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"Gli errori dei poveri sono sempre crimini, mentre i crimini dei ricchi sono al massimo 'contraddizioni'."

Comidad (2010)
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Di comidad (del 23/03/2023 @ 00:10:28, in Commentario 2023, linkato 8824 volte)
Quando si dice la famosa “eterogenesi dei fini”, l’accidente per cui si fa una cosa con uno scopo e si ottiene invece l’effetto contrario. Il governo Draghi aveva comminato il regime carcerario del 41bis all’anarchico Alfredo Cospito per alimentare una pseudo-emergenza-terrorismo in modo da spingere il business del controllo digitale. I meschini volevano solo organizzarsi in santa pace il loro solito saccheggio del denaro pubblico, invece si ritrovano a dover fronteggiare uno sputtanamento in grande stile del 41bis. Certo, c’è ancora molta ingenua confusione da parte di chi crede di dover “denunciare” che il 41bis è tortura; come se non lo sapessero già tutti, come se la tortura non fosse stata sin dall’inizio l’elemento più attrattivo e appetitoso per le masse nello spot con cui è stato venduto il 41bis. Lo scopo ufficialmente dichiarato del 41bis era quello cautelativo, cioè di isolare il boss criminale dai suoi legami associativi; ma lo scopo “ammiccato” era ancora più importante, poiché sin dall’inizio si è fatto intendere all’opinione pubblica forcaiola che l’intento prioritario del 41bis sarebbe stato quello vendicativo, di infliggere sofferenza aggiuntiva rispetto alla detenzione, anche per spingere al cosiddetto “pentimento”. Il 41bis ovviamente è “tarato” sullo standard etico comune, quello secondo cui ci si difende accusando gli altri; tutto salta quando invece ci si scontra con lo standard etico di chi è pronto ad addossarsi anche colpe non proprie pur di non fare il delatore o non farsi strumentalizzare per incastrare altri; quanto alle “sofferenze aggiuntive”, c’è anche chi è pronto ad infliggersele da solo pur di non cedere a ricatti e minacce.
Il dato increscioso del 41bis non sta perciò nello scoprire per l’ennesima volta che l’umanità è disumana e che la tortura è sempre rimasta in vigore, bensì in qualcos’altro. La dissimulazione di questo “qualcos’altro” è stata operata con vari pretesti. Per giustificare il regime del 41bis a Cospito, si è detto dapprima che Cospito si rivolgeva ai suoi sodali per inviare messaggi sovversivi; quindi si ammetteva che col 41bis si colpivano delle opinioni, visto che un anarchico non comanda su niente e nessuno. Allora contrordine: dal “Forca Quotidiano” tuonano che le opinioni non c’entrano, che Cospito sta al 41bis a scontare i crimini che gli vengono attribuiti: la “gambizzazione” (secondo il neologismo BR) di un vip dello smaltimento delle scorie radioattive, ed il tentativo di far strage di allievi carabinieri con un petardo. L’indignazione per l’attentato al dirigente di Ansaldo Nucleare, attribuito a Cospito, sarebbe stata un po’ più credibile se ci si fosse indignati anche di fronte alla negligenza per la quale un signore che gestiva nientemeno che energia nucleare e scorie radioattive, non fosse neppure monitorato dai servizi segreti nostrani. Ansaldo Nucleare fa parte del gruppo Leonardo-ex Finmeccanica che, all’epoca dell’attentato ad Adinolfi, era amministrato e presieduto dal manager Giuseppe Orsi. Pochi mesi dopo quell’attentato Orsi incappò in un processo da cui uscì assolto, ma che lo neutralizzò per sei anni. Messo da parte Orsi nel 2013, da quel momento la presidenza di Leonardo è sempre toccata ad ex dirigenti dei servizi segreti.

