Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’inchiesta giudiziaria della Procura di Milano sull’ENI per corruzione internazionale è culminata un mese fa con il rinvio a giudizio per i vertici della multinazionale italiana. Le scoperte dell’acqua calda sono sempre sospette, perciò qualcuno si chiede che senso abbia scoprire improvvisamente che la penetrazione delle multinazionali sia caratterizzata da giri di tangenti. Da sempre tutte le multinazionali operano come agenzie private di politica estera e da sempre comprano la “fedeltà” dei loro partner locali. Inoltre soltanto in base ad una mitizzazione della magistratura tipica del “politicorretto” si può ritenere che certe inchieste si basino su indagini autonome e non su “imbeccate” ad hoc.
Come a prevenire e contrastare queste ovvie perplessità, il settimanale “l’Espresso” ha lanciato una serie di notizie che colorano un quadro a tinte forti. La vicenda ENI in Nigeria, o almeno i suoi risvolti, avrebbero infatti a che vedere persino con un tentato omicidio ai danni di un esponente dell’agenzia anticorruzione nigeriana.
“Lotta alla corruzione” è una di quelle espressioni che “suonano bene”, come anche “diritti umani”; espressioni che catturano l’opinione pubblica con il loro messaggio educativo ed edificante. L’opinione di “sinistra” è particolarmente vulnerabile alla trappola del “suonabenismo” e, in effetti l’educazionismo è il razzismo in versione di “sinistra”, poiché, guarda caso, ci sono sempre popoli che hanno sempre molto più bisogno di essere educati di altri.
Intanto non si considerano dei segnali che dovrebbero mettere sull’avviso. Un organo dell’imperialismo come la Banca Mondiale ha fatto della lotta alla corruzione la sua bandiera. Non c’è da stupirsene se si osservano le conseguenze: da un lato si apre uno spazio illimitato all’ingerenza negli affari interni dei vari Paesi, dall’altro lato si inseguono categorie astratte come la “legalità” facendo perdere di vista il vero problema, cioè i rapporti di forza. Quando tra le parti vi sia eccessiva sproporzione di forze non c’è legalità che tenga, perciò l’abuso ed il sopruso divengono inevitabili.
In questa rappresentazione scandalistica e moralistica è passata in secondo piano una notizia che ha invece aspetti davvero sorprendenti. L’ENI è stata citata in giudizio per disastro ambientale da una tribù nigeriana con la richiesta di due milioni di euro di risarcimento. La sorpresa non sta nel disastro ambientale in sé, che rientra anch’esso nel consueto comportamento delle multinazionali, ma nel fatto che l’ENI non abbia ritenuto di evitare la vertenza giudiziaria e di conciliare pagando, tanto più che due milioni di euro per un’azienda come l’ENI non sono certo un problema. Persino nell’irrealistica ipotesi che il disastro ambientale non fosse dell’entità denunciata, l’atteggiamento dell’ENI non avrebbe senso e contrasterebbe con i criteri che avevano consentito in passato all’azienda di affermarsi. (4)
L’ENI è sì una multinazionale, ma comunque l’esponente di un imperialismo debole come quello italiano che, come tale, non può permettersi certe arroganze. Un imperialismo debole paga gli alleati e i complici, ma anche i neutrali perché rimangano neutrali; e paga i nemici perché siano un po’ meno nemici; un imperialismo debole paga i governi e paga le opposizioni, senza trascurare di pagare i potenziali oppositori. Queste sono le regole auree in base alle quali Enrico Mattei aveva costruito il suo impero. Al di fuori di queste regole, un imperialismo debole si condanna all’impotenza.
L’imperialismo debole sta al gradino più basso della gerarchia imperialistica, sotto l’imperialismo dominante (quello degli USA e delle sue multinazionali) e al di sotto dei sub-imperialismi, come quello francese in Africa ed in parte dell’Europa, e quello tedesco nell’Europa orientale. A differenza dei sub-imperialismi, l’imperialismo debole non si vede riconosciuto un suo preciso feudo, ma deve ritagliarsi gli spazi di manovra di volta in volta.
L’imperialismo debole è caratteristico di Paesi come l’Italia, che subiscono a loro volta un’ingerenza coloniale, sia da parte dell’imperialismo dominante che dei sub-imperialismi.
L’imperialismo debole rischia però di cascare in una crisi di identità e percepirsi erroneamente come un sub-imperialismo, illudendosi di avere a disposizione un proprio orticello riconosciuto e protetto. Già l’aggressione alla Libia del 2011 aveva posto in evidenza la crisi di identità dell’ENI, che si era fatto sorprendere dal regolamento di conti allestito ai suoi danni dalle multinazionali sub-imperialistiche Total e BP.
Un altro episodio che sortisce con tutta probabilità da questo stato confusionale dell’ENI è quello della nave Saipem, società dell’ENI, bloccata dalla flotta militare turca nelle acque territoriali cipriote. È evidente che l’ENI in questa circostanza si sia illusa di potersi basare sul ”diritto” e non abbia quindi provveduto a pagare il “pizzo” ad Erdogan.
