Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Può essere un indizio interessante il fatto che alla divinizzazione di Mario Draghi operata in questi giorni dal mainstream italiano, non abbia partecipato proprio il quotidiano confindustriale “il Sole-24 ore”, un organo che, in linea con la sua associazione-madre, più che di interessi strettamente industriali appare preoccupato delle sorti delle banche. Senza esporsi in prima persona, ma riportando opinioni di poco identificati “terzi”, il quotidiano insinua dubbi sugli effetti del “bazooka” di Draghi, il mitico “Quantitative Easing”, constatando che l’aver determinato una tendenza ai tassi di interesse negativi, non solo non ha ottenuto gli auspicati effetti di aumento dell’inflazione, bensì effetti opposti, addirittura di deflazione.
La domanda che agita il mondo bancario è quanto possa sopravvivere il sistema creditizio ai tassi negativi. Le banche stanno perdendo non solo ogni incentivo a prestare denaro a imprese e famiglie, ma persino a prestarsi il denaro tra loro. I tassi negativi lasciano come unica prospettiva quella di investire sui titoli azionari, alimentando bolle speculative sempre più ingovernabili. Grazie alla BCE, oggi è proprio l’Europa a guidare l’universo dei tassi negativi e nel deflazionismo dell’area-euro è stato coinvolto indirettamente persino il sistema bancario svizzero, che pure dall’euro avrebbe voluto rimanere immune.
In base alla regola aurea secondo la quale al peggio non vi è mai limite, sembra proprio che le banche rappresentino in questa fase anch’esse un bersaglio di poteri finanziari ancora più invadenti, cioè i fondi di investimento. L’anno scorso la voce critica a riguardo fu ancora una volta il quotidiano confindustriale, che notò la strana incongruenza della scelta della BCE di affidare gli “stress test” sulle banche al colosso americano dei fondi di investimento, Blackrock. Il business in sé era già enorme, poiché Blackrock incassava prebende faraoniche per le sue “consulenze”, ma quello era solo l’antipasto.
In effetti il conflitto di interessi in quella circostanza era piuttosto evidente, poiché Blackrock sta acquisendo da tempo quote azionarie delle banche ed è ovviamente avvantaggiata dal crollo del valore dei loro titoli in borsa. In altre parole Blackrock ha tutto l’interesse a presentare un quadro catastrofico della situazione finanziaria delle banche, dato che ciò facilita le sue acquisizioni. Uno dei “gioielli” italiani già nelle grinfie di Blackrock è Unicredit, ma le partecipazioni azionarie del fondo di investimento americano si espandono in modo sempre più tentacolare.
Blackrock ha soppiantato Goldman-Sachs come immagine della piovra finanziaria che domina il mondo ma, anche in questo caso, occorre stare attenti a non invertire il rapporto tra causa ed effetto. Larry Fink e soci sono una banda di delinquenti comuni magari abili e certamente ben ammanigliati, ma comunque niente di che. Il punto vero è che oggi sono due secoli di civiltà liberale e di presunto “Stato di Diritto” a presentarsi al rendiconto.
Il liberalismo storico che predicava lo “Stato forte”, uno Stato che non riconosca poteri superiori a se stesso, si è appiattito poi sul liberismo, sino a diventarne un sinonimo. Lo Stato liberale era nato per contrastare le oligarchie nobiliari ma poi si è arreso senza combattere davanti alle oligarchie finanziarie. Gli Stati si sono dimostrati proni e irresponsabili nell’immolarsi al feticcio liberista dell’illimitata mobilità dei capitali, che rende permeabili e gelatinose tutte le istituzioni “pubbliche”, trasformandole in canali del lobbying finanziario.
