimolare con una colletta in giro per il mondo. Per dissimulare il suo antisionismo, Trump non solo non dava niente ai palestinesi, ma li sfotteva pure. Molti sono convinti che nel prossimo mandato un Trump maturato e scaltrito dall’esperienza farà sicuramente di meglio; quindi per mascherare il suo putinismo ed il suo antisionismo, si metterà direttamente a bombardare la Russia e l’Iran.
L'AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO
Gianfranco Marelli
L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO, Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957-1972
MIMESIS/ETEROTIPIE
Amara vittoria, quella di divenire mito. Quasi delle Cassandre del Novecento, i situazionisti hanno presagito l’alienazione quotidiana, l’anestetica del mercato, le bulimie di un’epoca pericolosamente tesa alla superficialità. Nell’anniversario dell’Internazionale Situazionista (1957), Gianfranco Marelli traccia in un saggio che bilancia perfettamente la narrazione con la puntualità delle fonti, un dettagliato ritratto di uno dei movimenti più emblematici del Secolo Breve.
Qui di seguito riportiamo l’EPILOGO del libro.
Sì, da quando scrissi le poche righe di presentazione del mio lavoro a Guy Debord nel freddo inverno del 1994, mi sono più volte chiesto se il situazionista parigino mi avrebbe risposto e cosa avrebbe scritto se non si fosse suicidato. Confesso che, in questi lunghi decenni in parte dedicati a ricercare nuove fonti, nuovi testi critici in grado di farmi comprendere aspetti e sfumature dell’Internationale Situationniste, allora non colti per incapacità personale e mancanza di indizi più prossimi, originali, inediti, per indagare sul variopinto gruppo di persone che l’animarono, ho provato a darmi delle risposte. Variavano a seconda del mio umore: propositive e stimolanti rispetto a quanto ero riuscito a condurre a termine; negative e demolitrici su quanto avevo scritto, affidandomi a documenti raccolti con paziente difficoltà in quanto problematico era separare loglio e grano, soprattutto ad un anno di distanza dalla morte di chi era ormai considerato non più soltanto il padre putativo dell’ultima avanguardia di artisti e di intellettuali del XX secolo, ma il maître a penser che grazie al concetto di “spettacolo” aveva saputo interpretare la contemporaneità di un sistema economico-produttivo trasformatosi in una dimensione sociale totalizzante tale da cambiare il modo d’intendere la vita quotidiana dinnanzi alle possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico e dal progresso scientifico.
Se Debord non ebbe il tempo di rispondermi, o più realisticamente non trovò allora il motivo per farlo, altre risposte sono state date al mio libro e altri libri hanno cercato di fornirne svariate, complesse e contraddittorie alla domanda che nel corso di questi sessant’anni che ci separano dalla Conferenza di Fondazione dell’Internationale Situationniste [Cosio d’Arroscia, 28 luglio 1957] è sempre emersa con forza incipiente: cos’è il “situazionismo”? Del resto Vaneigem non si sentì costretto ad ammettere che tutta l’ideologia modernista si può disinvoltamente chiamare “situazionismo”, dal momento che «tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo si trova ripreso ovunque, tranne l’essenziale»(1)?
In realtà non è mai mancato l’essenziale ogni volta che è stato approntato uno studio sul situazionismo; ciò che, il più delle volte, ha peccato di riduzione eccessiva e smodata del fenomeno è stato l’averne proposto l’essenzialità così da poterlo catalogare in una specifica critica dell’ideologia, dell’urbanistica, della psicogeografica, della politica radicale, dell’estetica, e via classificando. A seconda dei momenti storici – vicini o distanti da quello che i situazionisti avevano interpretato come “l’inizio di una nuova epoca” – l’analisi critica del pensiero e della pratica situazionista ha finito per evidenziare quei tratti essenziali che meglio corrispondevano ad una interpretazione artistica, sociologica, filosofica dell’Internationale Situationniste in modo da permetterne una lettura del passato, non certo il suo utilizzo presente, per non correre il rischio di giudicare sbagliata – o perlomeno ambigua e parziale – la teoria situazionista che aveva voluto scommettere sulle possibilità rivoluzionarie della sua epoca.