Per uno dei paradossi della Storia, oggi l’ENI rischia di soccombere travolta dalle accuse di corruzione; e non per aver corrotto, ma per non averlo fatto abbastanza.
La notizia è di quelle che lasciano nello sconcerto. Ancora una volta non si può non deprecare l’irresponsabilità del presidente USA, il cialtrone Donald Trump. Ormai è ufficiale: grazie ad un tweet di CialTrump abbiamo saputo che gli Stati Uniti sospenderanno i finanziamenti al terrorismo organizzato dal Pakistan. Rischierebbero di finire senza soldi i Talebani, la rete Haqqani, l’organizzazione Lashkar-e Taiba e tante altre reti terroristiche finanziate dall’ISI, l’Inter-Service Intelligence pakistana, con i soldi americani. CialTrump ha dichiarato che negli ultimi quindici anni gli Stati Uniti hanno elargito più di trentatré miliardi di dollari al Pakistan che finivano in buona parte all’ISI, che poi li passava ai terroristi, anche attraverso il Coalition Support Fund.
Ora, è vero che gli USA mantengono in piedi gran parte del terrorismo internazionale attraverso un welfare terroristico impegnativo, ma ci pare che i pakistani avessero svolto bene il loro ruolo complementare di destabilizzazione negli ultimi decenni, con solo un miliardo e trecento milioni di dollari all’anno a disposizione. Una miope considerazione contabile non dovrebbe privare questi preziosi collaboratori degli Stati Uniti di un sostegno così importante. Obama, negli anni del suo mandato, non si era mai sognato di arrivare a tanto.
Non si spiegherebbe tanta ingratitudine da parte di un presidente USA nei confronti di un Paese come il Pakistan, decisivo nel vincere la Guerra Fredda ed anche nel destabilizzare Libia e Siria, se non si entra nella psicologia delle destre, nella loro capacità di assumere il proprio vittimismo come categoria assoluta, di suggestionarsi con la propria stessa ipocrisia sino a vibrare di autentico rancore. Probabilmente CialTrump si sente davvero defraudato dal Pakistan dato che i risultati della destabilizzazione non sono stati quelli auspicati.
CialTrump è stato funzionale ad intercettare ed interpretare la disillusione delle masse americane che non vedono ricadute positive per il loro livello di vita in tanto attivismo imperialistico degli USA. CialTrump però è stato altrettanto svelto nel sostituire un’illusione con un’altra, riconvertendo il disagio delle masse americane in un pretesto per un ulteriore assistenzialismo per ricchi. Alla fine il vittimismo dei ricchi si sovrappone sempre alle lamentele dei poveri, le fagocita e le soppianta. La riforma fiscale di CialTrump costituisce infatti un taglio senza precedenti delle tasse per le imprese, un taglio che, secondo lo “story telling” ufficiale, dovrebbe favorire un rilancio dell’economia, dell’occupazione e dei salari. Insomma, si vuol far credere che detassando i ricchi si arricchiscono i poveri.
CialTrump ha trovato subito imitatori. Anche da noi “Italy first”, il vittimismo nazional-sovranista, si è risolto in qualche vaga promessa da parte della Lega di uscire (forse) dall’euro, ma soprattutto nel proposito del cartello elettorale delle destre di adottare una “flat tax”, un’aliquota fiscale bassa e unica.
Un aiutino, come sempre, la propaganda delle destre lo ha ricevuto dalle “sinistre”, pronte a riproporre lo stanco “story telling” opposto, cioè della fiaba della necessità di un adeguato prelievo fiscale per finanziare il “welfare”. Ciò negli stessi giorni in cui l’opinione pubblica scopriva che gli incentivi governativi alle imprese erano stati usati da una multinazionale brasiliana per delocalizzare una fabbrica.
Sino a venti anni fa chi parlava dei tanti finanziamenti che lo Stato, l’UE e le Regioni versano alle imprese, veniva preso come minimo per scemo. Adesso finalmente la questione è arrivata anche a conoscenza dell’opinione pubblica, ma viene raccontata in modo da far credere che lo si faccia per incrementare l’occupazione. La realtà è invece che l’operaio paga le tasse per finanziare il proprio licenziamento o, bene che vada, la propria precarizzazione.
All’ottimismo antropologico delle “sinistre” che propinano l’improbabile equazione “tasse uguale a welfare”, corrisponde l’ottimismo antropologico delle destre, che ci ammanniscono un’equazione ancora più fiabesca: “meno tasse più investimenti”. Quanto ad ottimismo antropologico le destre tendono addirittura a strafare, creando il mito di una sorta di super-razza: i mitici “imprenditori”, esseri superiori ansiosi di creare ricchezza da mettere a disposizione della società.
La balla è clamorosa. L’esperienza concreta indica infatti che le imprese non investono quanto risparmiato sul fisco in investimenti produttivi, bensì in operazioni finanziarie. In particolare è stato oggetto di studi scientifici il fenomeno per il quale le imprese quotate in Borsa acquistano propri titoli per aumentarne artificiosamente il valore. Quindi l’equazione corretta è “meno tasse più bolle speculative.
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