Ma, a parte questi dettagli, il dato notevole è che, secondo Marco Travaglio e soci, galere ed ergastoli sono da considerare alla stregua di gite scolastiche, e soltanto col 41bis si comincia a fare un po’ sul serio. Tutta questa manfrina inoltre ha poco senso, dato che Cospito non chiede il ritiro del 41bis per sé ma l’abolizione per tutti. Stando così le cose, non era il caso che, pur di giustificare il 41bis a Cospito, il Gran Confessore Massimo Giletti bruciasse, a mo’ di kamikaze, un agente provocatore piuttosto versatile come Gianluigi Paragone.
Continuare a puntare i riflettori su Cospito serve a far finta di ignorare ciò che lo stesso Cospito ha invece messo in evidenza. Il problema è che il 41bis avrebbe dovuto rimanere nell’alone vago e indefinito della leggenda, dello spot pubblicitario, e non rivelarsi nei suoi dettagli concreti. Dai cialtroni Donzelli e Del Mastro abbiamo appreso anzitutto che il 41bis non è affatto un regime di isolamento, ma prevede persino incontri tra i boss mafiosi. Per premio Donzelli e Del Mastro sono stati messi sotto scorta; un onore che pare spetti di diritto a tutti quelli che fanno cazzate, mentre si lascia esposto alle cattiverie del mondo uno che maneggia energia nucleare e scorie radioattive. La vita è ingiusta. Poi vi lamentate del fatto che presunti “amici di Cospito” vadano in giro ad incendiare qualche auto e spaccare qualche vetrina. Non sprecate preziose forze dell’ordine a fare da balia a Donzelli e Del Mastro, così sarete in grado di schierare per le strade molti più agenti, che potranno mettere a ferro e fuoco intere città, visto che quelle mezze seghe di anarchici non ci riescono.
I maggiori guai per il 41bis vengono però dai giornalisti, i quali ormai sono talmente disabituati a capire l’importanza delle notizie, che finiscono per rivelare delle enormità senza neppure rendersene conto. Il mese scorso il quotidiano “il Giornale” ci ha infatti comunicato che il Ministero della Giustizia non ha mai fornito un elenco ufficiale dei detenuti al 41bis, per cui sia il numero di quei detenuti (pare oltre settecentosettanta), sia i loro nomi, derivano solo da ipotesi giornalistiche.
Quando si sottolineano certi dettagli scabrosi, arriva sempre l’imbecille professionista ad accusarti di fare dietrologie ed ipotesi di complotto, mentre in realtà si sta parlando proprio della sua imbecillità che gli impedisce di notare ciò che c’è davanti, in piena evidenza. Il problema infatti non è ciò che sta dietro il 41bis, bensì consiste proprio nel fatto che potrebbe esserci di tutto, visto che il ministero non si prende la responsabilità neppure di dirci chi siano i detenuti sottoposti a quel regime carcerario. Ci avevano dichiarato che il 41bis serviva come misura cautelativa, poi ci avevano ammiccato che in realtà era tortura; adesso scopriamo che c’era un “terzo segreto di Fatima”, cioè che il 41bis è un contenitore carcerario di totale arbitrio e mancanza di trasparenza, come la Bastiglia dei tempi di Luigi XVI. Anche a difesa dell’odierna Bastiglia, ci sono tantissime Lady Oscar, come Travaglio, Giletti e Paragone. La differenza invece è che mentre nella Bastiglia del 1789 ormai c’erano rimasti solo quattro detenuti, col 41bis ci stiamo avviando verso il migliaio.

Ma di cosa ci preoccupiamo? Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (il DAP) è lo specchio delle virtù, infatti da decenni è oggetto di denunce per procedure torbide nell’assegnazione degli appalti. La Procura di Roma segue sempre lo stesso rituale: avvia l’indagine e poi dà tempo al tempo per insabbiare tutto. Nel 2014 Alfonso Bonafede chiese addirittura l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare per indagare sulle magagne del DAP. Ma poi Bonafede è diventato ministro della Giustizia ed ha deposto queste velleità. Eppure ce ne sarebbero delle belle, in quanto pare che si “mangi” persino sul business dei pasti ai detenuti. Il DAP ha addirittura assegnato alla stessa azienda di ristorazione sia l’appalto per i pasti ordinari ai detenuti, sia per lo spaccio a pagamento di cibo all’interno delle carceri. Si è così delineato un evidente conflitto d’interessi, dato che quanto peggiore è il cibo fornito nei pasti ordinari, tanto più si sarà costretti ad acquistare cibo allo spaccio. Il DAP però assicura che non c’è conflitto d’interessi, perché, anche se l’azienda è la stessa, si tratta di due contratti diversi (sic!). Di fronte ad una tale sottigliezza giuridica, nessuno potrebbe mai dubitare che il DAP faccia un uso meno che limpido dell’oscurità del 41bis.
