Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Secondo la propaganda ufficiale gli attuali contrasti tra la Russia e il cosiddetto Occidente sarebbero dovuti ad evidenti incomprensioni russe sulle reali intenzioni della NATO. I Russi infatti non avrebbero compreso che i missili dislocati dagli USA in Polonia ed in Romania avevano il solo scopo di proteggere l’Europa, Russia compresa, dalla minaccia nucleare iraniana. Allo stesso modo i Russi non avrebbero compreso che cedere le proprie basi navali in Crimea ed in Siria alla NATO sarebbe andato tutto a loro vantaggio. Da parte occidentale forse ci sarebbe dovuta essere più comprensione nei confronti delle paranoie russe. In fondo sono Russi, non possono mica essere perspicaci come noi “Occidentali”.
Al di là degli scenari che si prospettano, di una nuova guerra fredda o di un conflitto aperto, sta di fatto che le sanzioni economiche europee e americane nei confronti della Russia hanno già fatto una vittima certa, cioè l’Italia, l’unico Paese che, con la parziale eccezione dei tentativi del governo Letta, si è dimostrato pienamente succubo alla disciplina sanzionista. I danni per l’import-export italiano sono stati devastanti, ma il governo Renzi, al di là di dichiarazioni generiche, non ha mostrato alcuna velleità di ovviare alla situazione, perciò, allo stato attuale l’unica forza politica che si dichiara contraria in modo deciso alle sanzioni, con accenti addirittura filo-russi, appare la Lega Nord.
Ad essere saltato definitivamente per le sanzioni non è soltanto il volume dello scambio italo-russo, ma anche l’asse ENI-Gazprom. Sino al 2011 la multinazionale italiana e quella russa costituivano un vero e proprio cartello che sembrava avere orizzonti sconfinati di espansione in Asia e Africa. L’intervento della NATO in Libia chiuse quegli orizzonti e, come ha detto l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi, in quell’occasione si vide persino l’assurdo di un’Italia che scendeva in guerra contro se stessa.
Questo bellicismo rivolto contro i propri interessi presenta altri precedenti. Nel 1999 la NATO costituì ad hoc un governo D’Alema per condurre la campagna di bombardamenti contro la Serbia che chiuse la partita del conflitto nella ex-Jugoslavia. Anche la Jugoslavia era stata una sorta di colonia commerciale dell’Italia, ma sulla stampa e nel dibattito politico dell’epoca quegli interessi commerciali, che la destabilizzazione della Jugoslavia faceva saltare, non ebbero alcuna risonanza.
Ancora un altro precedente: nel 1991 una rivolta in Somalia mise fine al governo filo-italiano dell’ex carabiniere Siad Barre ed al sistema lasciato in eredità dall’Amministrazione Fiduciaria italiana del decennio ‘50-‘60. Fu il primo esordio dell’uso di milizie islamiche non più in funzione anti-russa, ma per colpire gli interessi di un Paese membro dell’alleanza atlantica. Nemmeno allora si fece alcun cenno al danno che ciò comportava per il commercio africano dell’Italia. Nel 1993 truppe italiane si accodarono ad un’operazione di “peace-keeping” con egida ONU, ma voluta da Clinton. Manco a dirlo quella “pacificazione” rese irreversibile il processo di destabilizzazione della Somalia, prefigurando ciò che sarebbe avvenuto venti anni dopo in Libia. Gli stessi militari USA presero in Somalia una batosta clamorosa nella battaglia di Mogadiscio del 1993, ma il loro obiettivo di estromettere la concorrenza italiana in quell’area fu ugualmente raggiunto.
In poco più di venti anni l’intero quadro del sub-imperialismo italiano è stato annichilito ad opera di “alleati” dell’Italia, non solo gli USA, ma anche Francia e Regno Unito, protagoniste dell’assalto militare al feudo ENI in Libia. Il sub-imperialismo è quello spazio coloniale che un Paese in posizione subordinata nella gerarchia imperialistica riesce a ritagliarsi in proprio. Attualmente gli USA tollerano un sub-imperialismo francese e britannico in Africa ed un sub-imperialismo tedesco in Europa, mentre l’Italia ha rappresentato il capro espiatorio.
Forse le nostre classi dirigenti non se ne sono accorte? Certo che sì, ma la priorità, come sempre, è stata data alla lotta contro il nemico interno, cioè il lavoro, contro il quale non si può fare a meno dell’appoggio dell’imperialismo atlantico. Le oligarchie locali non affidano la loro sopravvivenza al radicamento territoriale ma all’integrazione nelle lobby finanziarie globali. Alle perdite in termini di commercio internazionale e di produzione industriale si è quindi compensato con il business del caporalato istituzionalizzato delle agenzie di lavoro interinale e con la finanziarizzazione del lavoro, cioè con l’abbattimento dei salari in funzione della loro sostituzione con i prestiti. Persino le insolvenze dei debitori possono diventare un business attraverso il recupero crediti.
