Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il grande reset rimarrà probabilmente uno spot pubblicitario dei fumatori d’oppio di Davos; in compenso non ci si fa mancare i piccoli reset, soprattutto della memoria. Il dibattito sull’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione del Covid è stato l’occasione per la riscrittura di pagine di storia recente. In questa circostanza non è stata semplicemente una parte politica a cambiare la sua versione dei fatti, ma si è costituito un gioco di ruolo per cui si può litigare sui dettagli meschini ma non sulla trama della vicenda. In particolare suona strano l’entusiasmo inquisitorio della Lega nel salutare l’istituzione della commissione parlamentare sul Covid, dato che la versione italiana della pandemia da Covid è partita dalla Regione Lombardia, governata da una giunta guidata dal leghista Attilio Fontana. L’evidenza di questo dato storico è oscurata dal solito pregiudizio che considera la bistrattata Italietta inevitabilmente subordinata a poteri stranieri, come se non fosse fin troppo capace di provocare danni in proprio.
In questi anni si è instaurato un politicamente corretto in base al quale la cosiddetta “sinistra” si è intestata la gestione del Covid, a partire dalla scelta del lockdown, mentre alla destra sarebbe spettato il ruolo critico o disfattistico. La Procura di Bergamo ha addirittura impostato la sua indagine sulla gestione Covid sulla ricerca delle responsabilità nel ritardare la scelta del lockdown in Lombardia. Alla fine dell’anno scorso spuntava persino una presunta “mail segreta” di Attilio Fontana, la quale avrebbe provato che il presidente della Regione Lombardia, pur sottolineando la drammaticità del livello dei contagi, si sarebbe limitato a chiedere la conservazione delle misure preventive già esistenti. In realtà le espressioni contestate a Fontana nella presunta mail segreta erano tutte molto generiche.
Il dato di fatto è che nelle sue dichiarazioni pubbliche nel marzo del 2020 era Attilio Fontana a rivendicare l’iniziativa delle chiusure, arrivando ad invocare l’intervento dell’esercito per costringere le persone a rimanere a casa. Quando Fontana all’epoca disse di essere stato proprio lui a presentare queste richieste al governo Conte, nessuno si è mai premurato di smentirlo. Il modello generalmente adottato di gestione pandemica, compreso il micidiale protocollo terapeutico, è partito dalla Regione Lombardia e porta il marchio di una giunta a guida leghista.
Tanto per non farsi (e non farci) mancare niente, Fontana è stato anche il primo uomo politico occidentale a presentarsi con la mascherina in pubblico, dapprima affrontando spavaldamente il dileggio, poi imponendo un look che sarebbe stato santificato dai virologi mainstream. Dopo aver combinato tutto il casino, oggi la Lega può presentarsi nel ruolo del giudice delle malefatte altrui. Si sa già che la commissione parlamentare sul Covid si risolverà in una farsa e che si finirà a parlare di banchi a rotelle e di soldati russi, ma è comunque significativo che si permetta ogni volta alla destra di recitare tutte le parti in commedia.
L’emergenza pandemica era stata inventata come prova tecnica di autonomia differenziata, ovvero come esibizione della superiorità etnica dei “Lumbard”; e, da quel punto di vista, si era risolta in una colossale figura di merda, il classico passo più lungo della gamba. Del resto era scontato che una volta imposto arbitrariamente che una polmonite non potesse essere più curata come una polmonite, il sistema sanitario sarebbe andato al collasso. Ma qui è subentrato quello schema già illustrato da Togliatti, quando diceva che toccava al proletariato raccogliere le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nella polvere; come a dire che l’abito dismesso dalla destra deve diventare la livrea della sinistra. Inventata da una giunta di destra, in poche settimane l’emergenza pandemica è diventata una bandiera della “sinistra”; anzi, per dirla come il ministro Roberto Speranza, addirittura una “occasione” per la cosiddetta sinistra di riconquistare un’egemonia culturale.
La psicopandemia è stata riciclata: da che era una prova tecnica di superiorità etnica è diventata una prova tecnica di socialismo, perciò è stata accolta senza resistenze anche dalla sinistra più “antagonista”, in taluni casi come una palingenesi morale, per cui chiudere le fabbriche sarebbe stata un'affermazione della priorità della salute sulla logica del profitto. Persino l’imposizione del green pass, per quanto considerato una “pezza” ad errori precedenti, era accettata da esponenti della cosiddetta “sinistra antagonista” come un modo per castigare il presunto individualismo dei “liberisti”.
