Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le comunicazioni USA sull’ultimo attacco alla Siria sono state un vero e proprio festival del nonsenso. Al solito “briefing” ci è stato spiegato che i comandi statunitensi sarebbero rimasti costantemente in contatto con quelli Russi mettendoli al corrente degli obbiettivi. In un primo tempo il Dipartimento di Stato USA ha detto che erano stati colpiti dei depositi di armi chimiche. E come facevano gli USA ad essere sicuri che un bombardamento su questo genere di armi non ne avrebbe disseminato il letale contenuto? Ed infatti è quello che hanno chiesto alla conferenza. Il generale portavoce del comando USA ha prima farneticato di armi così precise e sofisticate da non produrre effetti chimici collaterali. Poi ha preferito ripiegare sulla tesi di laboratori di produzione di armi chimiche colpiti, perché gli “alambicchi” non si possono spostare così facilmente.
Il tutto infarcito di una retorica surreale sui coraggiosissimi militari USA che avevano difeso l’Occidente, senza neppure avvicinarsi troppo alla Siria, visto che i missili erano a lunga gittata, o forse a causa del temibile potenziale antiaereo della Siria. La Russia, secondo gli USA, sarebbe stata informata persino dei bersagli del bombardamento. Allora Assad, se mai avesse avuto qualcosa in questi depositi, li avrebbe svuotati. Allora cosa hanno bombardato? Dei pollai? O forse sono scuse per giustificare il fallimento del bombardamento? I comandi russi hanno dichiarato infatti che almeno due terzi dei missili sarebbero stati intercettati dalla contraerea siriana con sistemi forniti a suo tempo dall’Unione Sovietica.
La portavoce del Dipartimento di Stato ha ripetuto più volte che non si voleva assolutamente ottenere un crollo del regime siriano, ed anche la premier britannica May ha confermato che lo scopo del bombardamento operato da USA, UK e Francia non era di abbattere il regime di Assad. Queste ultime dichiarazioni costituiscono il più plateale dei tanti nonsensi dell’attuale situazione siriana. La Siria infatti è stata attaccata nel 2011 in modo indiretto da USA, UK e Francia con l’afflusso di truppe esterne, penetrate dal territorio turco. Lo scopo era quello di eliminare un alleato strategico ed anche un socio d’affari della Russia, cioè il regime di Assad. Oggi invece la Russia è insediata saldamente in Siria, perciò non avrebbe più senso sfrattare Assad. Occorrerebbe sfrattare la Russia, ma c’è il piccolo dettaglio della potenza nucleare russa a rendere l’opzione problematica.
A proposito di dettagli, ce n’è un altro ugualmente macroscopico. La guerra in Siria è cominciata nel 2011, mentre i Russi ci sono arrivati solo nel 2015, più di quattro anni dopo. Quando si dice la lentezza di riflessi. Dal canto loro gli USA si erano insediati abusivamente in Siria l’anno precedente con il pretesto di combattere l’ISIS/Daesh. La situazione veniva descritta all’epoca dall’
organo iper-occidentalista “Il Post” senza notare queste discrasie nelle date. Gli “Occidentali” hanno avuto quattro anni a disposizione per mettere la Russia fuori del gioco ma non ne hanno saputo approfittare. Per giustificare tutto questo si è giunti a recriminare sui veti posti all’ONU dalla Russia, come se gli USA e la NATO non se ne fossero mai infischiati dell’ONU quando gli faceva comodo.
Nel 1860 si verificò un caso che presenta sconcertanti analogie con quello siriano. Allora l’alleato della Russia da eliminare era il regime borbonico dell’Italia Meridionale. Durante la Guerra di Crimea del 1853-1856 (anche allora un contenzioso sulla Crimea!), il Regno delle Due Sicilie aveva dichiarato la sua neutralità nel conflitto ma, mentre in nome della neutralità negava l’accesso ai suoi porti a Gran Bretagna e Francia, concedeva invece quell’accesso alle navi russe. Ciò aveva determinato persino la rottura delle relazioni diplomatiche da parte di Francia e Gran Bretagna con Napoli. La propaganda antiborbonica dell’epoca era identica a quella che oggi colpisce il regime di Assad: i Borbone erano descritti come un regime criminale che bombardava il proprio popolo.
Niente di nuovo sotto il sole, anche per ciò che riguarda i metodi di destabilizzazione. Nel 1860, con l’appoggio della Marina britannica, sbarcarono in Sicilia delle truppe irregolari che si saldarono con altre truppe irregolari precedentemente costituite. Iniziarono defezioni massicce nell’esercito e nella Marina borbonica e la situazione di destabilizzazione motivò l’intervento piemontese, che l’ottobre dello stesso anno fu ufficializzato dalla presenza del re Vittorio Emanuele II alla testa delle sue truppe. Nel frattempo la tardigrada Russia, al di là delle lamentele diplomatiche, non aveva mosso un dito per difendere il suo unico alleato in Europa (certo, se avesse avuto quattro anni di tempo…). Lo schema è simile poiché anche in Siria nel 2012 le
defezioni di alti ufficiali dell’esercito siriano e di membri del governo di Assad si susseguirono ad un ritmo incessante che sembrava prefigurare un rapido crollo del regime.
