Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Se da un lato sono ammirevoli gli sforzi di Pierluigi Bersani di liberare il proprio pensiero dalla colonizzazione ideologica del Fondo Monetario Internazionale, dall’altro lato non si può fare a meno di notare la persistenza di temi e soluzioni ormai fuori dal contesto reale. L’ex segretario del PD ed attuale esponente di LeU ripresenta infatti le solite proposte unitarie a “sinistra” e la consueta
esortazione al “passo indietro”, da applicare anzitutto a se stesso.
Per Bersani il “passindietrismo” è come il salasso per i medici del ‘700: la panacea universale. Che i “passi indietro” non gli abbiano portato bene, è storia sia passata che recente. “I giorni perduti a rincorrere il vento” di cui cantava De André, sono nulla in confronto ai mesi buttati da Bersani ad inseguire il fantasma di Pisapia, incredibilmente accreditato come leader di una sinistra unitaria. Bersani insiste anche nel paventare un vento di destra che però, in base ai risultati elettorali, non ha una conferma. È un dato evidente che la coalizione di destra ha toccato appena il 37% e che l’elettorato ha premiato solo i due soggetti che venivano percepiti, o presentati, come anti-establishment. Persino la tesi secondo cui oggi l’immigrazione sarebbe vissuta come la principale emergenza non ha un grande riscontro, se si considera il modesto risultato della coalizione che aveva maggiormente puntato su quel tema. La popolarità di Salvini anche presso settori dell’opinione pubblica tutt’altro che xenofobi può essere spiegata non tanto come allarme per l’immigrazione in quanto tale, bensì per il fatto che i governi europei usano la questione migratoria per cercare di mettere in soggezione l’Italia.
È tutta la narrazione emergenziale che si sta rivelando sempre meno accattivante e convincente. Che i “sacrifici” siano un fine in sé e che l’emergenza dei conti pubblici sia solo un pretesto per estorcerli, sino a qualche anno fa era una tesi di “nicchia”, mentre oggi è un sentire diffuso. L’emergenzialismo era talmente indiscutibile da aver invaso non solo la politica e la comunicazione mainstream ma anche il management, diventando un metodo di gestione sui luoghi di lavoro. Oggi invece la “ggente” non è nemmeno più disposta a credere che se fai il bravo la mamma (i “Mercati”) ti vorrà bene, quindi una visione più conflittuale dei rapporti interni ed internazionali è stata acquisita dal senso comune; e ciò di per sé non implica essere di “destra”.
Una delle preoccupazioni di Bersani è stabilire che tipo di opposizione portare avanti nel caso che il governo non faccia niente. Ma anche qui c’è da notare un abbassamento delle aspettative rispetto all’attuale governo. C’è una fascia di opinione pubblica disposta a tenersi questo governo a condizione che non faccia manovre restrittive e “riforme strutturali”; un governo del “non fare”, o del fare pochissimo, dopo i governi del “fare”. Il governo può permettersi di vivere di rendita grazie ad una propaganda ostile che lo mitizza; lo mitizza in senso negativo ma comunque lo mitizza.
Il sistema quindi per una volta si trova davvero in emergenza: una crisi narratologica, un’incapacità di non impiccarsi con la propria stessa propaganda. È certo anche che l’establishment peggiora le cose insistendo nella narrazione. A difesa del Presidente Mattarella si è lanciata l’ennesima fiaba sulle malefatte di Putin, affidando all’antiterrorismo (sic!)
l’indagine sui tweet anti-Mattarella. Se si voleva affossare definitivamente l’immagine di Mattarella, ci si è riusciti alla grande.
In realtà Mattarella se la deve prendere non con Putin ma con Renzi e poi con se stesso. Con Renzi perché questi ha bloccato attraverso un atto di prepotenza le trattative di governo del PD con i 5 Stelle. Il PD non aveva neppure bisogno di fare sul serio, poteva perdere settimane e mesi in una trattativa sterile, far arrivare il parlamento a ridosso della scadenza della legge finanziaria e, allora sì, tirare fuori un incarico a Cottarelli avrebbe potuto apparire come un salvataggio della patria e non come una forzatura. Anche con se stesso, perché Mattarella non aveva nessun bisogno di
rifiutare l’incarico di ministro dell’Economia a Paolo Savona tirando fuori la storia dell’uscita dall’euro e del pericolo per il risparmio. Poteva semmai inventarsi una sorta di conflitto d’interessi, visto che Savona ha fatto parte di tutti i consigli di amministrazione immaginabili. È stato quindi Mattarella a regalare a Salvini e Di Maio la bandiera della difesa della democrazia contro lo strapotere dei mercati.