Evidentemente qualcuno è rimasto al liberismo delle fiabe e degli slogan, senza mai rendersi conto che il liberismo reale è un sistema di assistenzialismo per ricchi, cioè un intreccio inestricabile tra capitale privato e denaro pubblico. Probabilmente non esiste un fenomeno più documentato a livello ufficiale di quello dei sussidi governativi alle imprese private. Il politicamente corretto però insiste a raccontarci che i soldi delle tasse servono per l’assistenza sanitaria e per i servizi pubblici. In realtà è vero solo in minima parte, mentre il grosso va in assistenzialismo per ricchi.
Coltivando il politicamente corretto la “sinistra” carica l’arma con la quale la destra può rioccupare ogni volta il piedistallo del giudice. Invece di essere un argine contro la destra, il politicamente corretto le fa da trampolino di lancio. Il politicamente corretto sposta l’attenzione dall’oggetto al soggetto, non si guarda la cosa in sé bensì la motivazione che c’è dietro. La morale non consiste più nel discernere il bene e il male, ma nel separare buoni e cattivi, quindi stabilire delle gerarchie antropologiche, per le quali ai “buoni” sarà permesso qualsiasi crimine. Lo abbiamo sperimentato di nuovo quando ci è stato detto che l’Ucraina ha il diritto di difendersi e che noi abbiamo il dovere di aiutarla mandandole le armi. Campioni di altruismo. Visto che quelli di destra quando gli fa comodo adottano il politicamente corretto e si scoprono anche loro anime belle, allora si potrebbe opporgli una motivazione di destra, di quelle egoistiche: l’Ucraina ha il diritto di difendersi, ma non con i miei soldi, perciò non pago le tasse. Il punto è che le guerre possono avere le cause più remote e intricate nella storia degli odi reciproci, ma non durano se non vengono gonfiate continuamente con armi e finanziamenti. Si tratta di un’osservazione di buon senso ma riconfermata dai dati empirici illustrati dal professor Jeffrey Sachs nella sua recente testimonianza davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Non si tratta perciò di distribuire torti e ragioni, oppure di inseguire riconciliazioni, bensì di sgonfiare le bolle militar-finanziarie.
Quando Renato Brunetta esibisce la faccia sadica e ghignante della “destra liberista” e dileggia la “sinistra” trattando il salario minimo come roba da anime belle, svolge il suo ruolo da maschera della Commedia dell’Arte; cioè personifica il fondo oscuro del politicamente corretto, l’esito estremo del moralismo, che è quello di dare addosso ai deboli, che non sono mai “perfettini” come dovrebbero e sono colpevoli di non voler lavorare o di non voler vaccinarsi. Non a caso il personaggio di Brunetta fu lanciato nel 2008 dal quotidiano “la Repubblica”, che ci narrava entusiasticamente della mitica “cura Brunetta” contro gli assenteisti. I politicamente corretti trovano Brunetta spregevole ma non riescono ad evitare di dargli ragione perché usa gli stessi argomenti. In realtà Brunetta è un baro e un mentitore, e i suoi trucchi sono di una banalità elementare. I buoni sentimenti del politicamente corretto non c’entrano nulla, poiché si potrebbe approvare il salario minimo, e pure per il reddito di cittadinanza, anche per la cinica motivazione di non voler trovare barboni che dormono sotto il portone di casa propria. Non esiste economia senza assistenzialismo, ed il trucco sta nel chiamarla assistenza quando riguarda i poveri, e nel trovare invece nomi pomposi quando i sussidi assistono i ricchi: “riconversione industriale”, “Transizione 4.0”, eccetera. Nel lavoro, come in qualsiasi fattore della produzione, entrano in gioco altre variabili oltre la domanda e l’offerta, altrimenti a fronte di certi salari troppo bassi sarebbe molto più conveniente non lavorare affatto. Molti invece accettano salari non remunerativi solo per il timore di rimanere tagliati fuori dal mercato del lavoro, e si impoveriscono per eccessive spese di trasporto; mentre altri sperperano quel poco che hanno non solo in spese di trasporto, ma anche per corsi di formazione, sperando in un’occupazione che non troveranno. Spesso è il lavorare a tutti i costi che fa precipitare nell’indigenza assoluta.