Sin dalle sue prime versioni alla fine degli anni’80, il regime carcerario del 41bis ha sempre incontrato consenso e popolarità, ed il fatto che sia una particolarità italiana, lo ha reso anche un motivo di orgoglio nazionale. L’oligarchia italica ha costruito il suo specifico percorso di grandeur, di ascesa di status internazionale, attraverso la dimostrazione e l’esibizione della propria capacità di controllo sociale, di trasformare tutto un popolo in una cavia. La peculiarità dell’imperialismo italiano è appunto quella di porsi come partner e sponda di imperialismi maggiori; quindi un modello imperialistico non basato principalmente sulla guerra verso l’esterno ma sulla guerra civile, sul regolamento di conti permanente.
Il Risorgimento, il fascismo e l’antifascismo hanno tutti fondato la propria epopea sulla conflittualità interna; anche l’emergenzialismo Covid ha rappresentato uno dei momenti più esaltanti per lo status internazionale dell’oligarchia nostrana, dato che in Italia si è inventato il lockdown, ed in più siamo stati l’unico Paese che ha adottato misure come il green pass per accedere ai luoghi di lavoro, l’obbligo vaccinale e la gogna per i cosiddetti no-vax. Questa euforia di grandeur degli oligarchi ha coinvolto la gran maggioranza della popolazione. In questa epopea della guerra civile, nell’ultimo mezzo secolo sono rientrati soprattutto l’antiterrorismo e l’antimafia, quindi il 41bis è diventato un fiore all’occhiello del nostro prestigio internazionale ed il suo fascino si impone trasversalmente agli schieramenti ideologici di destra o sinistra. Ogni tanto qualche ONG dei diritti umani fa finta di criticare, ma proprio il minimo necessario.
Il “forca-pacifismo” (forca all’interno, pacifismo all’esterno) è un anomalo prodotto ideologico tipicamente italico, ed infatti l’establishment nostrano non è riuscito ad allestire una gogna per putiniani altrettanto efficace della gogna per no-vax. Oggi chi parla contro la guerra è più popolare di chi ne parla a favore, e i più popolari tra i pacifisti sono anche dei forcaioli. Di solito ottusi quando trattano di questioni interne, i forcaioli hanno invece compreso che in questa guerra non si confrontano ideologie o modelli sociali (democrazia o autocrazia o qualche altra fesseria), bensì interessi imperialistici, cioè affari e zone d’influenza; il che comporta rischi molto peggiori della cara vecchia Guerra Fredda dal 1949 al 1989. Il forca-pacifismo italico sconta però una contraddizione insormontabile che lo condanna all’inettitudine pratica: non ci si può opporre all’attuale bellicismo dell’establishment poiché si condivide lo stesso modello di controllo sociale interno dell’establishment. In altri termini, una società “tracciata” e militarizzata in nome dell’antiterrorismo e dell’antimafia, finirà automaticamente per essere piegata ad usi e fini militaristici, anche se non vorrebbe.
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Qualche giorno fa il direttore del “Forca Quotidiano”, Peter Gomez, si domandava come mai la Francia scende in piazza mentre noi no. Gomez avrebbe dovuto indagare su se stesso. In Italia al primo accenno di movimento di piazza, si sarebbe già scatenata un’emergenza-terrorismo e quindi si sarebbe cominciato ad erigere la forca mediatica e giudiziaria. Qualcuno ricorderà che per qualche protesta contro il Green Pass, la Digos aveva già avviato operazioni di polizia contro una sorta di “Brigate No-Vax” o “Nuclei Armati Terrapiattisti”. Non ci si è fatti mancare nulla, neanche l’assalto alla CGIL con tanto di scorta Digos.
