Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Un giorno il Sacro Occidente si sveglierà, folgorato dalla luminosa evidenza di chi sia il colpevole di tutti i suoi mali: Enrico Mentana. Il nostro eroe tiene da anni un sito internet apposta per smascherare bufale e fake news; ed esattamente un anno fa ad esservi demolita era la versione circolata a proposito di un’intervista rilasciata dal finanziere George Soros all’emittente CNN. Mentana e soci si preoccupavano di smentire la voce secondo cui Soros avrebbe ammesso di essere lui l’organizzatore del colpo di Stato di piazza Maidan in Ucraina del 2014.
A piazza Maidan infatti non c’era Soros ma il senatore John McCain, mentre il governo del dopo-golpe fu selezionato da Victoria Nuland. La preoccupazione di Mentana però è ugualmente sproporzionata e mal diretta. Mentana dovrebbe infatti domandarsi se siano più insidiose le esagerazioni sul ruolo del miliardario ungherese-americano, oppure se sia più letale l’enfasi che proprio i media riservano a quel personaggio, per cui ogni sua intervista, o conferenza stampa, o semplice dichiarazione riesce a calamitare i giornalisti. Se i media insistono entusiasticamente sul fatto che nella politica estera occidentale sono determinanti dei soggetti privati con le loro fondazioni, poi non ha senso scandalizzarsi se qualcuno ci ricama sopra più del dovuto. Se poi Mentana dedica addirittura un sito alle attività dei cosiddetti complottisti, non può nemmeno indignarsi se questi si convincono di essere nel giusto. Non si tratta perciò di fake news, bensì di autointossicazione mediatica.
Mentana si allarma troppo se qualcuno per la guerra in Ucraina dà la colpa alla NATO che avrebbe circondato la Russia. Dovrebbe invece allarmarsi di più per ciò che dichiara proprio la NATO, la quale ci fa sapere di essere un’alleanza difensiva, che però non solo non ha difeso l’Ucraina, ma adesso le affida persino la missione di sconfiggere la Russia, dandole in cambio armi e la promessa di una ricostruzione; tanto con qualche centinaio di migliaia di morti se la cava. A questo punto qual è lo scoop, la notizia da prima pagina? Che Putin è cattivo, oppure che la NATO è inaffidabile? Adesso il “Financial Times” ci fa pure sapere che l’Italia ha spedito all’Ucraina degli obici difettosi. Insomma: mettete Meloni nei vostri cannoni. Ma le figuracce che i media anglosassoni riservano al solito capro espiatorio italico, servono a dissimulare il fatto che il business delle armi non implica necessariamente il riuscire effettivamente ad armarsi. In base ai consueti meccanismi del feticismo della merce, in quest’ultimo anno “armi” è diventata una parola magica, così come era già successo con la parola “vaccini”. Ma le armi richiedono, oltre che un processo produttivo, anche una manutenzione ed un munizionamento. Si scopre però che il Sacro Occidente si è deindustrializzato, perciò non ha più le capacità per produrre a sufficienza munizioni e pezzi di ricambio, perché non fanno profitto. La Russia ha tenuto per anni il sito industriale-militare di Rostec sottoutilizzato ed in pura perdita, mentre oggi lo utilizza a pieno regime; ma ha potuto farlo perché è tutto di proprietà pubblica.
Ci sono angoli del pianeta dove le prime pagine non le decide Mentana, perciò non c’è da stupirsi se in tanti nel mondo si sottraggano alla disciplina occidentalista. Qualche settimana fa persino l’Honduras ha disobbedito a Washington ed ha preferito aprire rapporti diplomatici con Pechino disconoscendo Taiwan. Nel linguaggio politico statunitense c’era l’espressione: “non lo si può trattare come l’Honduras”; come a dire: non si può darne per scontata la sottomissione. Oggi Washington può dare per scontata soltanto la sottomissione dell’Europa; ma se le cose dovessero mettersi davvero male per la NATO, anche gli oligarchi europei correranno a prostrarsi al nuovo padrone.
