Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Gli ordini monastici mendicanti del basso medioevo predicavano la necessità di una Chiesa povera. A questa “eresia” la gerarchia ecclesiastica opponeva una replica interessante: in una società basata sul denaro solo chi ha capacità di spesa esiste come soggetto sociale attivo, mentre i poveri non sono soggetti sociali ma semplici oggetti di carità; perciò la Chiesa, per poter provvedere ai poveri, deve essere ricca. Secondo la Chiesa il denaro sarebbe quindi solo un mezzo neutro, che può essere utilizzato per il bene o per il male.
Si può discutere a lungo sul come la Chiesa abbia pensato ai poveri; certo è che questo realismo cattolico configura curiose conseguenze. Nemmeno Dio infatti è un soggetto di spesa, quindi non esiste; in questo senso si può parlare di virtuale ateismo cattolico. Il sottile paralogismo cattolico, per il quale da un lato il denaro è uno strumento neutro e dall’altro lato ti abilita ad essere attivo e presente socialmente, costituisce una pesante legittimazione del capitalismo, il quale, non a caso nasce nel ‘400 proprio in ambiente cattolico, tra Firenze e Bruges. Il massimo che la tanto esaltata etica protestante ha saputo produrre a riguardo è stato invece la puerile tesi calvinista secondo cui la ricchezza sarebbe un segno della predilezione divina.
Anche lo Stato esiste solo nella misura in cui spende, il resto è mera astrazione giuridica. La fiaba liberista ci narra dell’aspirazione ad uno Stato “virtuoso” che spenda pochissimo per mettere poche o nulle tasse ai ricchi in modo da aprirsi agli investimenti privati. In realtà lo Stato non può essere “virtuoso” perché regolarmente deve spendere per salvare gli investitori privati dai disastri che combinano. Di fatto però lo Stato che non spende di sua iniziativa, ma soltanto per tappare i buchi delle emergenze finanziarie, si pone come ostaggio della finanza.
L’attuale governo ha annunciato l’ennesima legge finanziaria restrittiva, dato che, al netto degli interessi sul debito pubblico, il bilancio è in avanzo primario, cioè in largo attivo, quindi lo Stato continua a spendere meno di quanto preleva in tasse. Per fortuna ci pensano i media a far passare la timida manovra finanziaria (sempre più timida ogni giorno che passa) come un’azzardata sfida ai “Mercati”. Con questo gioco delle parti da un lato l’alone di eroismo del governo è salvo, dall’altro lato la lobby dello spread trova nel governo un comodo capro espiatorio su cui scaricare un aumento dei tassi di interesse, su cui in realtà la BCE sta già manovrando da tempo.
Tra i provvedimenti annunciati dal governo c’è il tanto chiacchierato reddito di cittadinanza. Presentato dai commentatori come catastrofico, il reddito di cittadinanza costituisce in effetti un tentativo di recuperare alla spesa ed ai consumi qualcosa come cinque milioni di poveri. Persino la microfinanza ne verrebbe rianimata, dato che col reddito di cittadinanza i poveri potranno contrarre nuovamente qualche debituccio. Mentre gli ottanta euro di Renzi e gli sgravi fiscali-contributivi dei vari governi (compreso questo) finiscono nel risparmio, i soldi dati ai poverissimi andrebbero finalmente a rianimare la domanda interna, perché i più poveri sono costretti a spendere quel poco che hanno.
Se è vero l’assunto “spendo, dunque sono”, ciò costituisce un modo di far accedere nuovamente milioni di persone alla condizione di esistenza economica. Si tratta di una misura ovvia e del tutto connaturata all’attuale sistema, ma una pretestuosa campagna mediatica la fa passare come sovversiva, suggestionando così la sedicente “sinistra” che dal mainstream è tanto dipendente.