Il “quantitative easing” di Draghi, spacciato dai media come un “salvataggio dell’euro”, si è rivelato alla lunga un lobbying a favore di Blackrock e consimili. Nel 2014 la BCE, nella persona del suo presidente Draghi, operò persino una sortita mediatica che configurava gli estremi del reato di aggiotaggio, cioè la diffusione di notizie false o esagerate che compromettono il valore dei titoli. Dall’alto della sua immunità giudiziaria, sancita dai Trattati, Draghi dichiarò che dovevano considerarsi a rischio tutti gli istituti bancari in possesso di troppi titoli di Stato. Secondo Draghi non erano a rischio le banche che si erano riempite di titoli derivati e di altra carta straccia, bensì quelle che avevano pensato bene di affidarsi ai titoli di Stato. Come a dire, le banche più a rischio sono le meno malate. Era un’affermazione che screditava i titoli bancari, proprio in un periodo in cui erano già sotto pressione nelle Borse. Le banche con meno titoli derivati e più titoli di Stato sono quelle italiane, perciò qualcuno all’epoca notò che Draghi accompagnava il suo bazooka anche con qualche siluro ben direzionato verso il proprio Paese.
Le relazioni pericolose di Draghi con il sistema dei fondi di investimento non hanno impedito al mondo politico italiano di prostrarsi con le brache calate di fronte alla sua sacra immaginetta. Molti auspicano sfacciatamente che l’ex presidente della BCE venga a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio, come se a Draghi potesse mai interessare un mestiere da sfigato come è oggi quello di guidare un governo. Sarebbe interessante assistere alle reazioni dei nostri politici, se Draghi si decidesse a rendere palesi i suoi rapporti con Blackrock accettando un ruolo dirigente in quel potentato finanziario.
(Ringraziamo “GiorgioGiorgio” per la collaborazione, per le segnalazioni e per eventuali critiche).
La ricorrenza del cinquantenario della strage di Piazza Fontana è stata inaspettatamente l’occasione per qualche lampo di lucidità. In un dibattito organizzato dall’ANPI si è riconosciuta finalmente l’inattendibilità della storiella mainstream secondo la quale i probi magistrati sarebbero stati vittime dei depistaggi orditi dai cattivissimi “servizi deviati”. In realtà è un dato storico che in più circostanze la magistratura sia stata essa stessa in prima persona a operare per intralciare la ricerca dei fatti e per nascondere le responsabilità più evidenti.
La cosiddetta “deviazione” non è stata quindi la caratteristica di un solo apparato del sedicente Stato ma ha riguardato più “istituzioni” nel loro complesso. In base ad una visione marxista lo Stato nella concezione liberale o hegeliana è, nel migliore dei casi, una “falsa coscienza”, mentre nel peggiore dei casi è una mistificazione ideologica. La tradizione marxista ha perciò definito lo “Stato” come un “apparato di classe”. Sarebbe una buona definizione, ma solo traendone appieno le conseguenze.
Come apparato di classe lo “Stato” tende a ridefinire, riadattare e reinterpretare continuamente le proprie regole in base non solo alle esigenze del conflitto di classe ma anche in base alle oscillazioni del conflitto intercapitalistico e del prevalere di questa o quella lobby. A ciò bisogna aggiungere le vicende del conflitto imperialistico, con le conseguenti ingerenze imperialistiche, particolarmente pesanti per Paesi in condizione coloniale come l’Italia. È ovvio che, sotto questa massa di sollecitazioni, l’apparato tenda a dissolversi nei rivoli della destabilizzazione, a produrre destabilizzazione. Lo “Stato” perciò non si configura come ordine costituito o ordine pubblico, bensì come un luogo di conflitto che finisce per assumere la confusione come proprio marchio di fabbrica. Se le parole devono avere un senso, definire come “Stato” un organo di destabilizzazione, appare quantomeno azzardato.
C’è l’abitudine a considerare l’Italia un caso estremo e a sé stante, in nome di un mitico “altrove” dove le cose andrebbero diversamente. A smentire questo luogo comune arrivano le attuali cronache statunitensi, con la procedura di “impeachment” che la maggioranza del Congresso USA sta cercando di attuare a carico del presidente in carica, il cialtrone Trump. Il caso da cui la procedura è partita è di per sé abbastanza strano. Il cialtrone Trump avrebbe cercato di fare pressione su un capo di Stato straniero per ottenere informazioni circa gli intrallazzi affaristici di un suo concorrente alla corsa presidenziale, il democratico Joe Biden. L’eventualità che Biden andasse in Ucraina per fare i propri affari, quindi non farebbe scandalo, ma diventa invece scandalo il fatto che il presidente in carica abbia cercato di assumere informazioni a riguardo.