L’abolizione del Reddito di Cittadinanza fortunatamente non ha suscitato proteste, il che ci ha evitato che spuntasse qualcosa come le BFSD, le Brigate dei Fannulloni Sdraiati sul Divano. Questa non è una mera ipotesi, poiché nel dicembre scorso un disoccupato fu incriminato per violenza privata in seguito ad un tweet contro Giorgia Meloni; ciò con la tecnica mediatico-giudiziaria ormai consolidata, per cui l’assenza di concretezza della minaccia e dell’offesa viene surrogata con la suggestione e l’artificiosa indignazione. Se il popolare “va’ a morì ammazzato” e le sue varianti sono catalogati come reato, ciò vuol dire precludere la possibilità di esprimere il proprio disappunto a tutti coloro che non abbiano avuto l’occasione di dotarsi di un bagaglio di abilità retorica. Ma nemmeno la competenza retorica sarà sufficiente se persino la critica sarà considerata un movente terroristico.
Lo schema emergenziale è in gran parte lo stesso di mezzo secolo fa; infatti nel 1969 l’ondata di rivendicazioni salariali fu sedata con le bombe e con la fabbricazione del mostro mediatico-giudiziario; mentre tra gli anni ’70 e ’80 si poté avviare la deindustrializzazione dell’Italia grazie all’emergenza brigatista. Al Sud si fu più creativi, e si fece ricorso ad un misto di emergenza terroristica e camorristica. La novità è però che oggi la categoria di terrorismo si è molto dilatata, e ormai il concetto di attentato è diventato talmente labile da includere qualsiasi forma di “lesa Maestà”.
In un film anglo-irlandese del 1993, “In the Name of the Father”, ci hanno spiegato come si svolgessero le indagini sugli attentati, veri e anche presunti, dell’IRA negli anni ’70: le prove venivano fabbricate e le confessioni venivano estorte agli inquisiti con la minaccia di far del male ai loro congiunti. In tal modo furono incastrate anche persone che non c’entravano assolutamente nulla. Queste cose brutte ovviamente avvengono solo in Paesi arretrati e incivili come il Regno Unito, mentre da noi gli inquirenti sono al di sopra di ogni sospetto.

In Italia il sistema di controllo poliziesco è ben strutturato, per cui ci sono un livello legale ed un altro illegale che si completano a vicenda. Nella Sicilia degli anni’40 la polizia manganellava i contadini che protestavano, mentre il bandito Giuliano alle manganellate faceva seguire gli spari. Nella Sicilia degli anni ’50 i sindacalisti come Rizzotto e Carnevale (tutti socialisti) che organizzavano l’occupazione delle terre, venivano arrestati dalla polizia ma, una volta usciti dal carcere, finivano uccisi dalla mafia. Fortunatamente oggi in Italia non c’è più bisogno di ammazzare i sindacalisti e neppure di spendere per corromperli, poiché è sufficiente intimidirli con le inchieste giudiziarie per terrorismo. Una ventina di anni fa il segretario della CGIL, Sergio Cofferati, criticò il docente universitario Marco Biagi per la sua collaborazione con i progetti di precarizzazione del lavoro. Per quelle critiche Cofferati fu automaticamente sospettato di essere il mandante morale dell’omicidio di Biagi. Gli ingenui si aspettavano che Cofferati difendesse le buone ragioni della critica e del conflitto sociale contro l’uso pretestuoso dell’emergenza-terrorismo; invece Cofferati capì l’antifona e decise di riciclarsi anche lui nel sistema poliziesco, mettendosi