Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’ennesimo “governo del cambiamento” si è andato a scontrare con le normali emergenze”. Se il dibattito sull’ILVA di Taranto continua ad assumere gli stessi toni spesso esasperati ed esasperanti, è perché risulta astratto; risente cioè di un’assoluta mancanza di contestualizzazione. Anzitutto bisogna capire quanto ha inciso, e quanto incide tuttora, nella vicenda il fatto che lo stabilimento ILVA confini con strutture militari, tra cui una base NATO. Quale che sia il governo in Italia, la NATO ha fatto capire chiaramente che non
intende mollare la presa sul Sud del Mediterraneo.
La presenza dello stabilimento ILVA a Taranto è per “caso” diventata di troppo? Ostacola con la sua presenza l’espansione delle strutture militari?
Circa tre anni fa l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina ventilò l’ipotesi di un assorbimento dei lavoratori dell’ILVA nel personale civile della struttura militare dell’Arsenale di Taranto.
Che si tratti di un progetto abbandonato o di un progetto lasciato in sospeso, oppure di una boutade di pubbliche relazioni per far vedere quanto possono essere buoni e utili i militari, ancora non è chiaro.
Un’altra questione non da poco è cercare di stabilire quanto incida la presenza militare nell’inquinamento dell’area. Un’ILVA capro espiatorio? Certo è che nessun perito di tribunale si sentirebbe di rovinarsi l’esistenza chiamando in causa una fonte di inquinamento di origine militare. E poi col segreto militare ci sarebbe poco da fare persino se la magistratura fosse al di sopra di ogni sospetto.
Oltre la vicenda del sito di Taranto, c’è la questione della siderurgia in genere. Può esistere una siderurgia senza le sovvenzioni statali, una siderurgia di “mercato”, oppure rientra nel novero delle fiabe liberiste?
In nome del mercato si delega la produzione della gran parte dell’acciaio alla Cina, dove però i colossi dell’acciaio sono tutti statali e vanno verso una crescente cartellizzazione, sempre all’ombra della mano pubblica.
Non sarebbe molto meno oneroso per la spesa pubblica italiana una siderurgia nazionalizzata piuttosto che foraggiare il rapinatore privato di turno?
In molti settori industriali tenere in piedi la finzione del privato ha un costo esorbitante per il bilancio dello Stato che deve tappare i buchi; ma questi “sprechi” di denaro pubblico possono essere catalogati sia come costi dell’assistenzialismo per ricchi, sia come costi della lotta di classe contro il lavoro.
La fiaba liberista ci narra di governanti spendaccioni che acquistano con la spesa allegra il consenso delle masse. La realtà è l’esatto opposto: lo Stato infatti spende e paga il pedaggio alle multinazionali di turno per poter mantenere i lavoratori dei centri siderurgici sotto la spada di Damocle della perdita del posto di lavoro. La produzione siderurgica comporta infatti la presenza sul territorio di concentrazioni operaie e, per i governi, il problema è di evitare che queste concentrazioni operaie diventino, come in passato, roccaforti e punti di aggregazione dell’opposizione sociale.
Un’altra passeggiata tra le nuvole riguarda le cosiddette “bonifiche ambientali”. Persino nell’ipotesi più ottimistica, cioè che l’inquinamento di Taranto sia esclusivamente di fonte industriale e non militare, ogni bonifica costituisce un’avventura di cui non si possono quantificare costi e tempi. E ciò senza tener conto dei rischi ulteriori che comporta l’andare a smuovere strutture che hanno sedimentato scorie tossiche in stratificazioni storiche.
A sentire certi discorsi sembra che il disinquinamento sia come confessarsi e farsi la comunione per ritornare puri come prima. In realtà ogni bonifica è un azzardo e le tecnologie in grado di renderlo meno azzardato non sono del tutto certe e affidabili, anche se, ovviamente, il business ambientale tende a far credere il contrario.
La storia infinita della mancata bonifica del sito di Bagnoli è stata risolta semplicisticamente dalla magistratura nei consueti schemi del caso di corruzione. Ci si propina la solita fiaba moralistica secondo cui sarebbe stato solo l’inquinamento delle anime ad impedire il disinquinamento dell’ambiente.