Alcuni avevano sperato che l’ENI, con i suoi enormi mezzi finanziari e la sua rete di contatti internazionali, potesse costituire il perno di una politica estera alternativa; purtroppo però l’ENI si è rivelato tutt’altro che una soluzione, bensì una parte del problema. L’ENI aderisce alla lobby mondiale che ha interesse a tenere alti i consumi energetici e perciò preme perché vengano lasciate inutilizzate molte delle nuove tecnologie in campo elettrotecnico. Si tratta proprio di quelle tecnologie che consentirebbero ad un Paese come l’Italia un massiccio risparmio energetico e, di conseguenza, la possibilità di evitare pericolosi passivi nella bilancia commerciale. Lo stesso ENI ha rivolto le sue mire coloniali verso l’interno e, in accordo col governo Renzi, ha avviato una campagna di trivellazioni devastanti per il nostro territorio. Trivellazioni che, oltretutto, sottraggono risorse che potrebbero risultare preziose per bisogni futuri. L’Ente “Nazionale” Idrocarburi si comporta nei confronti del proprio Paese come una qualsiasi multinazionale straniera.
Il pretesto nazionalistico andava bene finché funzionava come arma contro il lavoro, ma ora l’europeismo e l’atlantismo sono considerati strumenti più efficaci per lo stesso scopo. Il fantasma dell’interesse nazionale viene perciò identificato con la tutela delle organizzazioni sovranazionali.
Non a caso nell’articolo 117 dell’attuale progetto di revisione costituzionale, si afferma che la potestà legislativa di Stato e Regioni si esercita nel rispetto dei vincoli dei trattati internazionali. Non solo l’UE, ma soprattutto la NATO, assurgono ufficialmente al ruolo di nume tutelare della Repubblica.
A sostegno della mitologia europeistica ed occidentalistica, instancabili campagne mediatiche diffondono nell’opinione pubblica l’odio di categoria, in particolare nei confronti dei dipendenti pubblici, da additare come i responsabili dell’arretratezza italiana. Le ipotesi di opposizione interclassista come il “sovranismo” (il recupero della sovranità monetaria, la priorità della Costituzione nazionale nei confronti dei trattati internazionali, ecc.) trovano quindi il loro oggettivo ostacolo nell’inestinguibile odio di classe delle oligarchie contro il lavoro.
I dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico indicano che i cittadini italiani sono in assoluto tra i meno indebitati del mondo, meno degli Americani, meno dei Francesi e meno dei Britannici. Il Regno Unito presenta addirittura il record di indebitamento delle famiglie. Contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, la disoccupazione e la precarietà costituiscono un incentivo all’indebitamento. E dove ci sono più disoccupati, cioè tra i giovani, vi è anche meno percezione dei rischi connessi all’uso della carta di credito. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” comunica a riguardo un dato sconcertante, secondo il quale almeno il 5% dei giovani utenti inglesi di carte di credito non ha neppure la consapevolezza che il denaro speso vada restituito.
Se i dati OCSE confermano invece l’attitudine prudente e risparmiatrice degli Italiani, l’informazione ufficiale non perde comunque l’occasione per ricordare che il debito pubblico italiano appare ancora fuori controllo. I due dati però non sono affatto in contraddizione come ci si vorrebbe far credere. Se gli Italiani sono poco indebitati è perché sono in gran parte creditori dello Stato, cioè tendono a risparmiare in titoli pubblici nonostante i consigli in senso contrario delle banche, le quali vorrebbero riservare per loro stesse quel tipo di investimento così scevro da rischi.
Attualmente il debito pubblico italiano è di nuovo quasi tutto interno ed un governo meno prono alle lobby finanziarie potrebbe facilmente renderlo tutto interno, perché c’è un ceto medio ancora capace di comprarlo, quindi oggi l’emergenza-spread appare più fittizia che mai. Ciò dovrebbe sfatare molto del terrorismo che ancora si diffonde circa i disastri di un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro. Evocare continuamente l’esempio della Grecia per avallare questi terrori non tiene conto del fatto che il debito pubblico greco è nella gran parte nei confronti di creditori esteri.