Ieri, 29 novembre, ricorreva l’ennesimo anniversario della famigerata Risoluzione numero 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU sulla suddivisione della Palestina in due Stati, uno ebraico ed uno arabo-palestinese. La fondazione ufficiale dello Stato di Israele avvenne l’anno successivo, nel maggio del 1948, dopo la cosiddetta “prima guerra arabo-israeliana”. Non è il caso di sforzarsi a confutare ancora una volta la versione corrente dei fatti, secondo la quale i cattivissimi vicini arabi avrebbero convinto i palestinesi a non proclamare il proprio Stato ed avrebbero anche scatenato una guerra poi ignominiosamente perduta. Si prescinda per una volta dalle narrative e si guardi semplicemente una carta geografica in cui sia illustrato il piano dell’ONU di suddivisione dei territori. Al presunto Stato palestinese erano stati assegnati tre lembi di terra separati (uno dei quali poi perso per strada), per cui il collegamento tra quelle tre parti sarebbe stato inevitabilmente affidato ad eventuali “corridoi” in territorio israeliano. La risoluzione 181 assegnava quindi alla popolazione palestinese il ruolo di un ostaggio nelle mani di Israele.
La soluzione “due popoli due Stati” in queste settimane è stata rilanciata da più parti, ma si tratta di una finzione, della fiaba che si racconta al pupo per tenerlo tranquillo; solo che il pupo non può starsene tranquillo ad ascoltare la fiaba, visto che viene massacrato da settantacinque anni. Qualcuno dirà che ci sono altri esempi nella storia di Stati che non avevano una continuità territoriale, come la Prussia o il Pakistan, ma in quei casi c’era ab origine un nucleo territoriale solido e militarmente attrezzato; e, nel caso del Pakistan, comunque ciò non bastò per tenere insieme i pezzi. La Risoluzione 181 fu ratificata a maggioranza dall’Assemblea dell’ONU, non dal Consiglio di Sicurezza, e ciò aggrava l’ipocrisia collettiva di quella scelta, che di fatto consentiva la nascita dello Stato di Israele ma non dello Stato palestinese. Sarebbe quindi il caso di smetterla col mantra secondo cui l’ONU avrebbe pronunciato risoluzioni belle e buone ma purtroppo senza la forza per imporle. L’ONU è stata non solo complice ma artefice del crimine.
Si potrebbe obiettare che se davvero lo Stato palestinese non avesse mai avuto alcuna reale possibilità di nascere, allora non si spiegherebbero i famosi accordi di Oslo del 1993 e del 1995, che accettavano l’ipotesi dei due Stati e furono firmati dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. In realtà Rabin era un militare, ed anche molto competente, perciò sapeva benissimo che quella pacificazione con i palestinesi aveva un carattere formale e che un qualsiasi Stato palestinese sarebbe rimasto nel migliore dei casi nella condizione di un protettorato o di un bantustan. Ma proprio perché era un militare competente, Rabin si era reso conto di non potersi permettere più una situazione di belligeranza permanente. La prima guerra del Golfo nel 1991 aveva dimostrato che Israele è particolarmente vulnerabile agli attacchi missilistici. Nella guerra del 1991 si verificò il primo e clamoroso fallimento del costosissimo sistema antimissile “Patriot” contro dei missili iracheni che erano delle repliche delle V2 che Wernher von Braun lanciava su Londra tra il 1944 ed il 1945. Ciò significa che in un territorio ristretto come quello israeliano degli attacchi missilistici concentrati potrebbero eliminare l’intero sistema delle infrastrutture. Mentre negli USA non si è mai potuto prendere atto di quel fallimento del “Patriot”, poiché avrebbe disturbato gli affari della multinazionale Raytheon, in Israele lo si è potuto ammettere tranquillamente.
Dopo l’assassinio di Rabin però si è fatto finta di poter trovare la soluzione al problema con un sistema antimissile ancora più costoso del “Patriot”, il cosiddetto “Iron Dome”. Come al solito a pagare il conto è stato lo Zio Sam, infatti in base alle fonti ufficiali del Congresso statunitense il “contributo” ammonterebbe a più di tre miliardi di dollari. L’antimissile “Iron Dome” ha mostrato più volte malfunzionamenti anche nei confronti di attacchi con i missili artigianali di Hamas. In base alle stime più recenti, ma non verificabili in ufficiali capitoli di spesa, il costo di ogni missile del sistema “Iron Dome” sarebbe “sceso” a quaranta o cinquantamila dollari. Ammesso che questa valutazione ottimistica dei costi sia attendibile, è evidente la sproporzione tra la spesa enorme che comporta il sistema “Iron Dome” ed il “low cost” della minaccia che dovrebbero fronteggiare. A questo punto non è questione di essere pacifisti, anzi, un militare sarà il primo a rendersi conto dell’insostenibilità del sistema; a meno che non sia in conflitto di interessi, come l’attuale segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, che stava nel consiglio di amministrazione di Raytheon.
