Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Non c’è quasi nulla di ciò che sta facendo Draghi che non potesse fare anche Conte, Green Pass compreso. Il “quasi” si riferisce all'unica cosa che Conte non poteva fare, cioè imbarcare la Lega nel governo per ottenerne l’omertà; all’inizio l’omertà riguardava il Recovery Fund, facendo finta di non vedere che non è un aiuto ma nuovo debito e nuovi vincoli.
Oggi l’omertà è sul Green Pass, ed è un’omertà remunerativa, visto che c’è da partecipare alla gestione del business delle app di certificazione sanitaria. I tempi tecnici per l'introduzione del Green Pass comportano pause e rallentamenti; ciò può essere utilizzato politicamente dalla Lega, per accreditarsi presso il proprio elettorato come la forza che frena gli eccessi del governo. I ritardi e gli intoppi tecnici nell'applicazione del Green Pass vengono spacciati da Salvini come propri successi.
L'unico motivo che poteva giustificare la formazione del governo Draghi era questo gioco delle parti, cioè una complicità leghista spacciata come opposizione interna al governo. La presenza della Lega è l’unica vera ragione sociale dell’attuale governo ed è l’unico motivo per cui è stato ripescato Draghi. Ovviamente per i media non è facile narrare questa situazione, perciò i commentatori finiscono per avvitarsi nelle proprie menzogne. I media ci assicurano che l'introduzione del Green Pass ha incontrato il consenso della stragrande maggioranza degli Italiani, tranne le solite frange di no-vax. In tal modo risulta impossibile spiegare i motivi di questa apparente conflittualità nel governo, di un Draghi in perenne lotta con un Salvini di cui non si decide a liberarsi. Se la Lega non stesse distribuendo contentini al proprio elettorato, che anzi non la seguirebbe in queste battaglie, allora perché Salvini insiste nell’agitarsi?
Ecco che si affacciano le spiegazioni “esoteriche” alla Ezio Mauro, che ci descrive una specie di energia negativa che si condensa in grumi reazionari, una specie di gara tra Salvini e la Meloni nell’assecondare le tendenze oscurantiste di una parte minoritaria della società. L’opinione pubblica “progressista” viene così educata a temere l’espressione dei bisogni dei poveri, che sono preda dell’irrazionalità, ed a fidarsi dei banchieri, l’unico argine “razionale” contro la barbarie latente nel popolo.
La realtà però è che il Green Pass ha spaccato il fronte dei vaccinofili, poiché ha reso evidente che non vi sarà fine all’emergenza, quindi ha tolto credibilità alla stessa campagna vaccinale. Le giustificazioni del Green Pass sono cominciate con la menzogna del poter stare in sicurezza in ambienti affollati; poi, dopo la menzogna A, quasi subito è arrivata la menzogna B, affidata al divo televisivo dottor Crisanti e rilanciata dal giornalista Travaglio, cioè che il Green Pass serva da surrogato dell'obbligo vaccinale per indurre i riottosi a vaccinarsi. Il messaggio implicito del Green Pass è invece l'opposto: vaccinarsi non ci farà tornare alla normalità, anzi nuove restrizioni sono in arrivo. Ci avevano detto che vaccinandoci saremmo tornati alla normalità; ora ci dicono che per tornare alla “libertà” ci vuole il Green Pass. La reazione scontata è stare in attesa di cos'altro si inventeranno per prolungare l’emergenza. Minacciare l’obbligo vaccinale è a sua volta un nonsenso, poiché può solo indurre molti ad aspettare che l’obbligo sia effettivo per vaccinarsi senza dover firmare la liberatoria, che per parecchi cittadini è la vera pietra dello scandalo.
Appare chiaro che la campagna vaccinale non è più la vera priorità del governo, cosa che ha deluso i vaccinolatri fanatici della “sinistra antagonista”, che ci si erano giocati la faccia, dimostrando che per loro la priorità non era di smascherare l'ipocrisia dei ricchi ma di fare la morale ai poveri. Scaricare l'onere del rischio della vaccinazione esclusivamente sul cittadino rientra nel classico doppiopesismo, per il quale, quando si presenta il conto, dai poveri e deboli si pretende il pagamento in contanti, mentre i ricchi e potenti possono “pagare” con impegni vaghi e generici, cioè con le cazzate. Alle menti “razionali” e “scientifiche” lo stabilire quale dei due sistemi di pagamento sia il più conveniente. L’Uomo Ragno diceva che a molto potere corrisponde molta responsabilità; purtroppo nella realtà è vero l’esatto opposto: più potere si ha, più è facile sfuggire ad ogni responsabilità.