L’India è stata la peggiore delusione: si è scoperto che aiuta la Russia ad aggirare le sanzioni e che in un anno ha aumentato di otto volte le importazioni di materie prime russe, approfittando dell’opportunità offerta dalle sanzioni per ottenere prezzi di saldo. Molti commentatori ci sono rimasti male, anche perché l’India è un Paese democratico; infatti, come si è visto con l’uccisione di Indira Gandhi e di suo figlio, da quelle parti i cambi di regime avvengono “democraticamente”, cioè affidando l’eliminazione dei leader incomodi ad opportuni “estremisti”. Esattamente come è successo negli USA con Kennedy, in Israele con Rabin e, da noi, con Moro.
La cosa più grave è che ormai certe transazioni commerciali avvengono senza servirsi del dollaro statunitense come mezzo di pagamento. L’ISPI è l’istituto nostrano di studi geo-strategici, quello che già consigliava Mussolini, col brillante risultato che si è visto; ora l’ISPI si allerta per il tramonto del petro-dollaro e per l’avvento del petro-yuan. In realtà, se è vero che non esiste più il petro-dollaro, è comunque ancora presto per parlare del petro-yuan come nuovo punto di riferimento. Per ora, al di fuori del Sacro Occidente, ognuno fa i propri interessi economici e stringe gli accordi che ritiene vantaggiosi.
Sul piano ideologico e mediatico, il caso dell’India rimane il più interessante. Negli anni ’60 una delle coppie semantiche più fortunate era quella di “India-fame”. Nel 1966 il Vaticano, per diretta iniziativa di papa Montini, lanciò una grande raccolta di fondi per andare in soccorso delle popolazioni indiane colpite dalla carestia. In Italia il “rinforzo” televisivo per la campagna del Vaticano fu enorme, infatti vennero impegnati i giornalisti di punta come Sergio Zavoli, ed anche tanti divi dello spettacolo. I giornali si riempirono di storie edificanti, come quella del ragazzino che voleva regalare ai bimbi indiani la sua merenda di pane e frittata; ma non mancarono i dibattiti demenziali, nei quali ci si chiedeva perché nell’India affamata non si mangiassero le vacche sacre. Tutta la generazione di Mentana subì un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto che assorbì come un riflesso condizionato lo schema della superiorità del Sacro Occidente destinato a correre in soccorso dei popoli inferiori, che altrimenti, lasciati a se stessi, morirebbero di fame. Per gli Indiani, che non avevano chiesto nulla, la situazione risultò imbarazzante, al punto di offrirsi di pagare il riso che gli arrivava.
Mentana all’epoca era uno scolaretto sprovveduto (anche se meno sprovveduto di adesso). Ma questa suggestione collettiva nei riguardi dell’India coinvolse persino Pasolini; che pure era Pasolini, l’uomo capace di replicare alle più vili aggressioni morali e giudiziarie senza una punta di acrimonia; cose che appaiono leggendarie oggi che si reagisce alle critiche come se fossero una lesa maestà. In questi anni però si è mitizzato Pasolini facendone una sorta di profeta o gnostico, mentre invece era un osservatore della società non incanalato dal pregiudizio delle “magnifiche sorti e progressive”; ma all’inizio degli anni ‘60 c’era in atto un processo di decolonizzazione che appariva univoco, per cui non si erano ancora sperimentate tutte le declinazioni del neocolonialismo, nelle quali l’ingerenza viene giustificata come aiuto allo sviluppo, come difesa dei diritti umani o come lotta alla corruzione. Nel 1968 la RAI mandò in onda un documentario di Pasolini, presentato alla Mostra di Venezia, basato su appunti per un film sull’India, che poi non fu prodotto. C’era la storia dei figli di un maharaja che affrontavano una sorta di viaggio spirituale nel proprio Paese, e che alla fine, tanto per cambiare, morivano di fame.