a fare il sindaco sceriffo a Bologna. Per non scadere nel facile moralismo, bisogna anche dire che in certe situazioni bisogna trovarcisi, cioè sentirsi addosso la tenaglia mediatico giudiziaria e, nel contempo, quell’opinione pubblica che, pavlovianamente, comincia a sommergerti salivando odio. Per quelli che si illudevano di vivere in una società progredita ed in uno Stato di Diritto forse deve essere un risveglio troppo brusco. Stabilito che non ce ne frega nulla di mettere alla gogna Cofferati come persona, rimane però il problema della delegittimazione del sindacato, diventato un ambito in cui costruirsi un prestigio e delle competenze, da andare a rivendere poi al padronato. Già negli anni ’60 e ’70 c’erano tanti Walter Mandelli che passavano dall’associazionismo operaio all’associazionismo imprenditoriale; ma da un certo punto in poi si è “normalizzato” il meccanismo di porta girevole per il quale dei giuristi hanno usato il sindacato come trampolino e vetrina in modo da poter offrirsi come consulenti al governo o a Confindustria. Se poi questi giuristi sono fatti oggetto di attentati o di generiche “minacce terroristiche” e quindi il loro nome può essere usato per santificare leggi contro il lavoro (la Legge 30/2003 che diventa per i media “Legge Biagi”), allora il sindacalismo diventa solo un fraudolento prelievo dal salario del lavoratore; tanto più se chi, come Cofferati, avrebbe dovuto stigmatizzare il conflitto di interessi, diventa a sua volta un portagirevolista. Le motivazioni dei singoli portagirevolisti sono irrilevanti; potrebbero essere anche le più nobili, ma sta di fatto che il conflitto di interessi è diventato il contesto e quindi nessuna istituzione è attendibile.
L’imbecille professionista tradurrà sempre la questione del conflitto di interessi come “complotto”; in realtà il complotto, se c’è, è solo un accessorio; mentre quello che conta è il contesto ed il modo in cui agisce sulle persone; per cui il conflitto di interessi si concretizza in automatismo di comportamenti, che saranno percepiti come ovvi e dati per scontati. Se gli attentati santificano i loro bersagli, se possono essere usati addirittura per santificare delle leggi o dei business, allora il sistema di potere non avrà oggettivamente interesse ad impedire gli attentati. Se poi la porta girevole tra servizi segreti e mondo degli affari viene istituzionalizzata da una Legge (la 124/2007), allora gli attentati ed il loro effetto santificante saranno oggettivamente convenienti. Non ci sarà neppure bisogno di esagerare con gli attentati, col rischio di inflazionarli; basterà coltivare nell’opinione pubblica il rancore e il desiderio di vendetta per episodi di decenni e decenni addietro, tenendo sempre vivo l’istinto della “caccia”.
La serie televisiva “Il Cacciatore” (davvero ben scritta, ben recitata, ben confezionata) è diventata giustamente la nuova epopea dell’Italietta, la celebrazione del suo sistema di potere, che è appunto la “caccia” come strumento di una vendetta sociale; la caccia in se stessa, perché la preda è intercambiabile. Non è necessario dar sempre la caccia a mafiosi o terroristi, ci si può accontentare di dare la caccia anche solo a “evasori” o a “furbetti del cartellino”. L’importante è tenere vivo quel clima di regolamento di conti nel quale il potere si materializza.