Affermare che il Green Pass abbia qualcosa a che vedere con la Sanità, rientra appunto nella pura narrativa. Il Green Pass è invece un obbiettivo in se stesso, uno strumento di digitalizzazione di massa. Per ora la versione hard del Green Pass è attuata solo in Italia, Francia e alcuni Stati degli USA, mentre la grande maggioranza degli Stati europei si è tirata indietro, sebbene abbiano meno vaccinati di noi. Questo isolamento di Italia e Francia nel contesto europeo viene occultato dai media italiani, ma non sta qui l'aspetto preoccupante. Anche nel caso della scelta del lockdown, l’Italia all’inizio era isolata, e persino oggetto di scherno da parte degli altri Paesi europei; persino l'Organizzazione Mondiale della Sanità non avallò la scelta del governo Conte. Poi è arrivato il Fondo Monetario Internazionale, che ha sponsorizzato il lockdown, celebrandone persino i vantaggi economici a lungo termine, al che un po’ tutti, tranne la Svezia, si sono adeguati alla direttiva.
I motivi dell'opposizione dell'elettorato leghista al Green Pass sono soprattutto economici. La base elettorale della Lega è composta in gran parte di piccoli imprenditori e loro dipendenti, per i quali il messaggio di un'emergenza infinita equivale alla prospettiva di estinzione. La Lega è costretta quindi a barcamenarsi con un comportamento bipolare: mentre il ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti partecipa ai grossi affari legati alla digitalizzazione, al povero deputato Borghi spetta di cercare di tenere buono un elettorato che si sente tradito, mentre Salvini fa la banderuola.
Tra i tanti paradossi della posizione leghista, c’è anche quello che l’emergenza Covid è stata scatenata pretestuosamente all'inizio del 2020 proprio da parte di una Regione guidata dalla Lega. Il presidente della Regione Lombardia, il leghista Fontana, aveva lanciato l’emergenza sanitaria come grande prova tecnica di “autonomia differenziata”, cioè per strappare privilegi fiscali per il Nord. Ogni emergenza è una cordata di affari e di centri di potere, ma c'è una competizione, così spesso capita che il capo della cordata possa essere scalzato da qualche altro lobbista. Fontana, che aveva dato avvio alla fuga emergenziale, si è ritrovato sopravanzato da Conte e Speranza.
Comunque nell’emergenza Covid l’Italia non è, e non è mai stata, a rimorchio di nessun altro Paese. Persino nel crimine di vaccinare i ragazzi, oggi l’Italia procede da sola e per conto proprio. Nei giorni scorsi Draghi ha celebrato la figura dell’ex ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, che ha bene incarnato l’avventurismo criminale delle oligarchie italiane; un avventurismo che però ha sempre trovato la sponda di una fascia di opinione pubblica trasversale alle ideologie e morbosamente incline al moralismo facinoroso.
Di comidad (del 19/09/2021 @ 00:36:09, in Storia, linkato 6903 volte)
Una testimonianza di Giosuè Vezzuto,
nato a Ischia il 6 luglio 1924, professore in scienze, chimica e geografia.
GINO LUCETTI NELL’ISOLA D’ISCHIA
Il 16 settembre 1943. Discussione con Gino Lucetti.
Estratto dai miei appunti autobiografici
Qualche giorno dopo l’8 settembre 1943 in Ischia vedemmo passeggiare insieme un gruppetto di uomini non ischitani. Venimmo a sapere che erano ex detenuti politici confinati a Ventotene, liberati dagli Alleati e sistemati nello stabilimento militare Francesco Buonocore a Porto d’Ischia.
Io e i miei amici – mi riferisco a Franco Buono, ai fratelli Michele ed Enrico Longobardi, a Enzo Baldino, a Salvatore D’Ambra, a Coppola – eravamo desiderosi di conoscerli per poter discutere di politica. Da loro c’era molto da apprendere.
La dittatura fascista circoscrisse e delegittimò la cultura politica. Quella vera, nel suo ampio significato. E la limitò solo alle sue idee. Cosa che fanno tutte le dittature. C’era infatti a riguardo un “hic sunt leones”. Per cui noi studenti liceali eravamo, in politica, in uno stato di grande e grassa ignoranza. Che sentivamo con sofferenza, eccome, dentro di noi. E che ci spingeva, con avido desiderio, come affamati ed assetati, verso dove si poteva trovarla.