Passata l’ondata delle defezioni, invece un po’ alla volta i quadri dell’esercito e dell’amministrazione si ricomposero. Cos’è mancato stavolta a dare compiutezza allo schema di destabilizzazione? È mancato l’intervento diretto del Paese confinante che, nella circostanza, avrebbe dovuto essere la Turchia. Nel 2012
l’abbattimento di un jet turco da parte della contraerea siriana offriva l’atteso casus belli. Ma, dopo le prime minacce, Erdogan rinunciò ad impegnarsi, evitando persino di interpellare la NATO, che avrebbe dovuto essere immediatamente coinvolta nel momento in cui la Turchia dichiarasse di essere stata “aggredita”.
Evidentemente ad Erdogan non erano stati offerti compensi adeguati al rischio ed al costo dell’intervento. Un’annessione della Siria da parte della Turchia o la sua riduzione ad uno Stato satellite non era gradita ad Israele e neppure a Francia e Gran Bretagna, che non hanno mai rinunciato alle velleità coloniali sull’area del Vicino Oriente. Di recente truppe turche sono penetrate nel territorio siriano, ma solo per svolgere la loro normale routine, cioè massacrare i Curdi.
Per il suo contributo alla liquidazione di un alleato della Russia, Vittorio Emanuele II fu gratificato con un nuovo regno, Nel 1860 la Francia di Napoleone III era contraria ad un’unificazione italiana e, per un breve periodo, offrì strumentalmente un appoggio navale al nemico esercito borbonico per evitare quella soluzione. La stessa Francia però ritirò quell’appoggio ed addivenne ad un compromesso con la Gran Bretagna in cambio della garanzia che la Sicilia non sarebbe stata separata per diventare un protettorato Britannico. Entrambe le grandi potenze dell’epoca quindi rinunciarono a qualcosa pur di far fuori un comune nemico.
A Erdogan invece non si è voluto concedere l’agognato sultanato per timore che la Turchia diventasse la potenza regionale egemone. Per il suo rifiuto di lavorare gratis, Erdogan l’anno dopo fu gratificato del
dono di una rivolta interna, la cui repressione lo pose nel mirino della solita Amnesty International.
Nel 2013 si profilò anche un intervento diretto della NATO in Siria, ma la Gran Bretagna fu la prima a defilarsi con un voto contrario del parlamento. I costi poteva sostenerli la Turchia ma non gli Occidentali DOC. Le potenze “occidentali” ritennero quindi che una destabilizzazione permanente dell’area potesse costituire la soluzione ottimale, senza calcolare che dove c’è uno squilibrio prima o poi qualcun altro si inserirà per ricomporre il quadro secondo i propri interessi. Alla fine la dirigenza russa potrebbe persino convincersi che, data la impossibilità di accordi con un avversario che vuole tutto e il contrario di tutto, valga la pena di premere il bottone per prima.
Nell’ambito occidentale continua la pratica dell’arroganza nel clima della comica finale. Oggi il cialtrone Trump pretende di bombardare un giorno e di ritirare le proprie truppe il giorno dopo, con Macron attaccato ai suoi pantaloni a scongiurarlo di restare. L’imperialismo assomiglia sempre a se stesso ma assume toni sempre più demenziali.
L’Iran si trova nuovamente al centro del tritacarne mediatico internazionale per una presunta
vicenda di veli islamici. L’attendibilità e la effettiva portata della notizia sarebbero tutte da verificare, ma la vigente parodia del politicamente corretto non si pone problemi di vero e di falso, semmai della valenza edificante del proprio messaggio.
Ricondotto al ruolo mediatico del “villain” (uno che impone il velo alle donne ovviamente userà armi chimiche o nucleari), l’Iran si trova anche al centro di un’ulteriore offensiva statunitense, con il proposito del cialtrone Trump di denunciare l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto da Obama e Kerry. Al di là del vantaggio propagandistico che gli USA si stanno prendendo, occorrerebbe comprendere i vantaggi sul piano strategico che gli USA intenderebbero ricavare dall’operazione della denuncia dell’accordo. Questi vantaggi apparentemente non ci sono dal momento che l’unico effetto pratico sarebbe quello di rilanciare non solo il programma nucleare iraniano, ma anche il ruolo di potenza regionale a tutto campo dello stesso Iran.
Il paradosso di questa situazione sta nel fatto che l’Iran come potenza imperialistica regionale è stato praticamente “inventato” dagli Stati Uniti, i quali hanno eliminato tutti i contrappesi che potevano contenere la politica iraniana nella sua propria sfera territoriale. Nel 2003 l’invasione statunitense dell’Iraq ha liquidato uno Stato che, disponendo di una popolazione di quasi la metà di quella iraniana, ne conteneva il potenziale espansivo. Il regime etnicamente sunnita, ma laico, di Saddam Hussein teneva a freno una maggioranza sciita che, una volta caduto il regime, è stata attratta nella sfera d’influenza del maggior Paese di religione sciita, il confinante Iran.