Ma ciò riguarda solo l’aspetto folcloristico ed estemporaneo della vicenda, mentre è più interessante cercare di capire come mai un apparato politico-istituzionale sia andato a favorire l’elezione alla presidenza di un personaggio esteriormente arrogante ma intrinsecamente debole, che ha in sé la configurazione e la vocazione del facile bersaglio. Anche in questo caso una fiaba mediatica ci presenta un CialTrump asceso alla Casa Bianca per volere della “pancia” della nazione contro le manovre dell’establishment. Sennonché, guardando i numeri, si scopre che CialTrump è stato eletto pur prendendo due milioni di voti in meno della sua rivale Hillary Clinton. Un presidente eletto soltanto per effetto delle alchimie elettorali del sistema americano. Occorreva quindi ben poco per scongiurare quell’elezione, se davvero si fosse voluto impedirla.
Sarebbe bastato anche un candidato appena meno impresentabile della Clinton per evitare l’ascesa di CialTrump. Non a caso la Clinton ha dovuto far ricorso ad ogni genere di trucco e di raggiro per raggiungere l’obbiettivo della candidatura. Se fosse stata eletta, quindi anche la Clinton si sarebbe rivelata esposta ad ogni genere di attacco.
Al di là delle chiacchiere, la politica estera statunitense non ha presentato con il nuovo presidente alcuna sostanziale differenza. Il caso recente della Siria ne è stato un’ulteriore dimostrazione. In altre parole, CialTrump non rappresenta alcun pericolo né per il cosiddetto “deep State” americano, né per l’establishment finanziario e infatti alla Casa Bianca sono giunti immediatamente gli sponsor della Clinton, cioè i lobbisti di Goldman Sachs. Dopo essere rientrata trionfalmente alla Casa Bianca con il nuovo presidente, dal 2018 però anche Goldman Sachs ha preso le distanze da CialTrump, pubblicando un’improbabile analisi sugli effetti negativi dei tweet (sic!) del presidente sui mercati finanziari. I mitici “Mercati” al cui sacro volere bisogna tutti prostrarsi, poi si rivelerebbero così fragili e isterici da andare in tilt per un tweet del cialtrone della Casa Bianca e persino per una boutade di Salvini o Di Maio.
La vera natura del cosiddetto capitalismo è l’assistenzialismo per ricchi, quindi il lamento ed il vittimismo dei ricchi non sono per loro soltanto ideologia ma anche strategia esistenziale. Alla grande finanza vengono quindi offerti comodi capri espiatori per dissimulare le proprie frodi. Il lobbying finanziario oggi sponsorizza il discredito delle istituzioni e gli “apparati” non solo si adeguano ma si impegnano a prendersi tutte le colpe, perché devono abbassarsi al di sotto del già bassissimo livello del loro assistito. Ecco perché oggi i “servitori dello Stato” come poliziotti e carabinieri si specializzano nel dare la caccia ad altri “servitori dello Stato” come i pubblici impiegati e gli insegnanti. L’obbiettivo è fornire alibi alle magagne dei padroni della finanza e dell’industria.
Perché i capitalisti privati non investono? Mica perché non vogliono tirare fuori un soldo in proprio e aspettano il denaro pubblico per fare "prendi i soldi e scappa”. No, i meschini non investono perché ci sono la burocrazia, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica, la giustizia lenta e tutte le altre colpe dello “Stato”. Una volta si parlava di “senso dello Stato”, invece si sarebbe dovuto dire “senso di colpa dello Stato”.
Ci sono quindi gli elementi per pensare all’elezione di CialTrump non come un effetto del prevalere della “pancia” del Paese, bensì come risultato della vocazione alla destabilizzazione che caratterizza gli apparati del sedicente “Stato”. Un “deep State” che avesse voluto fermare CialTrump avrebbe avuto mille strumenti efficaci per farlo, invece ha scelto la strada di improbabili accuse di connivenza col nemico Putin e di manipolazione elettorale da parte di emissari russi. Presentare CialTrump come un agente straniero sarebbe risultato assurdo persino se fosse stato vero, in quanto la “Ragion di Stato” dovrebbe trovare altre soluzioni meno clamorose per problemi del genere. Al contrario si è assistito al compiacimento del gettare un intero sistema istituzionale nel discredito.
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