Riuscimmo a stabilire con gli antifascisti un contatto. E alla sera, mentre essi passeggiavano, noi potevamo unirci a loro ed ascoltarne i discorsi. Ogni tanto ci permettevamo di fare qualche domanda. Eravamo timidi ed impacciati nei loro confronti. Quasi sempre parlava un albanese. Non ho mai saputo il suo nome, perché, in verità, non l’ho mai chiesto. Questi era basso e tarchiato. Forse questi due caratteri fisici potrebbero farlo individuare, perché doveva essere un personaggio di spicco del rigido e rigoroso partito comunista albanese. Gli altri antifascisti lo ascoltavano con un gelido silenzio o fingevano di ascoltare i suoi monologhi. Cioè era un tipo che, come si dice volgarmente, “rompeva i timpani”. Ho ancora ben impresso nella mia mente alcune sue frasi. Eccone una: “Io sarò paracadutato in Albania dagli Alleati perché io devo capitanare la rivolta antinazifascista”. A parte la sfacciata millanteria, non mi sembrava il tipo adatto né per l’età, né per il fisico, ad essere paracadutato. Poi io mi meravigliai che potesse esternare e rendere di pubblica ragione un importante segreto militare. Noi eravamo educati ed abituati al motto fascista: “Taci, il nemico ti ascolta!”
Quella sera, in cui l’albanese pronunciò la citata frase, ero vicino ad un simpatico giovane greco. Simpatico da ogni punto di vista: per aspetto fisico e per comportamenti personali. Gli chiesi: “Anche tu sarai sbarcato in Grecia”. Usai la parola “sbarcato” perché mi sembrava la più adatta. E lui, con molta tranquillità e discrezione abbassò semplicemente le palpebre degli occhi per dire sì. Quanta differenza con l’albanese! Quanta modestia e serietà! Dopo di che mi resi conto perché gli Alleati erano così generosi con gli antifascisti: non facevano niente per senza niente.
Un’altra frase dell’albanese, che ricordo benissimo, fu: “Le guardie carcerarie sono crudeli aguzzini”. Io mi permisi di intervenire nel suo monologo e dissi: “Ma non tutti”. “Tutti! Tutti! Tutti!” Questa fu la sua violenta ed arrabbiata risposta.
Papà era una guardia carceraria e non era “un crudele aguzzino”. Chi ha conosciuto mio padre può confermarlo sinceramente. Quindi, se prima per istinto non mi era simpatico, allora dopo la sua stizzosa risposta, lo odiai. Indubbiamente. E non lo ascoltai più. Perciò mi misi a discutere col simpatico e gentile giovane greco. Tra di noi si stabilì una buona amicizia. Lui voleva migliorare il suo italiano ed io l’ho aiutato. Io volevo leggere i giornali che loro ricevevano ogni giorno. E lui me li dava. Così ebbi l’occasione di leggere giornali di cui ignoravo l’esistenza: L’Avanti, l’Unità, Bandiera Rossa, il Giorno. Per inciso faccio notare che in quel tempo, a Ischia, in commercio non si trovava nessun giornale. Questa situazione durò un bel po’.
Intanto l’amico Franco Buono, che abitava a via Roma a Porto d’Ischia a circa cento metri dallo stabilimento termale militare, aveva stretto amicizia con Gino Lucetti, l’anarchico che fece un attentato a Mussolini. Io avevo dei preconcetti grossolani sugli anarchici. Ma Franco mi assicurò che Lucetti era gentile, colto e ben disposto a discutere con i giovani. Perciò mi invitò a partecipare agli incontri che lui teneva con Gino nel parco della Pagoda sia al mattino sia al pomeriggio-sera.