Pasolini si occupava della fame dell’India da molto prima, e si era persino spinto ad avanzare certe analogie con la fame di Napoli; anche in questo caso agiva il mito di un nucleo etno-culturale, preindustriale e pre-consumistico. In realtà si è visto che anche la “diversità etnica” è un prodotto mediatico di consumo; per cui i media creano aspettative, euforie ed occasioni di business che sono solo merci ma possono essere spacciate per una sorta di “volksgeist”. Nel 1961 Pasolini fu anche lo scopritore di Madre Teresa di Calcutta, che all’epoca si occupava di assistenza ai lebbrosi e che venne da lui descritta con toni celebrativi.
A proposito di fortunate coppie semantiche: Madre Teresa e Calcutta; come a dire che la capitale dello Stato federale del Bengala Occidentale esiste solo in quanto oggetto di carità. Attraverso il filtro mediatico, la compassione diventa gerarchizzazione antropologica, cioè razzismo. Calcutta è così diventata a livello popolare una metafora iperbolica di miseria e degrado, utilizzata anche da Paolo Villaggio nei film di Fantozzi (“alito agghiacciante, tipo fogna di Calcutta”). In realtà uno dei distretti di Calcutta è storicamente sede di un’industria cinematografica in lingua Telugu; un’industria che, per volume produttivo, è seconda solo a quella di Bombay, che è in lingua Hindi. Un’altra industria cinematografica di rilievo si trova nello Stato indiano del Punjab, quindi in lingua Punjabi. Negli anni ’60 il numero dei film prodotti in India era impressionante, tanto da far impallidire Hollywood o Cinecittà buonanima. Si trattava di prodotti della lunghezza minima di due ore e che contenevano obbligatoriamente siparietti musicali e coreografici. Nata agli inizi del ‘900, già dagli anni ’50 l’industria dell’intrattenimento cinematografico aveva assunto in India livelli abnormi, spropositati rispetto alla pur notevole demografia indiana. I film indiani venivano anche provvisti di sottotitoli ed esportati in Asia, ma il grande target per quelle migliaia e migliaia di pellicole rimaneva lo spettatore indiano, grazie al bassissimo prezzo del biglietto.
In India si moriva spesso di fame, ma non ci si era specializzati in questo; per cui si era supplito alle scarse risorse a disposizione, industrializzando persino la futilità e l’oblio; ciò in quanto la cultura industriale non era un’importazione occidentale. Sino al XVIII secolo l’India deteneva i suoi primati nella produzione tessile e cantieristica e, come rilevato da Noam Chomsky in “Capire il Potere”, proprio il Bengala era l’area più industrializzata. La colonizzazione britannica ha fatto passare la deindustrializzazione forzata dell’India come immobilismo preindustriale e come esotismo; per cui si è inventata una “tradizione”, con la falsa immagine di un “popolo contemplativo” (tradotto: massa di fannulloni). Il Sacro Occidente ha subìto un’autointossicazione ideologica rispetto all’India, per cui è ovvio che oggi percepisca il riemergere di certe abilità economiche come una sorta di ingratitudine e di tradimento.