La leggenda di un Rabin colomba pacifista non ha un fondamento concreto; basti ricordare che nella guerra del 1967 era Capo di Stato Maggiore e si era reso responsabile dell’uccisione di centinaia di prigionieri egiziani, oltre che dell’attacco col napalm alla nave statunitense USS Liberty, causando trentaquattro morti tra i marinai, un episodio che dimostra che da sempre gli israeliani prima sparano poi, eventualmente, vedono chi è. Rabin era in grado di capire che con gli accordi di Oslo in effetti non stava concedendo nulla e rimaneva un falco in attesa di rapporti di forza più favorevoli. La leggenda del pacifista conferì a Rabin una popolarità internazionale e lo portò, come al solito, al premio Nobel per la pace. Purtroppo la leggenda faceva comodo anche ai suoi avversari interni che avevano così un pretesto per assassinarlo. Per Israele la pantomima dei “due popoli e due Stati” è a rischio zero per quanto riguarda la sicurezza ed il controllo del territorio, ma va contro il paradigma emergenzialista in base al quale enfatizzando o inventando minacce e pericoli fai arrivare più soldi. Una volta avviata la macchina del lobbying tutto va in automatico, per cui perplessità e considerazioni realistiche verranno travolte dagli slogan e dagli spot pubblicitari. Dopo l’assassinio di Rabin, colpevole di essere militarista ma non lobbista, il nuovo astro della politica israeliana è stato Benjamin Netanyahu, tuttora in carriera di primo ministro dopo oltre venticinque anni, grazie al fatto di essere un collettore di soldi. Netanyahu è infatti sopravvissuto ed ha prosperato nonostante il disprezzo unanime di cui è fatto oggetto, anche da parte dei suoi alleati politici. La contiguità politica di Netanyahu con i mandanti dell’assassinio di Rabin non lo ha per niente scalfito. Neppure lo hanno danneggiato l’amicizia e la collaborazione con il reverendo evangelico statunitense Jerry Falwell, il fondatore della “Moral Majority”. Falwell era infatti un noto antisemita, ed aveva anche lanciato la profezia secondo cui l’Anticristo sarebbe stato un ebreo.
Falwell era antisemita ma non antisionista, tutt’altro; infatti era un finanziatore del sionismo; e si sa che il denaro è il miglior deodorante. Fino alla sua morte nel 2007 Jerry Falwell rimase il principale esponente del sionismo cristiano negli USA, mentre invece il suo figlio omonimo, e suo successore alla guida del business evangelico, nel 2020 è stato scalzato grazie al solito scandalo sessuale. Il caso di Jerry Falwell dimostra che in politica il lobbying, cioè il flusso di denaro, prevale sempre sulla visione strategica come quella di un Rabin, ed anche sul fanatismo ideologico, come quello dei sionisti e padri fondatori dello Stato di Israele. Prima del rapporto personale e di affari con Netanyahu, Falwell infatti era stato supporter finanziario di Menachem Begin, già capo del gruppo terroristico Irgun e poi primo ministro israeliano. Negli anni ’90 il partito di Begin, il Likud, era ormai talmente assuefatto all’afflusso di soldi che accolse la leadership di Netanyahu come il drogato accoglie il pusher. All’inizio degli anni ’80 il sionismo evangelico era già la componente principale della “Israel lobby”, in grado di decidere la composizione del Congresso e del Senato attraverso il controllo di milioni di voti e di un flusso di finanziamenti elettorali. Grazie al denaro degli evangelici si è potuta avviare la colonizzazione dei territori della Cisgiordania; ed anche di Gaza, fino a che il primo ministro Sharon tra il 2004 ed il 2005 non dovette ritirarsi prendendo atto che mantenere quell’occupazione comportava troppe spese e troppe perdite tra i suoi soldati. Fu una delle ultime volte in cui un governo israeliano prese decisioni in base ad una valutazione dei costi e dei rapporti di forza.
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