Franco studiava alla Nunziatella a Napoli che era ed è un liceo militarizzato. Intendeva far carriera militare, che vedeva in pericolo ed era per questo inquieto e preoccupato. Ho partecipato con Franco, alla Pagoda, in un solo pomeriggio-sera al colloquio con Gino Lucetti e propriamente il 16 settembre 1943, cioè il giorno prima della loro morte. In quel pomeriggio, più che in altre occasioni, mi resi conto che Franco aveva già acquisito una spiccata mentalità militare. Non faceva solo domande a Gino, ma gli replicava vivacemente. Allora l’argomento dell’animato e appassionato dibattito, fra i due, fu quello della pace e della guerra. Due frasi che ricordo bene anche a distanza di diversi anni, e che mi colpirono, possono dare abbastanza bene l’idea dell’animosità della disputa. Quella di Franco è la seguente: “Se non si faranno più guerre la storia finirà e questo è impossibile”. Controreplica di Lucetti: “Mica la storia è fatta solo di guerre”. Botta e risposta. Sparate di frasi semplificative ma significative.
Io ho potuto discutere con Lucetti, Franco permettendo, un solo argomento: l’autarchia. Lui iniziò il suo discorso con questa frase incisiva e sentenziosa: “L’autarchia è una politica economica di miseria per il paese che l’applica e crea miseria anche nel mercato internazionale”. Fece una serie di esempi di processi autarchici antieconomici, quali la coltivazione del grano in terreni con bassi sedimenti e l’estrazione dei minerali di ferro dalle nostre spiagge, da cui si ricavava un acciaio scadente. Mi parlò di forti dazi applicati per difendere autarchicamente prodotti vegetali ed industriali nazionali spesso di scarsa qualità. Mi riferì finanche del problema del petrolio libico che noi non eravamo in grado di estrarre per mancanza di macchinari nostrani adatti allo scopo. Macchinari che, per motivi autarchici, non compravamo dagli U.S.A. e dalla Gran Bretagna. Paesi che avevano ed hanno una forte industria petrolchimica, una vasta tecnologia ed una numerosa schiera di tecnici altamente qualificati. Tecnici di cui noi, allora, eravamo carenti. Perciò l’autarchia non contribuiva allo sviluppo industriale ed economico dell’Italia. Inoltre essa, oltreché contribuire a formare un falso orgoglio nazionale, costituiva, già in tempo di pace, una preparazione pratica e psicologica alla guerra. Invece lo sviluppo dell’Italia si poteva avere facendo una politica di pace e di amicizia tra i popoli (argomento che era il suo cavallo di battaglia). Questa politica permetteva di utilizzare le risorse economiche disponibili al fine di costruire non un’industria di guerra, che non crea ricchezza e beni utili per la gente, ma un’industria di trasformazione delle materie prime in prodotti con alto valore aggiunto. Lucetti, con convinzione, asserì anche che la politica di pace e di amicizia tra i popoli permetteva di abolire i confini onde consentisse agli uomini, merci e capitali di circolare liberamente.
Io ascoltai Gino con la massima attenzione. Senza interromperlo. Cercai di capire il più possibile. Adesso le sue idee mi sembrano giuste, semplici ed ovvie. Ma allora no. E non posso negare che su certi argomenti, come quello dei confini, io rimasi fortemente incredulo. Devo dire, però, che lui ribaltò ed annientò le mie idee fasciste sull’autarchia. Idee inculcate nella mia mente in tanti anni di indottrinamento.
Gino, in altre parole, ci espose quella concezione di idee che poi è stata definita “l’utopia di Ventotene”, cioè la dottrina di Altiero Spinelli, antifascista confinato a Ventotene e considerato un padre fondatore dell’Unione Europea.
Gino Lucetti era una persona garbata e affabile. Una persona colta ed informata. Questa fu la conclusione a cui arrivai dopo quella discussione avuta con lui. E in questo fui d’accordo con Franco.
Verso sera accompagnammo Gino allo stabilimento militare. Io fissai un appuntamento per l’indomani pomeriggio. Franco anche uno al mattino.
A questo punto desidero fare alcune considerazioni: l’utopia di Ventotene è diventata realtà. I visionari di allora si sono rivelati i veri realisti. E Gino Lucetti fu uno di loro. Ma questo l’ho capito tanti anni dopo. I benefici previsti sono sotto i nostri occhi: uomini, merci e capitali circolano liberamente attraverso i vari confini degli stati europei.
Io e la mia famiglia abbiamo potuto verificarli, constatarli e beneficiarne. Sia quando andavamo a trovare i miei suoceri in Germania e sia quando andavamo a trovare a Praga la nostra figlia Silvia e i tre nipotini.
Mi viene voglia di gridare a gola piena: “Che bella cosa è l’Unione europea”. Perché? Perché ho bene in mente i disagi, i fastidi, e la perdita di tempo che ci creavano, ai confini, i controlli meticolosi e rigorosi dei poliziotti e dei doganieri. Prima dell’U. E.