Secondo la narrativa ufficiale, la “democrazia” ammette il dissenso, purché non ricorra alla violenza; sennonché c’è il trucco, poiché ogni dissenziente sarà sempre considerato un violento, almeno potenziale. Nel mondo dell’idillio democratico c’è una categoria di lavoratori che è particolarmente oggetto di violenza. Gli insegnanti infatti subiscono quotidianamente ogni sorta di aggressione, che può consistere in sputi, spintoni, schiaffi, pugni, calci, testate, lanci di oggetti. Spesso le aggressioni sono di gruppo e vengono commesse da studenti o dai loro genitori, che agiscono quasi sempre con la connivenza, o addirittura con l’istigazione, da parte dei cosiddetti dirigenti scolastici, i quali sperano che eventuali reazioni scomposte ed esasperate da parte dei propri dipendenti consentano di metterli in procedura di licenziamento. La “aziendalizzazione” della Scuola richiede infatti il rituale sacrificale del licenziamento per potersi sostanziare; anche le “capacità manageriali” dei dirigenti vengono valutate in base al numero di dipendenti che riescono a mettere in procedura di licenziamento. Non va trascurato l’aspetto “educativo” del far partecipare gli studenti alla caccia all’insegnante da licenziare, poiché si crea in loro l’imprinting di trattare il posto di lavoro come un’alea e come una concessione, ed anche di considerarsi la milizia di una guerra civile contro i non conformi. Secondo l’aurea regola per la quale al danno deve aggiungersi sempre la beffa, proprio in questi giorni alla Commissione Cultura del Senato si sta decidendo di istituire un Osservatorio sulla violenza nei confronti del personale scolastico; per cui ipocritamente si ammette l’esistenza di un fenomeno ormai macroscopico, facendo però finta di ignorare che esso è un effetto inevitabile degli attuali meccanismi di management scolastico. L’aspetto più beffardo di questa iniziativa dell’Osservatorio sta nel fatto che prevede anche corsi di formazione, perciò ne risulterà un aggravio di orario per il personale scolastico e la solita distribuzione di appalti ad aziende private che si occupano di formazione.
Nella loro grande maggioranza gli insegnanti subiscono le violenze tacendone spudoratamente, e talora dissimulandone i danni fisici; se non fosse stato per l’esibizionismo degli studenti che hanno cominciato a rilanciare sui social i video delle loro imprese, il fenomeno sarebbe rimasto sommerso. Denunciare infatti è sempre un atto molto rischioso, in quanto espone ad ogni genere di calunnia, che diventa credibile per il fatto stesso di essere stati aggrediti. “Se ti hanno aggredito, qualcosa hai fatto”, un mantra che è un articolo di fede non solo per i dirigenti ma anche per poliziotti e magistrati; un mantra che è condiviso soprattutto dalla gran parte dell’opinione pubblica, la quale, quando filtrano le notizie di certi episodi, le accoglie con un maligno compiacimento. L’unico effetto che può derivare dal denunciare le violenze subite è perciò di diventare bersaglio di controdenunce ed anche di procedure disciplinari che il dirigente scolastico presenta, ovviamente, come “atto dovuto”. Capita persino che si lascino privi di assistenza i docenti feriti o doloranti; eppure l’omissione di soccorso è un reato grave e, nel caso dei dirigenti scolastici, ci sarebbe anche l’aggravante del fatto che sono considerati datori di lavoro.
Altre volte accade di peggio, poiché non pochi insegnanti pensano, o si illudono, di sopravvivere e di esorcizzare la paura facendosi a loro volta complici della violenza, cercando di indirizzare il bullismo verso i colleghi o anche verso gli studenti più deboli, in modo da esserne personalmente risparmiati. Le stesse bocciature sono per lo più un’occasione di sfogo della frustrazione invece che di vera valutazione, infatti vanno a colpire quasi esclusivamente gli studenti più miti e con genitori meno aggressivi. La sorte degli insegnanti dimostra che il ruolo di vittima, quando è effettivo e autentico, non comporta affatto riceverne compassione, solidarietà o un alone di nobiltà ed eroismo; semmai il contrario, cioè ne deriva un crescendo di isolamento morale, di umiliazione, di smarrimento della dignità personale, di avvilimento e degradazione, per cui ci si riduce in modo tale da non suscitare più nessuna empatia. Insomma, le vere vittime non indossano l’aureola, semmai emanano vibrazioni negative e vapori pestilenziali.