L’opposizione del PD ha parlato ai poveri facendo appello come al solito non al loro “io economico” ma al loro “io trascendentale”, un “io” che vive in un universo di pure scelte morali: gli eccessi di debito si scaricherebbero, secondo il PD, sulle future generazioni. Solo che, come diceva già nel ‘300 Cecco Angiolieri, nel sonetto “Qual è senza danari ‘nnamorato”, chi non ha soldi non può permettersi di innamorarsi, perché anche corteggiare e farsi corteggiare ha un costo non indifferente. Figuriamoci quindi sposarsi e far figli. Allo stato attuale quindi non ci sarebbero neppure future generazioni su cui far gravare il debito. Certo, si può legittimamente fare del sarcasmo sulla “paghetta di Stato” e sulla crescente dissociazione tra lavoro e reddito; ma questo sarcasmo non se lo può permettere chi da decenni sta già operando per separare lavoro e remunerazione, sia attraverso lo sfruttamento del volontariato, come all’Expo di Milano, sia attraverso l’alternanza Scuola-lavoro, che spaccia il lavoro coatto e gratuito degli studenti come esperienza “formativa”.
È la spesa che determina l’esistenza sociale ed è la grande spesa che fa il potere e la potenza. In questi giorni le cronache ci raccontano del caos libico e delle manovre francesi per estromettere l’Italia dal Nord Africa. Il punto è che l’abbattimento del regime di Gheddafi per iniziativa francese è avvenuto sette anni fa. Se in sette anni la Francia non è ancora riuscita a rubare le caramelle (la Libia) al bambino (l’Italia) deve prendersela con se stessa, col fatto che non è stata in grado di spendere in Africa ciò che le sue aspirazioni coloniali le imporrebbero. Macron è il terzo presidente francese consecutivo che sembra spuntato da un vaudeville di Feydeau: esibisce infatti un buffo attivismo a vuoto, una pura smania di destabilizzazione che dimostra solo la sua incapacità di comprarsi la Libia.
È davvero arduo trovare nei documenti preparatori alla prossima manovra finanziaria dell’attuale governo dei segnali di sostanziale discontinuità rispetto al passato. La difficoltà aumenta se il confronto viene fatto con il governo Gentiloni, che aveva già rinunciato alle “riforme strutturali”, aveva avviato qualcosa di simile al reddito di cittadinanza ed aveva persino abolito i voucher, reintrodotti invece dall’attuale governo. Anche nella politica migratoria, occorrerebbe rilevare che lo strapotere delle ONG nel Mediterraneo aveva già subito dei colpi all’epoca del ministro degli Interni Minniti.
Il campo in cui il governo in carica presenta invece una discontinuità è quello della comunicazione. Il governo Conte considera infatti l’ostilità dei media interni ed esteri come un dato di fatto scontato, un contesto con cui fare normalmente i conti. La comunicazione polemica del governo si appunta infatti sul nemico esterno e non più, come per i governi precedenti, sul nemico interno. Ancora ci si ricorda infatti gli epiteti dei passati ministri contro i propri cittadini: “fannulloni”, “bamboccioni”, “sfigati”, “corrotti”, ecc.
Pesano probabilmente su questa scelta anche le teorie di uno degli intellettuali di riferimento del governo, Marcello Foa, il quale presenta nei suoi testi la comunicazione mainstream come un terreno intrinsecamente conflittuale e manipolatorio, legato ad interessi di parte. Per qualunque esperto di psywar si tratta di un’ovvietà, ma la novità è che queste tesi siano arrivate al dibattito politico istituzionale e siano propugnate da un neo-presidente della RAI (certo, per quello che può contare il presidente della RAI, cioè poco).
La comunicazione ideologica del governo Conte si muove sulla linea di un improbabile idillio interclassista all’ombra del cosiddetto “interesse nazionale”. Questa comunicazione fa comunque presa su gran parte della pubblica opinione, poiché vi è ormai la diffusa consapevolezza che qualsiasi governo si fosse trovato oggi in carica in Italia (persino un eventuale governo dell’attuale beniamino dei media, Carlo Cottarelli), avrebbe dovuto scontrarsi con pregiudizi ostili e con severi ammonimenti da parte della Commissione Europea.