Inoltre, con essa e per essa, abbiamo avuto un lungo periodo di pace e di benessere. E il turismo, che crea lavoro, ricchezza ed amicizia tra i popoli, non solo, ma anche cultura, se ne è avvantaggiato moltissimo. In Italia, che è ricca di bellezze naturali e storiche, esso è diventato un’attività economica molto importante e florida. E questo noi ischitani lo possiamo affermare benissimo.
Il 17 settembre 1943.
LA MORTE DI GINO LUCETTI E DI FRANCO BUONO
Il 17 settembre 1943 feci, come al solito, una passeggiata pomeridiana, andando al Porto d’Ischia. Non era però una usuale passeggiata: avevo un appuntamento con Gino Lucetti e Franco Buono nel parco della Pagoda. Per discutere di politica, avevo un vivo desiderio di sentire ed apprendere le idee antifasciste. Queste mi potevano essere utili per la revisione delle mie idee fasciste. Come ero intenzionato a fare. Mentre camminavo, pensavo alle domande da porre a Gino. Sapevo che ero in ritardo, ma non mi preoccupavo: comunque li avrei trovati alla Pagoda. Forse Franco – così pensavo allora – aveva già sfogato abbastanza e poteva dare più spazio e più possibilità a me di fare domande a Gino. Ne avevo preparato diverse.
Camminando con passo svelto, ero arrivato a via Roma, una trentina di metri dopo il bar Diaz, a Piazza Croce, cioè a circa dieci minuti di cammino per arrivare alla Pagoda, quando ho sentito un colpo di cannone proveniente dalla terraferma. Subito ho capito che era l’inizio di un cannoneggiamento tedesco sul Porto d’Ischia, dove c’erano navi militari inglesi ed italiane. Siccome quel tratto di via Roma, al lato est, da dove era venuto il colpo di cannone, era aperto perché c’è una larga strada, via Francecso Buonocore, che porta alla spiaggia, tornai indietro correndo velocemente. Ed entrai nella sartoria-boutique di Filippo Ferrandino, detto “Capo di ferro”. Questa era protetta, al lato est, da un gruppo di case. Quindi là si era al sicuro dai colpi di cannone. Mi misi a parlare con Filippo del più e del meno, aspettando che finisse il cannoneggiamento.
Alla fine del bombardamento si sparse subito la notizia che Franco Buono e Gino Lucetti erano stati colpiti. Ed erano morti. Pare che fossero stati colpiti dal primo proiettile sparato. Franco morì subito mentre Gino, gravemente ferito, si trascinò fino alla ex centrale elettrica che stava al porto in via Iasolino.
La notizia mi scioccò: là per là rimasi bloccato, impalato. Subito dopo un freddo tremore si diffuse in tutto il mio corpo. Un nodo alla gola mi impedì di parlare. E poi grosse lacrime incominciarono a scendere sul mio viso. Per non farmi vedere che piangevo e per concentrarmi in me stesso – come uso fare, nella mia vita, nei momenti di difficoltà – me ne andai senza proferire parola. Feci un breve cenno di saluto con la mano destra a Filippo. Che mi fissava negli occhi, mettendomi a disagio.
Mi diressi verso casa. Camminavo tristemente e facevo fatica a trattenere le lacrime, che mi asciugavo continuamente. Tanti pensieri frullavano nella mia testa, dove c’era una Babele. Ma due erano dominanti. Il primo: “Per fortuna che ero in ritardo. Se no cosa sarebbe stato di me?” E il pensare che avrei potuto morire anch’io, mi impauriva e mi riempiva d’angoscia. Mi consideravo “un fortunato”. Oggi mi sento di dire “un graziato dal Signore, le cui vie sono infinite”. L’altro pensiero era: Gino Lucetti è morto per discutere con noi. Per colpa nostra. Ed anche un senso di colpa mi affliggeva e mi avviliva.
A casa mi gettai subito sul letto. Il mio ritorno fu un sollievo per i miei genitori che furono in apprensione per me. Mio padre notò il mio turbamento e si informò se il bombardamento aveva fatto dei morti al Porto d’Ischia. Lo misi al corrente con poche parole. Non riuscii a dormire durante tutta la notte. La mia mente era sempre una Babele.