Il ruolo di vittima diviene invece redditizio, gratificante ed esaltante, addirittura glorioso, quando può essere interpretato dai potenti. Ogni volta che accade qualcosa di simile ad un attentato o ad un semplice gesto di intemperanza, i media lo enfatizzano al massimo e si scatenano in prediche contro la violenza cieca e bestiale che si indirizzerebbe contro chi cerca di realizzare il bene con lucidità e razionalità. Nel caso della mini-aggressione ricevuta dall’ex Presidente del Consiglio e leader 5 Stelle, Giuseppe Conte, c’è stata però una piccola variante al copione. Il profitto del vittimismo in questa circostanza è stato infatti interamente “sussunto”, risucchiato, dall’establishment, mentre al povero Conte non è stato lasciato quasi nulla da piluccare; anzi, come se fosse un insegnante, lo si è chiamato ad una sorta di concorso di colpa per l’aggressione ricevuta, dicendo un “ben ti sta” a chi ha voluto cavalcare e coltivare populisticamente ogni protesta ed ogni rancore contro l’establishment. Il presunto aggressore sarebbe infatti un no-vax ed un no-Zelensky, quindi il top dell’ignominia. Anche se come avversario dell’establishment Conte non è per niente credibile, in quanto si limita a stare alla pantomima, i giornalisti mainstream perdono ugualmente la misura, finendo per autosuggestionarsi e trattare i finti oppositori come se fossero realmente tali.
Ciò non toglie che qualche piccola riflessione utile anche al nostro Conte si potrebbe ricavarla da quanto gli è successo; e cioè notare come in certe vicende, apparentemente diverse, ricorra il cosiddetto “schema”, cioè un paradigma ripetitivo. Nel periodo psicopandemico, venivano bollati come “negazionisti” coloro che non negavano affatto l’esistenza della polmonite; semmai mettevano in evidenza che l’eccezionalità dell’evento consisteva nel modo in cui esso veniva trattato, cioè delegittimando e criminalizzando tutti i protocolli terapeutici adottati nei decenni precedenti. Anche nelle micidiali epidemie di influenza del 2015 e del 2017, tanti vecchietti si erano messi a tossire ed ansimare, ma erano stati, come al solito, imbottiti di antibiotici e cortisone dal medico di base, e non portati in ospedale per bruciargli i polmoni con la ventilazione forzata. Si imponevano quarantene di massa, nelle quali non venivano isolati i malati, come si faceva prima, bensì i sani. Queste ovvie osservazioni non venivano avanzate soltanto dai fessi qualsiasi, che si basavano solo sull’esperienza fatta con le vecchie zie ed i nonnetti, ma anche da illustri luminari della medicina e della ricerca. Sennonché, coloro che erano stati onorati come luminari sino a poco prima, venivano invece ridicolizzati, insultati, intimiditi, minacciati non appena ponessero dubbi su quella inedita gestione pandemica. La salvezza definitiva veniva arbitrariamente demandata all’attesa di oggetti mitici, i “vaccini”, i quali, ancora una volta, assumevano tale denominazione distaccandosi dalle precedenti procedure, tanto che saltavano i protocolli di sicurezza e venivano non solo messi in commercio, ma addirittura imposti, con autorizzazioni provvisorie. Ciò senza preoccuparsi del fatto che i vaccini costano, e costano anche i milioni di siringhe necessarie per inocularli; e inoltre i vaccini sono effimeri; però per essere acquistati comportano tagli su tutte quelle che sono le strutture sanitarie durevoli.