È evidente che Mattarella non è riuscito a mantenere un basso profilo ed ha ceduto alla tentazione di spacciarsi da baluardo dell’Europa contro i barbari populisti. L’ideale borghese dell’ipocrisia sommessa, della menzogna sussurrata, è stato soppiantato dalla pretesa di sbaragliare ogni volta l’avversario sparando la balla più grossa. Il comportamento di Mattarella spiega e contestualizza il fenomeno del Supercazzaro di Rignano. Renzi può accampare la scusante di essere uno psicopatico, ma la stessa attenuante non può essere invocata da chi, come Mattarella, lo ha sempre sostenuto. Alla deflazione monetaria e salariale l’oligarchia e tutto il suo establishment hanno fatto corrispondere una generale inflazione delle menzogne.
La menzogna è fisiologica per qualsiasi sistema di potere ma, ovviamente, la sua funzione cresce in proporzione alla riduzione dei margini di mediazione sociale e di distribuzione del reddito. Accade così che il sistema si droghi di emergenzialismo e di propaganda rischiando di andare in overdose. Era perciò inevitabile che un periodo così lungo di deflazione producesse un Renzi, così come era inevitabile che gli eccessi narrativi del renzismo determinassero effetti indesiderati. Anche dopo la caduta di Renzi (peraltro ancora onnipresente) il sistema riproduce la stessa sindrome.
I “regali” propagandistici per il governo “gialloverde” infatti non finiscono mai. Dando un’eco esagerata al consueto e scontato vittimismo padronale, si è cercato addirittura di far passare da “comunista” Di Maio per il suo Decreto “Dignità”; un Decreto che in realtà è la solita
pioggia di defiscalizzazioni e decontribuzioni per le imprese, condita con qualche contentino simbolico per i precari. Per Di Maio significa guadagnarsi senza rischi e senza sforzo una patente di eroe della difesa del lavoro.
La narrazione ufficiale sul “crollo” della lira turca mostra le tipiche stimmate, il marchio inconfondibile, della lobby della deflazione, cioè la lobby della difesa del valore dei crediti: il marchio del catastrofismo e del moralismo.
I “Mercati” sarebbero “spaventati” dal possibile “contagio” sulle Borse e sulle banche europee e, ovviamente, dagli effetti sull’Italia. La “colpa” è dell’autocrate Erdogan che, oltre che cattivo, è anche pazzo, infatti grida al “complotto” e invoca Allah. Il mainstream compatto invoca invece l’arrivo in Turchia del Fondo Monetario Internazionale, cioè proprio la centrale della lobby della deflazione. Ma guarda la strana coincidenza.
Certo che anche se nel ruolo del “villain” Erdogan è perfetto, tanto allarmismo ugualmente non ha fondamento. Liretta o non liretta, la Turchia ha pur sempre un tasso di incremento del PIL di circa il 7% annuo, per cui gli operatori economici turchi alla fine i soldi per pagare i loro debiti con i fornitori e prestatori esteri li troveranno. Il fatto che i creditori ci rimettano qualcosa non sarebbe una tragedia se lo strapotere, anche mediatico, della lobby della deflazione non fosse lì a denunciare la lesa maestà e ad imporre una stretta sulle economie emergenti, appunto per evitare che i tassi di sviluppo eccessivi compromettano i cambi e, conseguentemente, il valore dei crediti.
Il cialtrone Trump intanto ha aumentato i dazi sulle merci turche dimostrando di sospettare che la “liretta” serva ad Erdogan proprio per invadergli il mercato più di quanto non abbia già fatto finora. Al consumatore americano l’industria turca offriva infatti, a soli trecento dollari, delizie irresistibili come pistole semiautomatiche con caricatori che non finiscono mai.
I media si chiedono a cosa preluda questo scontro epocale tra USA e Turchia. Ad un clamoroso cambio di alleanze da parte di Erdogan? O ad un colpo di stato militare (vero, stavolta) che abbatta Erdogan?
Tutto è possibile ma, conoscendo ormai il “CialTrump style”, può darsi anche che preluda ad un incontro di riconciliazione tra il presidente USA e quello turco, con tanto di pose da amiconi e di pacche sulle spalle. Quel che è certo è che i dazi di CialTrump costituiscono in questa circostanza un aiuto indiretto al FMI ed alla lobby della deflazione e quindi anche alla da lui tanto vilipesa Unione Europea.
Non che tutta l’opinione pubblica si sia bevuta l’ennesima emergenza e la storiella che l’euro sarebbe un ombrello che terrebbe al riparo da questi accidenti finanziari. Gran parte dell’opinione pubblica sa, o intuisce, che gli annunci e le boutade che spara a giorni alterni questo governo non hanno nulla a che fare con lo spread; e sa anche che lo spread aumenterà man mano che si avvicina la fine del “Quantitative Easing” della BCE. Che lo spread possa acquietarsi non più per il “Quantitative Easing” ma per un “Narrative Easing” del governo, è una balla a cui crede solo qualche elettore del PD.