Secondo alcuni analisti strategici americani, l’amministrazione Biden con il conflitto simultaneo contro Russia e Cina, ha imboccato una strada senza uscita, per cui di qui a poco la NATO e l’UE potrebbero essere a rischio di auto-estinzione, e l’Europa potrebbe addirittura ritrovarsi sotto l’influenza russa. Ammesso che questa analisi sia corretta, ciò cosa cambierebbe per l’Italia? Nulla, assolutamente nulla. Vedremmo gli stessi che oggi danno la caccia ai putiniani, trasformarsi in cacciatori di antiputiniani. Non sono i padroni a fare un sistema di potere, ma sono i servi. I Mentana, i Vespa, i Severgnini, i Parsi si riciclerebbero e ci farebbero il processetto alle intenzioni per scoprire se siamo abbastanza degni di Putin. Ci farebbero anche capire perché sarebbe giusto sacrificarsi per il nuovo ordine mondiale dominato da Russia e Cina. Dagli anni ’40 in poi, la mafia ha “convinto” i contadini siciliani a concedere spontaneamente i terreni per erigere basi militari USA, e un domani la stessa mafia potrebbe adoperarsi per allestire basi militari russe. L’imperialismo russo è piuttosto povero e non potrebbe permettersi più di una piccola base navale; ma non c’è problema, poiché, per compiacere il nuovo padrone anche oltre i suoi desiderata, si potrebbe sempre chiamare a pagare il contribuente italiano tenuto sotto ricatto con un’emergenza-terrorismo; oppure, meglio ancora, con un’emergenza mafio-terroristica, di quelle che ti infangano senza rimedio. Grazie all’esempio luminoso che proviene dall’Italia, anche Macron imparerà ben presto come sedare le rivolte in Francia. Se gli occorre, mandiamo in Francia qualche nostro agente dell’AISI o qualche nostro PM a fare corsi di formazione.
L’Italietta può salvare non soltanto la Francia, ma l’intera civiltà occidentale, che oggi è sotto una bufera finanziaria talmente grave da colpire la maggiore roccaforte del potere bancario, la Svizzera. Credit Suisse, l’Istituto svizzero di gestione dei fondi criminali di mezzo mondo, è riuscito a fallire. Eppure aveva tutte le carte in regola: i farabutti di ogni dove potevano contare su di un porto sicuro per i loro gruzzoletti. Tagliagole, trafficanti di organi, signori del narcotraffico, mafiosi e ‘ndranghetisti, ma anche soggetti ancora più loschi, come i dirigenti della Siemens e di altre multinazionali, avevano fornito depositi che si aggiravano attorno ai cento miliardi di franchi svizzeri, che corrisponderebbero a circa novantacinque miliardi di euro. Credit Suisse aveva subito anche un processo-farsa per riciclaggio di capitali mafiosi, cavandosela con una multa di due milioni di euro, cioè il prezzo di un paio di appartamentini di Zurigo.
Naturalmente, la Banca Centrale svizzera è intervenuta per salvare questi gentiluomini con un robusto sostegno. L’altro colosso svizzero, UBS ( cinque trilioni di franchi di capitalizzazione), si è fatto avanti per acquisire i cugini in difficoltà. Come ultimo regalino, Credit Suisse azzera miliardi di obbligazioni secondarie, lasciando in braghe di tela (si fa per dire) molti fan. Quindi il crimine, ovvero i criminali, non pagano; e, come sempre accade, coloro che dovrebbero far rispettare la legge, diventano invece complici. Il crimine invece salva, almeno parzialmente, gli azionisti. Sarà perché i primi due azionisti si chiamano Arabia Saudita e Qatar? Certo, perché pare che le due petro-monarchie si siano scaltrite dopo aver visto il sequestro dei depositi russi nelle banche occidentali; e, sebbene la Svizzera abbia cercato di preservare la sua neutralità bancaria, ora pretendono super-garanzie per continuare a fidarsi di interlocutori occidentali. A questo punto, lo Stato federale svizzero assumerà tutte le sembianze dell’UBS. Basti pensare che la struttura bancaria federale che dovrebbe controllare le banche ha solo cinquecentocinquanta dipendenti, contro i centoventimila dell’UBS, che però ora sfoltirà il personale a causa della fusione. Le sanzioni hanno reso il sistema bancario occidentale meno affidabile e pare che Cina e India siano pronte ad approfittarne. Visto che c’è poco da sperare in afflussi di capitali asiatici, la soluzione è una sola: sarà il contribuente europeo a dovere tenere in piedi la baracca; parliamo ovviamente dei contribuenti poveri, poiché quelli ricchi continueranno a mandare i soldi nei paradisi fiscali. Ma, per tener buone le masse da spremere, c’è il know how italiano a disposizione.
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Titolo
FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


24/11/2024 @ 01:16:33
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