La destabilizzazione della Siria del 2011 è stata presentata da molti analisti illustri come un attacco indiretto degli USA all’Iran per far saltare la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna Sciita” che attraversa Iran, Iraq, Siria e Libano. In effetti questa teoria presenta una falla evidente: il regime di Assad, pur alleato dell’Iran, costituiva con la sua presenza e la sua potenza militare un oggettivo contrappeso all’Iran. Al contrario, la destabilizzazione della Siria ha consentito ai Pasdaran iraniani di insediarsi in Siria e di saldarsi con la milizia libanese sorella, Hezbollah, anch’essa oggi massicciamente presente in Siria.
Se la politica USA ha determinato le condizioni per un imperialismo regionale iraniano, l’arrivo della Russia in Siria nel 2015 ha costituito al contrario un ridimensionamento oggettivo dello stesso Iran, ridotto al ruolo di alleato secondario. Ciò che ha irritato gli USA è il fatto che la presenza russa abbia ricondotto i vari attori dell’area del Vicino Oriente alle loro dimensioni effettive, determinando indirettamente un riequilibrio. Questo spiega i recenti isterismi missilistici del sedicente Occidente, il quale rischia di vedersi sgonfiare tra le mani i suoi ulteriori progetti di destabilizzazione.
C’è anche molto da dubitare del fatto che l’Iran aspiri davvero ad un ruolo di imperialismo regionale analogo a quello a cui tende la Turchia, e non vi sia invece spinto dagli USA. Anche tutta la teoria sul fanatismo islamico di marca sciita fa molta acqua. L’Iran infatti non ha mai iniziato guerre e si è trovato semmai a fronteggiare aggressioni esterne. Le dichiarazioni apocrife attribuite ai dirigenti iraniani sulla cancellazione di Israele dalla carta geografica, costituiscono un fantasma propagandistico del sedicente Occidente e non corrispondono a precise azioni.
Francesco Guicciardini inoltre ci aveva a suo tempo avvertito circa “la avarizia e le mollizie de’ preti”, ed in effetti il clepto-clero sciita iraniano sembra avere come principale vocazione quella del business del mare di petrolio e del gas su cui è seduto. Le spinte ad una concezione più sociale dell’Islam sciita provenivano infatti da settori laici, come quello che aveva trovato il suo leader in Ahmadinejad. Una volta scalzato Ahmadinejad alle elezioni presidenziali, il clepto-clero sciita aveva immediatamente cercato un accordo con gli USA per poter riprendere la routine degli affari ed oggi sono proprio gli USA a frustrare questa aspirazione. Anche
la repressione interna del regime iraniano si indirizza soprattutto verso collaboratori di Ahmadinejad e lo strumento di questa persecuzione è una magistratura che lo stesso Ahmadinejad accusa di essere colonizzata dal Regno Unito.
D’altra parte, sia l’ala sociale che quella clepto-clericale ed affaristica del regime iraniano mostrano più preoccupazioni di carattere interno che velleità espansionistiche. Insomma, per trovare un Iran imperiale occorre risalire alla notte dei tempi e, proprio per volerlo rievocare con una tipica operazione mussoliniana, lo scià Reza Pahlavi a suo tempo si rese ridicolo non solo all’estero ma soprattutto in patria. Ma probabilmente anche se oggi al posto degli ayatollah ci fosse ancora uno scià, ugualmente l’Iran si troverebbe nel mirino statunitense. Per quanto filoamericano e filobritannico, Reza Palahvi aveva pur sempre il grave torto di reinvestire una quota eccessiva dei profitti del petrolio all’interno del suo Paese.
Il vero problema dell’Iran sembra quindi essere lo stesso di Paesi come l’Iraq, il Venezuela o la Nigeria, cioè di avere non solo il petrolio ma anche una popolazione sufficiente per consentire un reinvestimento all’interno dei profitti del petrolio. Per la finanza globale il Paese petrolifero ideale è l’Arabia Saudita, che ha una scarsa popolazione e quindi reinveste automaticamente nel circuito finanziario mondiale quasi tutti i proventi del petrolio. Chi non vuole o non può comportarsi come l’Arabia Saudita, è soggetto ad una destabilizzazione permanente che favorisca la fuga dei capitali.
Lo scopo dell’imperialismo dominante è impedire uno sviluppo economico che trattenga i capitali all’interno di questi Paesi. Gli interessi legati alla mobilità dei capitali impongono che chi è povero rimanga povero e, dove la povertà non c’è, venga inventata attraverso politiche di restrizione di bilancio. Nel periodo più acuto dell’austerità in Italia
le fughe di capitali arrivarono infatti a toccare il 15% del PIL.