Probabilmente gli “euristi” fanno tanto terrorismo poiché sono a loro volta terrorizzati; infatti non ci viene spiegato come mai, in quattordici anni di storia, l’euro non sia mai diventato una valuta di riserva, cioè una moneta di pagamento per gli scambi internazionali che fosse alternativa, o almeno complementare, al dollaro. Il punto è che l’euro va bene per tenere compatto il gregge europeo sotto lo stemma NATO, ma non certo per dar fastidio agli Stati Uniti, ovviamente se si vuole rimanere vivi ed in salute (e ciò spiega la persistente pavidità anche di quegli esponenti della “sinistra” e di quei dirigenti sindacali che, a differenza di Renzi, non possono affidare la propria salvezza personale alla prospettiva di farsi cooptare in qualche lobby multinazionale).
Il motivo per cui in Italia c’è meno indebitamento delle famiglie non è genericamente culturale, ma è dovuto appunto alla presenza di un ceto medio vasto e consistente; un ceto medio che costituisce un notevole datore di lavoro attraverso il fenomeno dei badanti e che svolge anche la funzione di ammortizzatore sociale per i giovani lavoratori precari e privi di garanzie che trovano nella famiglia il proprio punto d’appoggio. Ci sarebbe comunque da dubitare circa il carattere lusinghiero e confortante dei dati OCSE sullo scarso indebitamento delle famiglie italiane. Quei dati indicano infatti che gli Italiani rappresentano un target dei “servizi finanziari” ancora tutto da colonizzare.
Nel settembre scorso la Banca Centrale Europea ha rilasciato dichiarazioni di apprezzamento sui risultati del renziano “Jobs Act”, il quale avrebbe impresso “dinamismo” all’occupazione. La stessa BCE si lamenta però del fatto che l’Italia ha contribuito scarsamente alla ripresa economica in Europa. Le dichiarazioni della BCE sono quindi contraddittorie o quantomeno equivoche. In realtà se ci fosse stato davvero un aumento dell’occupazione in Italia, questo si sarebbe riflesso anche in un aumento della produttività e del PIL, che invece non c’è stato. Non per niente la BCE, invece di parlare di aumento dell’occupazione, adopera un’espressione ambigua come “dinamismo”, che può voler dire tutto e niente.
Le mistificazioni spudorate del nostro compatriota Mario Draghi dimostrano chiaramente per quale lobby coloniale lavori, quella che vuole sostituire i redditi da lavoro con i prestiti, ciò che in termini tecnici si può definire come “finanziarizzazione dei rapporti sociali”. Il credito/debito diviene quindi la relazione sociale fondamentale, quella a cui tutte le altre sono subordinate. E questo è ancora niente, in quanto occorre considerare che il credito elargito in denaro elettronico/digitale è a rischio zero, poiché l’eventuale insolvenza del debitore non comporta per le banche nessuna perdita di liquidità. Il rischio è quindi interamente a carico del debitore. Non si era mai verificata nella Storia una relazione sociale così squilibrata. La finanziarizzazione dei rapporti sociali non rappresenta una “fase” del capitalismo, bensì costituisce l’esito scontato dell’assistenzialismo per ricchi ogni qual volta i rapporti di forza lo consentano, ovvero quando la disoccupazione sia ormai cronicizzata.
Gli obiettivi del “Jobs Act” si inquadrano perciò nel progetto recessivo dell’euro, cioè impoverire e precarizzare la popolazione lavoratrice e logorare il ceto medio per costringere tutti ad accedere maggiormente a “servizi finanziari”. Non a caso la stessa BCE, dopo gli apprezzamenti sul “Jobs Act”, non rinuncia alla solita ramanzina sul debito pubblico; proprio quel debito pubblico che costituisce tuttora il rifugio del risparmio delle famiglie e che fa da ombrello persino alle banche italiane.
Sino alla caduta del Muro di Berlino il ceto medio proprietario di immobili e titoli era stato uno dei capisaldi della reazione al comunismo, mentre oggi la lobby finanziaria globale sta facendo di tutto per spolparlo. Il ceto medio italiano è più nel mirino di altri perché dispone ancora di parecchio da saccheggiare. Questo ceto medio ha difficoltà a difendersi a causa della sua vulnerabilità ideologica nei confronti degli slogan del “rigore” e dell’ “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”; ciò in conseguenza di una tradizionale mentalità pauperistica e di un atteggiamento punitivo nei confronti del lavoro. Tale mentalità può spesso camuffarsi di slogan progressisti e di moralismo anti-consumistico, ma si smaschera per la sua tendenza a colpevolizzare le rivendicazioni salariali. Un’alleanza tra il ceto medio in via di “proletarizzazione” e la classe operaia rimane quindi problematica e forse impossibile.
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