In effetti – come da più parti è stato evidenziato – si sono potute distinguere tre fasi nelle quali l’interpretazione data dell’I.S. è stata dettata dalle conseguenze che si sono volute trarre al fine di valorizzarne l’essenzialità oggettiva di un pensiero pratico da sempre in bilico tra il recupero e il riutilizzo. La prima interpretazione ha posto l’accento sul progetto politico che i situazionisti avevano cercato di praticare, dando vita ad un nuovo tipo di organizzazione rivoluzionaria. Questa lettura, iniziata a cavallo del ’68 e proseguita fino alla fine degli anni ’70, ebbe un obiettivo ben preciso: salvare il salvabile di un’esperienza che nei quindici anni trascorsi ha rappresentato il tentativo di superare l’arte realizzandola nella progettualità organizzativa dei consigli operai, finalizzata alla trasformazione radicale della società attraverso l’autogestione generalizzata. Gli avvenimenti che – a partire dalla seconda metà degli anni ’60 – caratterizzarono il grande e complesso movimento di contestazione dei valori costituenti la società consumistica, inevitabilmente finirono per influenzare anche l’analisi storica sull’Internationale Situationniste, individuando ed esaltando in essa gli aspetti premonitori della crisi di consenso al sistema socio-economico, così da porre soprattutto attenzione alla critica della vita quotidiana e alla lotta contro ogni forma di alienazione e di separazione connessa sia al dominio dello spettacolo della merce, sia al sacrificio imposto dall’ideologia rivoluzionaria rappresentata dallo spettacolo del rifiuto; in tal modo l’esperienza situazionista è sembrata l’esperienza di un’avanguardia artistica trasformatasi in un’organizzazione di teorici della rivoluzione, convinti che gli obiettivi da perseguire e gli strumenti con i quali ottenerli procedessero da una rivolta contro il funzionalismo in architettura e l’abolizione di un’estetica effimera, volta a fare dell’arte un momento separato della propria vita, fino ad una trasformazione radicale dell’ambiente urbano per la costruzione di situazioni in cui l’arte di vivere sarebbe stata il solo modo per realizzare l’arte della propria vita. Sono stati questi gli anni in cui la notorietà dell’I.S. coincideva con la sua partecipazione al Maggio francese ed il suo rappresentarsi diversa nella pratica da qualsiasi formazione di estrema sinistra le conferiva un’aura rivoluzionaria al passo coi tempi, tanto da riconoscersi nei modi e nei metodi dissacranti, violenti e provocatori con i quali i situazionisti regolavano i conti al proprio interno e con i gruppi attigui ad essa. La sua intransigenza nei rapporti diventò un mito per i prositu che, nell’estremizzarne il comportamento in un contesto storico dove l’onda lunga della contestazione progressivamente rifluiva, li condusse a spiaggiarsi sulla battigia marginalista della teorizzazione soggettiva del rifiuto del lavoro, del furto, dell’illegalità, della droga e finanche della lotta armata come risposte ad una realtà che si chiudeva su se stessa di fronte alla repressione organizzata dallo Stato e al progressivo recupero delle lotte sociali entro l’alveo riformista.
Seguì il periodo catacombale, coincidente con gli anni ’80, caratterizzatosi dall’esegesi ortodossa dei testi situazionisti ad opera di vere e proprie confraternite preoccupate di salvaguardare l’immagine sacra dell’Internationale Situationniste e a fare di Guy Debord IL situazionista, attorniato da pochi e fedeli discepoli. In questa tempra, il “mistero” di un’organizzazione elitaria, formata da geni, si tradusse in un “capitale simbolico” investito con maestria nello spettacolo mediatico e produsse una cortina di fumo che offuscò il pensiero situazionista, riducendolo ad un guazzabuglio di teorie marxiste e libertarie rinverdite con sprazzi di critica post-moderna alle forme del linguaggio popular, tanto da farlo coincidere con le esperienze espressive più alternative manifestatesi con il movimento del ’77 attraverso le nascenti “radio libere”, e con il Punk inglese e l’autoproduzione del materiale underground di provenienza artistico-musicale. Quest’ultimo esempio fu essenzialmente la risposta anglo-americana al mal francese che permeò gli anni ’80 – “anni d’inverno” come li definì Felix Guattari – in cui al prevalere dell’intransigenza nel rievocare l’eredità trasmessa dall’I.S., coltivandone la purezza teorica fra i vari gruppi, riviste, e centri di documentazione in perenne contrasto per spartirsi il prezioso tesoro, si preferì un’apertura disinvolta ed ecumenica a tutte le espressioni artistiche e culturali caratterizzate da un generico rifiuto dello spettacolo, sino a ripetere lo stantio e desueto spettacolo del rifiuto che l’esperienza della II Internazionale Situazionista aveva già dato prova durante i primi anni ’60.