Matteo Salvini ha risolto fortunosamente la sua prima sortita sul tema della migrazione. Se la nave ONG “Aquarius” fosse rimasta in mezzo al mare, Salvini, volente o nolente, avrebbe dovuto far raccogliere i migranti a causa delle norme internazionali che impongono il soccorso in mare. C’è stata però la circostanza favorevole di un nuovo governo spagnolo bisognoso di far punti per risalire nella graduatoria del
politicamente corretto dopo il disastro di immagine dei pestaggi polizieschi in Catalogna.
Un’altra circostanza fortunosa è consistita nel fatto che a condurre la polemica anti-italiana sia stato Macron, cioè il capo di una Francia che sul tema migratorio non ha lesinato comportamenti sbrigativi ai propri confini. Per questo motivo anche gran parte dell’opinione pubblica meno favorevole al governo si è compattata con Salvini di fronte agli attacchi francesi.
Il punto interessante è però che persino nelle repliche più accese si è appena sfiorato la questione delle responsabilità francesi nella spinta migratoria. Lo scorso anno un quotidiano dell’establishment come “La Repubblica” riferiva dell’atteggiamento stranamente passivo e complice delle truppe francesi in Niger nei confronti delle carovane dei migranti che si avviano verso la Libia.
L’articolista spiegava l’atteggiamento ambiguo dei militari francesi con le priorità della loro presenza in Niger, che riguarderebbero il contrasto ai jihadisti. In realtà l’interesse della Francia è molto più diretto. La spinta alla migrazione non consiste nella generica “povertà” ma nell’accumulo di indebitamento personale che occorre smaltire con guadagni che sarebbero impossibili in patria. Se si considera la vastità dell’elenco delle ONG francesi che sono coinvolte nel microcredito in Africa, si comprende che le truppe francesi stanno
tutelando anche dei precisi interessi finanziari. La lista ufficiale fornisce i nomi di ben diciotto ONG francesi che si occupano di microcredito in Africa e che quindi contribuiscono ad integrare forzosamente (ad “includere”, secondo l’ipocrisia vigente) le masse dei poveri africani nel circuito finanziario.
Le ONG rappresentano una propaggine mascherata del potere vero, quello della finanza. Nel business del microcredito ai poveri del mondo sono entrati infatti i colossi della finanza internazionale; non ultimo il sistema bancario svizzero, che ha invaso l’Africa servendosi anche di tecnologie “biometriche”, in modo che lo stesso corpo dell’indebitato diventi una memoria vivente e perenne dei debiti contratti.
Nella polemica contro le ONG Salvini si era davvero avvicinato agli interessi veri che dominano il fenomeno della finanziarizzazione/migrazione. Magari qualcuno si aspettava che avviasse una serie di misure di controllo sui movimenti di capitali che coinvolgono le ONG. È risultata perciò tanto più brusca e precipitosa la retromarcia di Salvini con il ripiego su proposte ad uso dei media come il censimento dei Rom. Nonostante dichiarazioni isolate ed estemporanee di esponenti della Lega, il legame tra finanziarizzazione e migrazione rimane ancora sullo sfondo mentre al centro della scena vengono lanciate queste parodie delle leggi razziali. Il vero rischio che Salvini corre con queste boutade però non è quello di passare da razzista, bensì di rendersi ridicolo agli
occhi di chi aveva riposto in lui delle speranze di contrasto allo strapotere della finanza.
Questo governo è riuscito ad imbarcare, seppure in un ministero minore (“senza portafoglio”), due personalità di notevole spessore, come Paolo Savona e Luciano Barra Caracciolo. Se Savona e Barra Caracciolo vorranno mantenere la loro reputazione di persone serie, sarà difficile che reggano a lungo lo stillicidio di figuracce a cui questo governo si sta avviando. Il governo Conte si è lasciato coinvolgere in quella farsa dei vertici europei che avrebbe dovuto invece evitare. La vera “trattativa” si fa da casa propria, mettendo in campo tutte quelle reti di protezione giuridiche e finanziarie che, quelle sì, costringerebbero gli avversari a darsi una regolata.
Il problema politico riguarda i limiti della presunta evoluzione ideologica della Lega, che è rimasta sostanzialmente lo stesso partito della fine degli anni ’80, con i suoi cavalli di battaglia della rivolta fiscale e del rifiuto dell’immigrazione, con gli Africani che hanno preso il posto dei Meridionali. Non basta certo qualche battuta di Salvini su Soros per celare questa mancata evoluzione.
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