Il segnale era arrivato già nel febbraio scorso, quando il commissario UE Pierre Moscovici aveva additato all’Italia la consueta strada obbligata delle “riforme strutturali”, cioè la strada della guerra civile permanente, che consiste nello spezzare le cosiddette “rigidità” e i cosiddetti “interessi corporativi”; in definitiva criminalizzare il lavoro e trattare i propri cittadini come una manica di parassiti da disinfestare, poiché impedirebbero al Paese di diventare “moderno” ed “europeo”, che tradotto significa in deflazione permanente. Con le sue parole Moscovici aveva delegittimato anche l’operato di tutti i governi italiani di questi ultimi anni, come a dire che tutte le innumerevoli riforme strutturali che sono state fatte sinora, in effetti non sarebbero state vere “riforme strutturali”: la guerra civile non era stata abbastanza guerreggiata.
Non è un caso che la comunicazione ostile nei confronti del governo Conte abbia finito per coinvolgere nel giudizio negativo anche il governo Renzi con le sue “mance” e le sue smanie di “flessibilità” dei conti. L’invadenza mediatica e narrativa del triennio renziano (“un incubo a reti unificate”, secondo la definizione di Giulio Tremonti) è un dato di fatto; anche se Renzi ha approfittato di quell’immenso spazio mediatico per scavarsi la fossa, poiché anche lui ha passato il tempo ad insultare i suoi potenziali elettori.
Ma è pure un fatto che la lobby della deflazione considerasse l’esperienza renziana come uno yogurt con la scadenza, una mera esperienza preparatoria di soluzioni più drastiche per “rimettere ordine nei conti pubblici”, cioè il commissariamento da parte della Troika (FMI, UE, BCE). Nel 2014 l’invocazione alla Troika fu considerata da molti come uno dei tanti deliri senili di Eugenio Scalfari; ma a quell’epoca l’invocazione alla Troika arrivò persino dall’allora direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, cioè da uno dei più ligi e pedissequi esecutori dei dettami della lobby della deflazione.
Un Renzi appena insediato era quindi già considerato bruciato e transitorio dalla lobby della deflazione. Ogni “Salvatore della Patria” che ci è stato propinato in questi anni aveva già in sé i crismi del limone da spremere e da buttare. È capitato a Renzi ma anche a Mario Monti, indotto a bruciarsi in una improbabile avventura elettorale e poi prontamente accantonato.
Il rancore di Monti verso i suoi ex mandanti traspare dalle sue dichiarazioni attuali. Ad una domanda di un intervistatore su un’affermazione di Matteo Salvini che individuava George Soros come uno degli speculatori che manovrano sullo spread, Monti ha risposto uscendo dal copione ufficiale che gli avrebbe imposto di liquidare le parole di Salvini come “complottismo”. Monti ha infatti ricordato di quando Soros gli telefonò nel 2011 per “consigliargli” di affidarsi alla Troika. Monti quindi ci fa sapere che Soros era nella posizione di chi può permettersi di telefonare ad un capo di governo per dargli dei “consigli”.
L’insaziabilità della lobby della deflazione, la sua ansia di divorare i propri figli (o i propri sicari di turno) ha finito per materializzare quel fantasma del “populismo” che era usato solo come spauracchio e referente negativo. Per ora la sfida del “populismo” è solo ideologica e l’attuale governo italiano si guarda bene dal fare sul serio. Per di più la sfida ideologica è ancora parziale, poiché il governo Conte persiste nella pantomima di spiegare la manovra ai “Mercati”; come se gli investitori prestassero qualche attenzione alle manovre finanziarie dei governi e non si regolassero invece unicamente in base agli acquisti di BTP gestiti dalla BCE. D’altra parte per una lobby della deflazione assuefatta al monopolio ideologico assoluto, anche una sfida ideologica così parziale potrebbe essere troppo.
|