Anche nell’attuale vicenda bellica, l’eccezionalità non consiste nella guerra in sé (una delle tante dispute di confine verificatesi nella Storia), ma nel modo in cui viene affrontata. Ad esempio, non si può avviare una trattativa neppure per una tregua se l’invasore prima non se ne va. Ci si dice che non si tratta mentre si spara; ma prima si trattava per vedere anche come solo smettere di sparare, poi dopo si vedeva. A chi chiede un impegno per porre fine alla guerra, si risponde di dirlo a Putin. Che prima gli aggressori se ne vadano, poi dopo, se proprio non abbiamo nient’altro di meglio da fare, forse avviamo una trattativa. Udiamo capi della diplomazia proclamare che non è tempo di diplomazia. E allora che li pagano a fare? Nella propaganda i Russi sono i cattivi, e va bene; ma gli Ucraini non sono soltanto i buoni, sono inesauribili e vinceranno inesorabilmente, magari nelle prossime reincarnazioni.
Dopo i vaccini arrivano altri oggetti feticistici: le “armi”, entità magiche che sembrano dotate di poteri propri, che possono vivere in eterno, che vincono la guerra sparando da sole, come se non avessero un costo, non avessero bisogno di istruzione per essere usate, di manutenzione per funzionare, di munizionamento per sparare, quindi come se non richiedessero capacità produttive a lungo, lunghissimo, termine. E in quali stabilimenti? E con quali materie prime? Se cresce indefinitamente la spesa per gli armamenti, quali altre spese dovranno essere sacrificate? A chiunque cerchi di porre domande concrete, si oppone il solito repertorio sperimentato in epoca psicopandemica: insulti, ridicolizzazioni, intimidazioni, minacce.
Lo schema prevede un’emergenza inedita e inusitata ed un prodotto salvifico che la può contrastare; risulta quindi facilmente riconoscibile che si tratta di un paradigma pubblicitario, nel quale però la merce pubblicizzata non affronta i rischi e le incertezze dei meccanismi della domanda e dell’offerta ma, come una sanguisuga, trova il modo d’applicarsi ad un flusso di denaro pubblico. Le care vecchie categorie ottocentesche di politica ed economia quindi non funzionano più, dato che si tratta di lobbying. Anche la concezione dell’imperialismo che molti pacifisti stanno esibendo in questo periodo appare segnata da luoghi comuni ottocenteschi, per cui sembra che la povera Europa sia succuba della protervia statunitense che le impone i suoi interessi. In realtà due giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il Cancelliere tedesco Scholtz aveva chiuso il gasdotto North Stream come sanzione alla decisione russa di riconoscere le repubbliche indipendentiste del Donbass: Il gesto di Scholtz faceva saltare l’equilibrio dei poteri in Russia tra Gazprom e l’esercito, a favore di quest’ultimo.
L’entusiasmo dimostrato in quell’occasione dal governo tedesco nel rinunciare al gas russo, non ha alcun senso politico o economico; è invece perfettamente compatibile con un’operazione di lobbying a favore della cosiddetta transizione ecologica, che corrisponde esclusivamente alla logica delle bolle finanziarie in Borsa gonfiate dal denaro pubblico. La lobby è una mera macchina d’affari ed ha un orizzonte ristrettissimo, perciò non si pone alcun problema di equilibrio economico o di mediazione politica, ma punta solo al tornaconto immediato. Nell’attuale governo tedesco i principali ministeri (Economia ed Esteri) sono affidati ad esponenti del partito dei Verdi, i quali hanno abbandonato la concezione ambientalistica che li caratterizzava quarant’anni fa, per concentrarsi esclusivamente sulla guerra alle emissioni di CO2. Gli attuali Verdi quindi non sono un partito ma una lobby d’affari che usa slogan idealistici a scopo pubblicitario, alla maniera dei Neocon statunitensi. Del resto un lobbying palese non potrebbe essere efficace; è come la pubblicità: più è occulta e più funziona. Secondo una ricerca pubblicata dal quotidiano “The Guardian”, il partito dei Verdi è quello che ha ricevuto più finanziamenti elettorali da parte di privati, superando così il partito della Merkel per disponibilità di fondi. Il principale finanziatore dei Verdi tedeschi è un filantro-capitalista olandese, che esprime così il suo “amore per l’umanità”, ovvero il suo lobbying camuffato.
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