Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Quaranta anni fa, il 16 maggio del 1983, moriva a Napoli, a trentatré anni, il compagno Peppe furia. Segnato sin dall'infanzia da una terribile invalidità, causata da un incidente e dalla negligenza medica, fu un autodidatta e divenne un punto di riferimento del movimento anarchico napoletano negli anni '70 ed all'inizio degli anni '80.
Fu un maestro di anti-utopia. Non si lasciò sottomettere dalla retorica dell'integrazione del disabile e rifiutò di credere, e di far credere, che una qualche società ideale avrebbe potuto guarire, o lenire, il suo male.
Ci lascia la sua instancabile rabbia contro la crudeltà e l'ingiustizia.
Neppure i media mainstream sono del tutto impermeabili al filtraggio di notizie scomode, perciò il “debunking”, la demolizione delle cosiddette “fake news”, finisce per colpire persino informazioni diffuse dagli organi di stampa che fanno da riferimento al cosiddetto mainstream.
Stavolta è toccato al quotidiano “la Repubblica”, che aveva dato conto della riottosità delle autorità francesi nell’attuare la parte loro spettante per realizzare la Tratta ad Alta Velocità tra Torino e Lione; che, come è noto, prevede un devastante traforo in Val di Susa.
Il debunking operato dal solito sito “Open” in realtà non demolisce un bel nulla, in quanto non può bastare una mezza dichiarazione rassicurante da parte di una ministra francese per concludere che la notizia sia esagerata o inattendibile. Non soltanto si dà la possibilità che queste mezze smentite siano state sollecitate dai nostri politici, ma c’è anche da considerare quella prassi comunicativa di lasciar intendere che ci si sta ritirando da un’iniziativa senza però esplicitarlo troppo, in modo da stemperare le eventuali reazioni. Insomma, i soliti “poi vediamo” o “mi faccio sentire io”, che sottintendono un no. Del resto siamo il Paese dello “stai sereno” che annuncia la fregatura, perciò dovremmo essere un po’ scaltriti riguardo alla retorica delle rassicurazioni.
La cosa strana però è che esattamente un anno fa un altro quotidiano aveva dato una notizia analoga: si tratta del “Foglio”, che è un giornale senza lettori e che vive esclusivamente di fondi governativi, ma ha ugualmente un ruolo nel dettare la linea al mainstream. Secondo
il “Foglio”, il sindaco di Lione s’era fatto infettare dal virus “no-TAV” e cominciava a porsi dei dubbi sull’utilità di completare il buco. Il redattore forniva la notizia corredandola col massimo dell’indignazione nei confronti del gallico fedifrago, commentando amaramente che le improvvide dichiarazioni del sindaco di Lione venivano proprio nel momento in cui il Demiurgo Draghi aveva finalmente rimesso ordine nel caos e consentito all’opera di ripartire. Anche un anno fa, dopo il primo scoop, la notizia del ritiro francese era stata ridimensionata sino a svanire man mano nell’oblio.
Sennonché trafficando un po’ su internet si scopre che le prime notizie sulla perdita di entusiasmo da parte della Francia nei confronti del buco risalgono a undici anni fa, addirittura al 2012. Ancora una volta la fonte della notizia non era il movimento “no-TAV”, bensì organi d’informazione considerati attendibili ed integrati col mainstream, come
il quotidiano online il “Post”. Del resto chi non fosse proprio un ingenuo, doveva aver già compreso che il consenso francese all’affare era stato offerto a condizione che il costo dell’opera fosse interamente a carico dell’Italia e dell’Unione Europea, e questo secondo pagatore stava venendo meno.
L’alta velocità è una tecnologia di origine soprattutto francese, perciò è abbastanza ovvio che
la multinazionale bancaria BNP Paribas ne sia stata la maggiore promotrice in Italia. Mentre le autorità francesi cominciavano la loro ritirata strategica dall’affare TAV, BNP Paribas continuava a sbolognare con successo l’alta velocità all’acquirente italico, il quale è aduso a certe retoriche di progresso tecnologico senza far caso alle differenze geografiche; per cui una tecnologia che può risultare conveniente in un contesto pianeggiante, comporta invece costi insostenibili allorché occorre sventrare montagne ad ogni piè sospinto; dato che in Italia non ci sono soltanto le Alpi, ma purtroppo anche gli Appennini. D’altra parte se si tenesse sempre conto del rapporto tra costi e benefici, il 99% degli affari andrebbe a farsi benedire. Al buco in Val di Susa corrisponde una voragine nella spesa pubblica, ed è proprio nella voragine che vogliono attingere le lobby d’affari. Economia e affari sono cose diverse e spesso divergenti, ma questo è un dato di fatto che il mainstream si guarda bene dal rendere accessibile all’opinione pubblica.