All’indomani mattina non ebbi il coraggio di far visita ai morti. Era troppo per me. Il solo pensare di vederli sfigurati mi metteva in crisi. Il pomeriggio mi feci coraggio e andai al Porto. Come al solito. Non ero al corrente di niente: non chiesi a nessuno notizie dei funerali. Al Porto d’Ischia notai che sul marciapiede davanti al bar Diaz, si faceva la commemorazione funebre di Gino Lucetti. C’era diversa gente. Io mi sono fermato al marciapiede opposto. Dietro a tutti. Come è mia abitudine.
Là vidi, per la prima volta, alzate di braccia destre col pugno chiuso. Ad ogni motto. “Compagno Gino noi ti vendicheremo”. E via, energicamente, braccia destre in alto col pugno chiuso. Fu una sorpresa. Rimasi impressionato. Quasi impaurito. (Poi mi sono abituato).
Era il tarchiato albanese a gridare i vari motti. E fu lui a tenere l’orazione funebre. Ascoltai un poco e poi me ne andai a casa. Per la scarsa simpatia che avevo per lui. E poi non avevo voglia di vedere gli amici ai quali, naturalmente, avrei dovuto raccontare il perché della mia crisi. Ma non avevo voglia di parlarne. Ero chiuso in me stesso. E volevo rimanere solo. Solo con me stesso.
Più tardi ci fu un altro bombardamento tedesco, mentre le bare di Franco e Gino venivano portate al cimitero. C’era al seguito molta gente che corse a ripararsi dai colpi di cannone. E le bare rimasero sole in mezzo alla strada (Questo particolare mi è stato riferito dall’amico Enrico Longobardo, che seguì il funerale).
Ho avuto l’occasione di vedere a Monte di Procida la piazzola da dove veniva cannoneggiata Ischia nel settembre 1943. A cannoneggiare era il famoso cannone tedesco da 88 mm. Un multiuso: cannone antiaereo, anticarro, navale, ecc.
E’ stato il mio omonimo cugino residente a Monte di Procida, in una delle visite fattegli, a farmi vedere la piazzola e a darmi le informazioni sul cannone.
Da consigliere comunale, eletto nelle liste del P.S.I., nel 1965, mi sono impegnato per far mettere nel parco della Pagoda, dove sono stati colpiti a morte Franco Buono e Gino Lucetti, una scultura, un bassorilievo o almeno una lapide che ricordasse l’avvenimento. E ho cercato anche di far intitolare a Gino Lucetti un pezzo della strada Iasolino, a partire dalla ex centrale elettrica, dove lui si è accasciato morto a terra. In tal modo si potrebbero unire la strada dedicata a Franco Buono, la strada che porta alla Pagoda, e quella che si potrebbe dedicare a Gino Lucetti. Unirle così come essi furono uniti nella morte. I miei tentativi non ebbero successo. E sono rimasti pii desideri. Il motivo dominante era: siamo un paese turistico e non vogliamo mortificare i tedeschi che sono i principali e più numerosi turisti stranieri in Ischia. Era sindaco l’avvocato Umberto Di meglio. Prima di me, per lo stesso scopo, ci aveva provato Michele Longobardo, consigliere eletto nella lista del P.C.I. Era sindaco Vincenzo Telese. Il motivo era sempre lo stesso.
Per l’anniversario della morte di Franco e Gino, a questo estratto dai miei appunti autobiografici, aggiungo quanto segue.
E se ci provassi ancora oggi, esattamente alla distanza di 69 anni dalla loro morte? Mi auguro che questo scritto possa servire allo scopo. Mi domando: dopo tanti anni dalla caduta del fascismo, siamo diventati democraticamente maturi? Mi permetto di dire, alla mia avanzata età, che non tener conto e in considerazione la propria storia è una cosa grave e deplorevole. Sia ben chiaro : la storia non si può cancellare. Voglio sperare che gli amministratori odierni abbiano una mentalità diversa. Una mentalità più aperta. Mi auguro che persone di buona volontà possano far proprie queste idee e portarle avanti con impegno. Se si dovesse decidere per una scultura o un bassorilievo si potrebbero raccogliere i soldi con una colletta per evitare, in tempi di crisi economica, di aggravare il bilancio comunale.
Sono convito che si potrà, anzi, che si dovrà rendere giustizia alla nostra storia. E’ tempo di farlo! E questo potrebbe avvenire nel 70° anniversario della morte di Franco e Gino. Anniversario che accade nel prossimo anno.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Ischia, 2012
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