Terza ed ultima fase: la rinascita. Intrapresa all’inizio degli anni ’90 e protrattasi sino a nostri giorni, mira a sottolineare quanto il situazionismo sia un pensiero filosofico immediatamente traducibile in una filosofia di vita e rappresenti il nuovo spirito del capitalismo, non più ascetico, autoritario, repressivo, bensì edonistico, permissivo, trasgressivo. Riprendendo la tesi di Boltanskj e Chiappello sul legame tra la critica sociale e la critica artistica come aspetto fondante il processo di rinnovamento compiuto dal capitalismo (2), il rinato interesse per il situazionismo ha evidenziato quanto i valori di autonomia individuale, creatività, nomadismo, gioco, siano stati riutilizzati all’interno del processo economico e abbiano determinato la svolta dell’apparato produttivo capitalista, trasformando il ruolo del lavoratore cognitivo nella figura dell’artista, sempre più soggetto ad un’autonomia precaria, costretto a mettersi in gioco e a costruirsi un mestiere/situazione al punto da ricominciare la propria esperienza lavorativa ovunque e a qualsiasi condizione, in una società divenuta oppressiva per il produttore e permissiva per il consumatore. Sicuramente un riutilizzo del situazionismo all’insaputa di molti situazionisti. Non certo però di coloro che approfittarono del loro trascorso nell’I.S. – foss’anche una semplice comparsa al suo interno, o una più probabile adesione esterna – per compiere folgoranti carriere come amministratori delegati di società multinazionali, direttori di palinsesti multimediali, se non addirittura consiglieri di ministeri per la qualità della vita di governi indistintamente di sinistra e di destra (3). Del resto ad essere folgorati dal nuovo spirito del capitalismo – come ben ci ha rammentato José Saramago – furono molti dei più accesi leader dei gruppuscoli extraparlamentari che «essendo stati a diciott’anni, non solo le ridenti primavere dello stile, ma anche, e forse soprattutto, esuberanti rivoluzionari decisi a rovesciare il sistema dei padri e metterci al suo posto il paradiso, beh, della fraternità, si ritrovano ora, con una fermezza per lo meno uguale, impoltroniti in convinzioni e prassi che, dopo esser passate, per riscaldare e render più flessibili i muscoli, per una delle tante versioni del conservatorismo moderato, hanno finito per sfociare nel più sfrenato e reazionario egoismo. In parole non tanto cerimoniose – chiosa sprezzante il poeta lusitano –, questi uomini e queste donne, davanti allo specchio della propria vita, sputano tutti i giorni sulla faccia di quel che sono stati lo scaracchio di quel che sono» (4).
Senza dubbio questa fase post-situ ha avuto al suo interno molte sfaccettature, e al riutilizzo tout-court del situazionismo in chiave neocapitalista si è sovrapposta un suo più edulcorato recupero come prodotto culturale, studiato nelle università, esposto nei musei, ma soprattutto venduto a caro prezzo a collezionisti privati e a biblioteche pubbliche. Dalla prima esposizione consacrata ai situazionisti al Centre Pompidou nel febbraio 1989, alla più recente svoltasi alla Bibliotèque nationale de France nel marzo 2013, passando per la riedizione dell’opera omnia di Debord presso Gallimard/ NRF nel 1991 sino all’acquisto del suo archivio nel 2009 da parte della BnF [dopo che lo Stato lo dichiarò tesoro nazionale, impedendone in tal modo la vendita all’università di Yale per la ragguardevole cifra di 2,7 milioni di euro a beneficio dell’inconsolabile vedova], il situazionismo è divenuto una merce molto preziosa da vendersi come “modernariato” nelle più prestigiose aste presenti su Internet. Svaporata in tal modo la sua funzione eversiva, ne è rimasta la funzione didattica che se da un lato ha promosso e incrementato uno studio accademico e scientifico meritorio di numerosi seminari, convegni e pubblicazioni specialistiche nei più svariati campi in cui il situazionismo ha condotto la propria critica, ugualmente ha stimolato una ricerca più prossima alla critica radicale che non ha scalfito la denuncia sullo spossessamento della vita da parte del sistema capitalista e sulla necessità di porvi rimedio attraverso pratiche di lotta a difesa dell’ambiente, dei suoi prodotti naturali, così da promuovere un sistema di relazioni di comunità autogestite in grado di contrastare l’anonimato dei grandi agglomerati urbani che al pari della lebbra infettano il globo terrestre.
Navigare nel mare della storia del situazionismo non è certo facile. Da più di vent’anni ci siamo avventurati al largo e, dotati di pochi punti di riferimento, abbiamo cercato di mantenere una rotta stabilita fin dall’inizio del viaggio e mano a mano aggiustata per tenere conto dei risultati del disincanto e degli approfondimenti suffragati dagli studi. La navigazione non è certo conclusa e, se apparentemente le acque sembrano meno agitate, l’analisi prosegue affinché – nel valorizzarne le immarcescibili potenzialità – si precisi quali aspetti del situazionismo l’amara vittoria farà ancora strame.
Ischia, agosto 2016
1) Raoul Vaneigem, Quelques précisions, documento del 21 aprile 1970 riprodotto in Débat d’orientation de l’ex-Internationale Situationndiste, Centre de recherche sur la question sociale, Paris 1974, p. 23.
2) Luc Boltanski, Ève Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014, pp. 243-248; 280-284.
3) «I casi più rappresentativi sono quelli di Piet de Groof, membro dell’I.S. dal settembre 1957 all’autunno 1958 con lo pseudonimo di Walter Korun, diventato nel 1982 general-maggiore delle Forze aeree belge; di Anton Harstein (alias Toni Arno), membro dell’I.S. dall’inverno 1965 al luglio 1966, diventato cofondatore di Radio NRJ e attualmente rappresentante commerciale a Bucarest della multinazionale di telecomunicazioni ATDI; di René Viénet, membro dell’I.S. dal 1961 al 1971, negli anni 1980-90 uomo d’affari, rappresentante e consigliere a Taiwan delle più grandi società francesi (la banca Paribas, Cogema, Framatome, Total, etc. …)». Patrick Marcolini, Le mouvement situationniste. Une histoire intellectuelle, L’échappée, Paris 2013, p. 310.
4) Josè Saramago, Saggio sulla lucidità, Einaudi, Torino 2004, p. 95.
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