Nel 2012 già risultava troppo dubbia non soltanto l’utilità del buco in Val di Susa ma persino la sua realizzabilità, perciò, in base a valutazioni economiche, ci si sarebbe dovuti ritirare a propria volta da un affare troppo gravido di incognite. Si aggiungevano altri sospetti, basati su vari precedenti, tra cui quello della nuova autostrada “Brebemi” (Brescia-Bergamo-Milano), i cui
cantieri sono diventati depositi di rifiuti tossici. Nonostante varie evidenze, il nesso tra opere pubbliche e rifiuti tossici è un filone giudiziario che non riscuote grande interesse; forse perché i rifiuti tossici sono una cosa oggettiva e precisa, quindi non lasciano spazio alla creatività giudiziaria.
Fortunatamente è arrivata in soccorso del buco in Val di Susa la grande risorsa ideologica degli affari, cioè la caccia ai “violenti”. Uno storico idolo dei forcaioli è Giancarlo Caselli, mitico magistrato antiterrorismo e antimafia, che nel 2012 era il Procuratore della Repubblica di Torino. Caselli definì il movimento no-TAV come
un “laboratorio della violenza”. Cosa possano aver fatto i no-TAV per meritarsi un simile epiteto non è affatto chiaro, mentre è evidente l’effetto pubblicitario dello slogan, per il quale opporsi al buco diviene una manifestazione di primitiva e furiosa barbarie. Come al solito la dichiarazione venne stemperata dagli estimatori di Caselli, il quale non avrebbe voluto dire che proprio tutti i no-TAV sono dei violenti. Lo slogan però prevale sulle precisazioni, per cui, ad esempio, della pubblicità di un farmaco ti rimangono impressi i suoi presunti effetti mirabolanti e non il “può avere effetti collaterali, leggere attentamente le avvertenze”. Insomma, in democrazia dissentire è lecito finché rimane un’ipotesi del tutto astratta, ma in concreto chi dissente è sempre considerato un violento e un terrorista; tanto se il tafferuglista non c’è, ce lo si può sempre infiltrare. Gli affari potranno sempre rivendicare una superiorità morale e civile nei confronti di chi si oppone ad essi.
Il termine inglese “establishment” può essere reso adeguatamente, e concretamente, in lingua italiana con la locuzione “sistema degli affari”, perché il potere si sostanzia negli affari. Comunque lo si chiami, esso non può reggersi senza la collaborazione del potere giudiziario, a cui spetta di criminalizzare l’opposizione scoprendo ogni volta i suoi risvolti loschi, i suoi legami più o meno diretti con la violenza ed il terrorismo. Secondo la concezione costituzionalista, esisterebbero tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) che, in astratto, si dovrebbero tenere separati. Da alcuni decenni però si è andati ben oltre la vecchia fiaba della separazione e bilanciamento dei poteri; infatti è passata un’altra narrativa che ha spacciato la magistratura come un qualcosa di estraneo al potere, una specie di anti-potere, di anti-establishment. Si tratta del mito della magistratura vendicatrice degli oppressi, che ci fu propinato con successo all’epoca di Mani Pulite. Secondo l’inghippo logico caro ai forcaioli, la facoltà di mettere in carcere le persone non è un potere, anzi, sarebbe un modo di combattere il potere. Peccato che questa narrativa sia soltanto lo psicodramma allestito dal vittimismo dei potenti, complemento ideologico alla loro pratica impunità. Matteo Renzi è un noto esperto in fatto di impunità e vittimismo, e adesso ha pensato di andare a dirigere un giornale per raccontarci quotidianamente come viene perseguitato dai PM. Nelle carceri italiane ci sono circa cinquantamila detenuti, tra i quali, in base alla narrativa vittimistica dei potenti, dovrebbero esserci quasi tutti i CEO delle principali multinazionali.
Giancarlo Caselli è rimasto uno zelota pro-TAV persino da pensionato, come risulta da
una sua apparizione televisiva del 2019. Anche senza risvolti dietrologici o processi alle intenzioni, risulta abbastanza sconcertante la passione da lui manifestata nel cercare di dimostrare che l’opposizione al buco in Val di Susa sia dettata soltanto da irrazionalismo e da “tabù”. Non potendo più incarcerare i no-TAV, Caselli si è dovuto limitare a psichiatrizzarli.