L’effetto dei dazi USA contro la Turchia va a favore dell’UE per un altro motivo, in quanto dimostra ancora una volta che la linea commercial-sviluppista di CialTrump procede in modo episodico, senza visione d’insieme ed individuazione delle priorità. Chi puntasse sullo sviluppo e si trovasse per questo in difficoltà con la bilancia dei pagamenti, non avrebbe nessuna certezza di trovare una sponda negli USA. CialTrump non si pone il problema di battere globalmente la lobby della deflazione, ma semplicemente di difendere l’industria americana. Il caso CialTrump rientra quindi nel cosiddetto “eccezionalismo americano”, cioè la consueta pretesa degli USA di non far valere per sé le pratiche di deindustrializzazione che sono imposte agli altri dalla lobby della deflazione.
Sino a una decina di anni fa la lobby della deflazione aveva però dietro di sé l’establishment pressoché compatto, mentre oggi vari pezzi se ne cominciano a dissociare perché hanno paura del FMI. In fondo Paolo Savona e Giovanni Tria sono molto più rappresentativi dell’establishment di uno spiantato come Luigi Marattin.
Occorre infatti tener presente che l’alternativa al governo Conte-Salvini-Di Maio non era un governo col PD, bensì un governo Cottarelli, quindi un governo-ponte verso il commissariamento da parte della Troika, cioè del FMI; cosa che avrebbe non solo impedito all’Italia di prepararsi alla implosione della moneta unica e di approfittare dei vantaggi che ne deriverebbero, ma soprattutto avrebbe determinato una iper-colonizzazione del Paese. Del resto lo ha detto anche Mario Monti in Senato che un governo della Troika sarebbe una cosa “disgustosa” (il termine è suo). D’altra parte il soggetto “Italia” va preso con le molle, perché anche qui la lobby della deflazione ha i suoi adepti; e non è detto che siano quelli che si espongono di più nella difesa dell’euro, come la cosiddetta “sinistra”.
Occorre anche non invertire il rapporto causa-effetto, altrimenti si rischia di credere che la “sinistra” oggi si identifichi con la lobby della deflazione per convinzione ed interesse. In realtà la questione è diversa: il FMI-lobby della deflazione controlla i media mainstream; la “sinistra” da almeno mezzo secolo segue pedissequamente il mainstream; di conseguenza la “sinistra” adotta le posizioni della lobby della deflazione. Se il mainstream cambiasse padrone, allora cambierebbe idea anche la “sinistra”. Ciò non vale solo per il PD ma per la “sinistra” nel suo complesso, comprese le sue articolazioni più estreme. La “sinistra” infatti ha risolto il problema del pericolo di un nuovo stalinismo e di un nuovo dogmatismo interno semplicemente cessando di discutere ed adottando il dogmatismo del potere. La “sinistra” non produce e non esporta più dogmatismo ma lo importa soltanto: una sorta di etero-stalinismo.
E poi la discussione è piena di insidie inventate dal mainstream: e ci sono i “rossobruni”, e ci sono le “fake news”, e ci sono i “no vax”, e ci sono i “complottisti”. Ecco che allora il quotidiano sedicente “comunista” detto il “manifesto” adotta sulla Turchia la stessa identica posizione del mainstream, con
un articolo fotocopia de “la Stampa”, descrivendo Erdogan come un pazzoide complottista.
Ancora una volta è necessario non invertire il rapporto causa-effetto. Non è che il “manifesto” segua il mainstream perché è finanziato dai potentati; è che i potentati hanno trovato del tutto logico finanziare un quotidiano accodato al mainstream. La Rossanda è sempre stata la Rossanda.
Ma non è solo Erdogan a prendersi rampogne mainstream sulle colonne del “manifesto”. C’è anche il sandinista Daniel Ortega, che è stato sì eletto, ma è comunque un “autocrate” (magari traviato dalla corrottissima moglie). Ci si narra che
Ortega opprime il Nicaragua, che però gli si ribella con i suoi studenti. Gli stessi articoli che si potrebbero leggere sul Corriere della Sera”, solo che il “Corriere” almeno non si dimentica di riferire che dietro le manifestazioni ci sono le ONG.
Se ci si fa caso, tranne che in qualche Paese con abitanti di pura razza ariana, secondo il mainstream i governi sono tutti corrotti. Uno magari pensa che ce l’abbiano con Erdogan perché è mussulmano e con Ortega perché è comunista. No, ce l’hanno con tutti i popoli inferiori, persino con i governi che hanno messo loro.
In Ucraina le ONG, dopo aver contribuito al colpo di Stato nazista che ha rovesciato il precedente governo, oggi guidano la rivolta delle masse contro la “corruzione”. In sinergia con lo squadrismo umanitario delle ONG, il FMI terrà bloccati i finanziamenti al governo ucraino finché le nuove leggi anticorruzione non saranno approvate. Di questo passo anche l’Ucraina non sfuggirà al commissariamento.